domenica 20 marzo 2011

L'unità d'Italia in cucina: è Artusi il Garibaldi delle ricette?


Gli stranieri interessati alla nostra cucina generalmente la vedono abbastanza unitaria: pizza, spaghetti, tagliatelle, lasagne, tortellini.
Ma, mettendo meglio a fuoco, specialmente noi che ci siamo dentro la vediamo molto più variegata e ci rendiamo conto di tante differenze.  
E' un po' come tutto il resto: l'Italia e gli italiani sono stati percepiti come unitari più da fuori che da dentro. Nell'antico regime gli italiani che servivano in armi all'estero, ed erano un bel po', venivano normalmente inquadrati e registrati come italiani, da qualunque stato provenissero. E anche in cucina, visti da fuori spaghetti al pomodoro, visti da dentro tanti campanili, tanti dialetti, tante varietà.
Tutta questa vicenda storico-culinaria ha una ricca bibliografia. Ma recentemente è uscito un piccolo libro di Massimo Montanari, documentato e professionale, che ha il pregio di essere sintetico, leggibile e snello: L'identità italiana in cucina.
Montanari insegna storia medievale e storia dell'alimentazione all'Università di Bologna: la sua tesi di fondo è che "una cucina italiana intesa come modello unitario, codificato in regole precise, non è mai esistita e non esiste tuttora. Se però la pensiamo come 'rete' di saperi e di pratiche, come reciproca conoscenza di prodotti e ricette provenienti da città e regioni diverse, è evidente che uno stile culinario 'italiano' esiste fin dal Medioevo. Le identità non sono inscritte nei geni di un popolo ma si costruiscono storicamente, nella dinamica quotidiana del colloquio fra uomini, esperienze, culture diverse. L'italianità della pasta, o del pomodoro, o del peperoncino è fuori discussione. Ma è anche fuori discussione che la pasta, il pomodoro, il peperoncino appartengano in origine a culture diverse".
Si parte dalla constatazione che l'Italia storicamente è una rete di città, un paese policentrico, anche in cucina. Più che regionale ai suoi albori la cucina italiana è soprattutto cucina di varietà cittadine. Presto le tradizioni culinarie si confrontano, soprattutto fra le classi alte circolano ricette provenienti da altre città, si delineano i primi ricettari più generali, dagli anonimi trecenteschi al quattrocentesco Mastro Martino, al milanese Ortensio Lando (1548), fino alla grande Opera di  Bartolemo Scappi (1570) che illustra e paragona la cucina di importanti città italiane: Milano, Genova, Bologna, Napoli. Interessantissimo ad esempio l'excursus sulle torte e sulle loro differenze ("i napoletani la chiamano pizza"): nell'insieme siamo già di fronte ad una specie di antologia di cucina italiana.


Saltando qui qualche passaggio - che consiglierei però di seguire nel libro, perché davvero tutti interessanti e qualche volta sfiziosi - arriviamo al monumento della cucina italiana: nel 1891 viene pubblicato La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene di  Pellegrino Artusi.
Il libro nella prima edizione conta 475 ricette; nel 1909, nella 23a, le ricette sono diventate 790. Cosa è successo?
Pellegrino Artusi è nativo di Forlimpopoli, in Romagna, con una notevole dimestichezza con la cucina emiliano-romagnola e toscana. Inoltre è un mazziniano, un fervente sostenitore dell'unità italiana, che vorrebbe realizzare anche in cucina, fornendo nello stesso tempo ai suoi compatrioti i fondamentali per un'alimentazione sana e razionale. L'idea del ricettario non trova però editori entusiasti. Artusi decide di pubblicarlo a sue spese e lo vende per corrispondenza dalla sua casa di Firenze. Il meccanismo funziona, il libro viene richiesto in tutta Italia. Di più, dalle lettrici arrivano ricette, suggerimenti, precisazioni e si arricchisce in modo interattivo: alla fine recepisce elementi della cucina di tutta Italia - anche se Emilia e Toscana restano predominanti - assecondando la tradizione localistica e cittadina, senza fornire una codificazione "nazionale". Paradossalmente l'opera del mazziniano Artusi diviene un documento del carattere policentrico dell'identità e della storia italiana, anche nella cucina. D'altra parte, l'Artusi è diventato IL manuale principe della cucina italiana, presentando la sua varietà in modo unitario. Piero Camporesi ha scritto "che La scienza in cucina ha fatto per l'unificazione italiana più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi Sposi", attraverso il tentativo manzoniano di fornire LA lingua italiana comune.
Senza forzare troppo le analogie, forse l'opera di Artusi, con il suo sano e appetitoso radicamento nella tradizione policentrica italiana, potrebbe essere un buon paradigma dell'unità. Qualche giorno fa sono rimasto colpito (e  francamente divertito) da Giuliano Ferrara che nella puntata di Radio Londra dedicata all'unità d'Italia ha detto che ai sussiegosi e accigliati azionisti in perenne contestazione dell'Italia  "paese da spaghetti alle vongole",  preferisce di gran lunga l'Italia di Pellegrino Artusi, che "ha messo il pomodoro sugli spaghetti!".

Una bella panoramica di Mariarosa Mancuso su Pellegrino Artusi e sul romanzo di Marco Malvaldi Odore di chiuso

mercoledì 2 marzo 2011

Scuola pubblica scuola privata

Questione complicata, a parlarne seriamente. E questione che va al di là della divisione laici/cattolici perché riguarda il diritto di scelta della linea educativa, diritto che starebbe nella disponibilità della famiglia e non dello stato più o meno etico. E' a questa posizione, propria del liberalismo non giacobino a partire da Luigi Einaudi,  che da decenni fa riferimento il mondo cattolico.

Per dirla tutta c'è da aggiungere che in Italia, grazie agli accordi concordatari, i vescovi nominano insegnanti di religione per le scuole pubbliche che poi, cumulando i punteggi, possono trasmigrare in altre discipline, scalando le graduatorie a scapito di colleghi che non godono di questo singolare canale. Ancora, grazie  a una (in questo caso) ambigua lotta al precariato gli insegnanti nominati per la religione a un certo punto diventano di ruolo: questa operazione fa venire meno il principio della fiduciarietà, anche perché - se il vescovo ritira la fiducia- loro di ruolo restano comunque, e vanno ad occupare cattedre di altre materie.  In presenza di questa intrusione di privilegio clericale nella scuola pubblica resta un po' difficile parlare di libertà educativa e di libertà di scelta senza arrossire, al di là dello stretto merito della questione.

D'altra parte c'è una diffusa ipocrisia e una diffusa pratica di "doppia verità" in certi difensori della scuola pubblica ad ogni costo, quelli che vedono in ogni accenno alla libertà educativa un attacco alla laicità, alla resistenza, all'antifascismo e non so che altro. 

Se scendiamo dai piani alti dei principi e andiamo nella vita concreta scopriamo che il ragazzo tredicenne che dal palco ha recitato la sua invettiva contro Berlusconi frequenta l'Istituto San Carlo di Milano, uno dei vertici delle private milanesi. Sui social network gira l'informazione che in scuole private studiano i figli di Anna Finocchiaro, la figlia di Giovanna Melandri, le figlie di Francesco Rutelli,  il figlio di Nanna Moretti, i nipoti di Fausto Bertinotti, la figlia di Michele Santoro. Non ho controllato, ma non ci troverei niente di male: utilizzano il diritto alla scelta educativa che è proprio delle famiglie; certamente pagano rette più o meno consistenti. Ma il problema -dico il problema, non la soluzione - di chi chiede che una parte dei suoi oneri fiscali possa essere sgravato dalla spesa della retta forse lo potrebbero intravedere anche loro.
Anche sul finanziamento - a parlarne seriamente - la cosa si fa complicata, perché il clericalismo più clientelare preferisce gli aiuti  erogati direttamente alle scuole private, mentre il liberalismo non giacobino e non azionista preferirebbe l'arma dello sgravio fiscale e/o del buono scuola, che ciascuno spenderebbe dove vuole: e via con la competizione, con lo stato che controlla la qualità degli insegnanti e verifica i risultati delle scuole. Ognuno può vedere come siamo lontani anni luce da soluzioni che in paesi anche non cattolici sono già largamente presenti e come il dibattito su questi argomenti si trasformi immediatamente in una rissa mediatica in cui non c'è modo di chiarire ragioni e posizioni.

L'intervento di Berlusconi, fatto con le sue modalità abituali, avrebbe potuto dare l'opportunità di discutere senza ipocrisie, facendo anche la tara dell' avvelenamento ideologico che si praticherebbe nelle scuole pubbliche e di conseguenza non nelle private. Ma crede davvero che nelle scuole private, soprattutto cattoliche, circolino principi e ideologie tanto diverse? Davvero pensa  che tutta quella gente saldamente di sinistra manderebbe i figli nelle scuole private se sapesse che se li "lavorano"  insegnanti che li distolgono dalle visioni progressiste della vita e della cultura? O piuttosto pensano di far frequentare  ai loro figli delle scuole care ma tecnicamente buone? E magari - questo sì un po' singolare per gente che si proclama di sinistra- ben frequentate, senza figli di emigrati, senza complicati inserimenti di rom, senza ragazzi difficili di periferia? Insomma senza tutti quei fastidi che ritengono educativi e democratici ... per i figli degli altri, la gente comune che -orrore- guarda la tv e la vorrebbe di 50 pollici a schermo piatto in 3D, va nei supermercati, aspira a comprare una villetta a schiera, frequenta luoghi di vacanza di massa e per di più magari vota a destra.
Ecco: ma lui lo sa che Travaglio si è formato dai padri salesiani? ovvero che, come lui del resto, è un ex allievo dei figli di Don Bosco?

Su questo tema interessante iniziativa del Foglio