giovedì 16 novembre 2017

Se i poeti lo mandano a dire: qualche divagazione tra Lucio Dalla e Guido Cavalcanti

In macchina la radio è quasi sempre un sottofondo. La ascolto distrattamente, guardando la strada e lasciando ai pensieri il diritto di vagare. Ma ogni tanto una notizia o un motivo musicale spezzano l'incanto del semiascolto e -prepotenti- reclamano attenzione.

Giusto un paio di sere fa una voce molto particolare e riconoscibile ha interrotto il flusso dei pensieri e mi ha catturato con una melodia struggente. Non lo so se Canzone è il brano più bello di Lucio Dalla, di cui non sono certo un conoscitore affidabile, ma sicuramente nella mia personale graduatoria sta in pole position con Caruso, struggentissima anch'essa, densa di pathos biografico, di sentimento della lontananza e di presagio della morte, ingredienti di prim'ordine per la saudade sempre in agguato quando l'esistenza non si è completamente e tranquillamente radicata in nessun luogo.

Ma Canzone fa una cosa più intriganteimmette nel circuito emotivo un elemento "tecnico-retorico" che accende subito la mia curiosità di cercatore di tracce e di percorsi: è lei che per conto del poeta raggiunge la donna sognata e le porta il messaggio dell'amore inappagato.

Corrotto irrimediabilmente dalla frequentazione del Liceo, mi viene subito in mente la "ballatetta" del Cavalcanti, con quell'attacco davvero straordinario: perch'i no spero di tornar giammai.... C'è l'esilio irredimibile, la donna remota, e la ballatetta incaricata di parlarle. I toni espressivi sono più misurati e certamente meno laceranti, ma lo schema è già completo. L'attacco contiene in modo definitivo tutta la poesia dell'esilio e del limite dell'esistenza. E non è un caso che quel verso, reiterato, sia pari pari l'incipit del cruciale Mercoledì delle ceneri di Eliot (Because I do not hope to turn again. Because I do not hope. Because I do not hope to turn...).

Dunque la canzone di Dalla come la ballatetta di Cavalcanti, ma con molto, molto pathos in più: diciamo che lo strazio esibito di Dalla (o piuttosto di Samuele Bersani) è assai più vicino alla nostra sensibilità educata da robuste dosi di romanticismo, e non solo quello alto del genere Inni alla Notte di Novalis, ma anche quello un po' più a buon mercato di cui è inevitabilmente intriso il nostro immaginario filmico e musicale. 

E però la cosa si fa lunga, perché l'artificio retorico degli "ambasciatori" -e di latori vari di messaggi in bottiglia- che raggiungono la donna del cuore e le parlano non si ferma certo qui. Obbligatoria la presenza in catalogo della colomba bianca, con il suo messaggio amoroso (notissimo) e patriottico (meno noto ma assai rilevante in quegli anni, con Trieste ancora sotto l'occupazione alleata): la ripropongo nella classica interpretazione di Nilla Pizzi. Andando in territori meno pop, e in un contesto tutto diverso - si tratta della madre e non della donna amata e agognata- come non ricordare Giorgio Caproni, che manda ripetutamente la sua anima a Livorno per guardarla camminare per le strade, fino all'ultima preghiera?

Giorgio Caproni



Credo che sarebbe interessante saperne di più, anche perché sono sicuro che, al netto dell'emozione e dell'impatto on the road con una Canzone, non sono stato certo il primo a rilevarne le somiglianze e gli antecedenti, come si può già vedere da questo contributo.
Dunque, niente di meglio che fare ancora qualche ricerca, e darci appuntamento per un nuovo post, possibilmente più fondato.





Toscana, quando l'antifascismo diventa un bavaglio

Voi credevate che l’eccellenza toscana fosse quella alimentare, che so l’olio d’oliva o la ribollita, o magari il lampredotto? e  che quella artistica e storica fosse racchiusa nelle sue splendide città e nei suoi borghi suggestivi? Tutta roba scontata.
Voi credevate che i problemi della Toscana fossero la recessione, il lavoro dei giovani, la fiscalità che opprime l’artigianato e l'impresa? Tutta roba banale.
Voi credevate che i problemi della Toscana costiera fossero i trasporti e la sudditanza a Firenze della sua classe dirigente? Tutti discorsi faziosi.
La Toscana rossa e pensosa vola in alto, fa la prima della classe e si dà una nuova mission: fermare l’ondata antifascista che dilaga nelle sale comunali e negli spazi pubblici.
E come?

Sul Giornale dell’11 novembre se ne è occupata Eleonora Mancini, riferendo di una delibera approvata nel comune di San Giuliano Terme (in provincia di Pisa) che introduce l’obbligo di certificazione preliminare alla concessione di spazi pubblici, con tanto di autodichiarazione di adesione ai valori della Resistenza e dell’antifascismo. La giornalista evidenzia il carattere censorio e probabilmente anticostituzionale di questa curiosa procedura adottata dal comune pisano, noto faro antifascista, e nello stesso tempo apre una finestra inquietante su un percorso più ampio, che dovrebbe coinvolgere molti altri comuni toscani, a cominciare, pare, da Pisa, Prato e Siena: il gruppo consiliare PD in Regione ha presentato una mozione, prima firmataria Alessandra Nardini, giovane esponente della sinistra dem dell’area pisana (per capirci, di quell'area che forse dovrebbe indurre il suo partito a preoccuparsi di più del tentato scippo dell’aeroporto da parte del giglio magico renziano), con lo scopo di impegnare la presidenza a  “vietare l’utilizzo di sale e spazi all'interno delle sedi del Consiglio regionale per le associazioni o manifestazioni che si richiamano al fascismo o che abbiano orientamenti razzisti, xenofobi, antisemiti, omofobi e, in generale, discriminatori. Questo l’obiettivo della mozione con cui si impegna l’ufficio di presidenza ad intervenire sul regolamento del Consiglio Regionale e si invita la Giunta Regionale ad approvare un analogo provvedimento e sensibilizzare i Comuni che ancora non l’hanno fatto ad adottare iniziative in tal senso”.


Il proposito censorio dunque si allarga, e -giacché ci siamo, pensano gli scaltri imbavagliatori-  facciamo un bel pacchetto e ci mettiamo dentro anche gli xenofobi, i razzisti e, ovviamente, gli immancabili omofobi.
A parte il fatto che nell’elenco delle perversioni alla Nardini e compagni sono sfuggite di sicuro la transfobia in sequenza con almeno un’altra decina di fobie di nebulosa identificazione penale e incerta collocazione intellettuale, c’è invece una dimenticanza che si deve registrare con preoccupazione e che meriterebbe ben altro clamore e indignazione nell'opinione pubblica rispetto al quasi totale silenzio che avvolge queste iniziative estemporanee: chi decide? ossia, sarebbero gli stessi comuni rossi, magari personificati dai loro assessori-militanti, ad escludere associazioni, convegni e presentazioni di libri che non siano riconducibili alla vetusta vulgata antifascista,  quella obbligatoria prima del dibattito -da tempo acquisito nella storiografia-  innestato dai De Felice, Gentile, Nello, Perfetti, Parlato? Sarà possibile parlare del fascismo nei termini in cui loro  lo hanno studiato, o magari nei termini di un Veneziani e perché no di Pennacchi? Non rischia anche l’interpretazione della Resistenza come guerra civile, propria di uno storico di sicurissima appartenenza alla sinistra come Claudio Pavone? E Giampaolo Pansa col suo Sangue dei vinti sarà bandito dai comuni democratici? E ancora, di più, la galassia indistinta e maldefinita dell’omofobia comprenderà anche chi sostiene che gli umani nascono dalla differenza sessuale maschio/femmina o combatte l’utero in affitto, come asseriscono le più agguerrite associazioni LGBTq a cui fanno da megafono tanti assessori PD?

Non sono domande da poco perché, al netto della solerzia da prima della classe della (in verità sempre meno) rossa Toscana, emerge un preoccupante disegno censorio che consegnerebbe la libertà di espressione e di cultura all’arbitrio dei detentori della macchina amministrativa dei comuni.
E’ una preoccupazione esagerata? La smentiscano, ritirando queste orwelliane delibere di esame democratico preventivo, e si comportino da liberali, dimenticando minculpop e dirigismo culturale, e lasciando semplicemente all’eventuale denuncia penale le eventuali violazioni della legge.

(L'articolo è stato pubblicato, con lievi differenze e privo di link, su L'Occidentale  del 13 novembre 2017)


martedì 6 giugno 2017

Nella lotta politica ci sono ancora le destre e le sinistre. E fanno ancora la differenza

Da due secoli le categorie destra e sinistra sono la chiave di lettura più importante della politica e, benché la linea di divisione in 200 anni non sia rimasta sempre immobile, nel complesso ancora godono di buona salute nella mentalità, nella sociologia e quindi nella scienza politica.
Ogni tanto ne viene annunciato il superamento, sull'onda di fatti che magari dovrebbero essere guardati in modo più approfondito.


Partiamo dalla Francia, sempre in qualche misura paradigmatica per molte delle le nostre interpretazioni della lotta politica, almeno dalla Rivoluzione dell'89 in poi.
 La vittoria di Macron nelle presidenziali francesi, è stata letta da più parti con questo schema; e però non si è tenuto conto a sufficienza di alcuni elementi non proprio secondari.  E’ verissimo che il profilo di Macron non è riconducibile alle destre e alle sinistre classiche  tradizionalmente  presenti nel panorama politico francese: questa voluta – potremmo dire anche costruita -  indeterminazione gli ha giovato enormemente, nel momento in cui da un lato una serie di eventi sfavorevoli ha colpito la candidatura Fillon, e dall'altro la candidatura Le Pen, nonostante la forte crescita di consenso, al secondo turno non è riuscita a sfondare nel serbatoio della destra gollista. Semplificando, più che a un reale superamento “ideologico” della divisione destra/sinistra, la sua vittoria è dovuta in primo luogo all’irriducibilità delle due destre francesi, separate traumaticamente non solo dalle scelte compiute durante la Resistenza, ma ancora di più dalla vicenda dell’Algeria e dai postumi della lotta dell’OAS e del revanchismo pieds-noir contro il generale De Gaulle. A questo dato storico-ideologico si sono sicuramente aggiunti altri elementi fattuali, come la diffidenza del ceto medio moderato verso la radicalizzazione no-euro oppure la relativa freddezza della Le Pen -e soprattutto del suo vice Philippot-  verso i temi cari ai cattolici conservatori: non si dimentichi che il nerbo della organizzazione di Fillon, quella che lo aveva spinto fortemente nelle primarie, era costituito da militanti vicini alla Manif pour tous.

C’è poi un secondo e importante elemento di natura squisitamente ideologica e politica che è andato a vantaggio di Macron: il fatto che in Francia una profondissima linea di faglia ancora divide la destra dalla sinistra: nonostante che la cultura politica francese sia forse quella storicamente più incline al mescolamento, nonostante una lunga vicenda di intrecci e suggestioni anche forti (basta ricordare la linea che unisce Boulanger e Barrès, fino a Drieu La Rochelle e al “fascismo immenso e rosso” di Brasillach[1] ), la persistenza della linea divisoria nella mentalità e nella sociologia di fatto ha ostacolato la ricongiunzione di antieuropeismo e antiglobalismo di destra e di sinistra, che in termini numerici sarebbe stata assai probabilmente maggioritaria.





Se dalla Francia, in cui il terreno della contaminazione pure è notoriamente fecondo, ci spostiamo verso altri paesi, che non hanno conosciuto il nazionalismo giacobino e il suo afflato quasi fisico verso la Patrie, la linea di demarcazione appare ancora più chiara.
Infatti i paesi che hanno ereditato la “libertà degli inglesi” sono caratterizzati da una divisione destra/sinistra ancora più radicata: la linea non è certo immobile, ma è sempre riconoscibile.
Così capita in Gran Bretagna -dove la lotta politica tra conservatori e laburisti è sempre centrale e solo occasionalmente dà spazio a “terze vie”, come si vede anche oggi nella competizione tra May e Corbyn; negli Stati Uniti all’interno del Partito Repubblicano, nonostante le peculiarità del fenomeno Trump, la destra della right nation è stata sempre presente in varie gradazioni, fino a diventare emblematica con Goldwater e poi maggioritaria ed egemone da Reagan in poi.
Ma la chiarezza della linea è ben visibile soprattutto nei paesi “minori” dell’Anglosfera, le cui vicende politiche al dettaglio abitualmente non attirano l’attenzione dei nostri media: Australia, Nuova Zelanda, Canada.

Non so se altri osservatori, oltre a Marco Faraci su Strade, hanno notato che pochi giorni fa, il 27 maggio, al termine di un lungo processo di “primarie” ad eliminazione, dopo 13 ballottaggi, Andrew Scheer, di 38 anni, è stato incoronato leader del Partito Conservatore. Gli aspiranti erano tanti, con profili più o meno liberisti, più o meno aperti sul tema dei nuovi diritti, ma alla fine di un percorso durato quasi un anno ha prevalso la linea di Scheer, conservatore sui temi etici e sociali e liberale in economia, sconfiggendo l’ultraliberista Bernier, piuttosto libertario sui temi etici, mentre la candidata più “trumpiana”, Kellie Leitch, è rimasta molto al di sotto delle aspettative.
Nell’accettare la nomina Scheer ha ribadito che il partito conservatore sarà sempre il “partito della prosperità e non dell’invidia”, il “partito dei contribuenti e non degli insider” e ha ribadito come fondamento dell’azione politica il concetto che la società viene prima dello Stato; ha promesso di intervenire sulle università che impediscono il dibattito e di operare contro la censura del “politicamente corretto”.
Come conclusione mi pare di non poterne fare una migliore di quella di Marco Faraci: “Contrariamente a chi ritiene che ormai la politica ruoti attorno ad altre polarità e che quindi serva farsi bastare anche dei Trudeau, dei Macron e, ça va sans dire, dei Renzi, i risultati economici ottenuti negli ultimi anni dai paesi anglofoni dimostrano che l’unica ricetta politica in grado di produrre crescita di lungo periodo e non solamente di gestire il declino è quella della “destra liberista” classica. Altro che “third way” o “liberalsocialismo”. Back to the basics: qui servono dei Reagan e delle Thatcher e in certi paesi, per fortuna, ancora se ne trovano”

(Articolo apparso sullOccidentale del 5 giugno, con lievi differenze e col titolo Canada: la nuova leadership dei conservatori insegna che destra e sinistra esistono ancora)





[1]I bimbi che un giorno saranno ragazzi di 20 anni apprenderanno con oscura meraviglia dell’esistenza di questa esaltazione di milioni di uomini, i campeggi della gioventù, la gloria del passato, le sfilate, le cattedrali di luce, gli eroi caduti in combattimento, l’amicizia tra i giovani di tutte le nazioni rinate. Josè Antonio, il fascismo immenso e rosso. E io so che il comunismo ha, anch’esso, una sua grandezza del pari esaltante. Può addirittura essere che, tra mille anni, si confondano le due rivoluzioni del XX secolo”. (Robert Brasillach, Lettera a un soldato della classe ’40). La suggestiva espressione di Brasillach fu usata come titolo di un famoso libro di Giano Accame, deciso sostenitore di una versione italiana del “fascismo di sinistra”.

venerdì 31 marzo 2017

Nel mondo dei robot: ci ruberanno il lavoro o lavoreranno per noi?


robot

Scenari che fino a pochi anni fa sembravano confinati ai film di fantascienza e ai romanzi di Urania sembrano prendere corpo, e possiamo intravedere instancabili androidi calati nella vita reale come compagni di lavoro o, come nei film più inquietanti, addirittura come padroni delle nostre vite. Già nel corso del Forum 2016 di Davos il rapporto Future jobs ipotizzava una diminuzione di più di 7 milioni di posti di lavoro (con la nascita contestuale di 2 milioni di posti di alta qualificazione) in conseguenza dello sviluppo dell’industria 4.0.
Ma non è tutto: nei giorni scorsi l’associazione Amici di Marco Biagi, presieduta da Maurizio Sacconi, che si contraddistingue per un’attenzione tutta particolare ai temi del lavoro e dell’innovazione, ha richiamato l’attenzione su una ricerca della nota società di consulenza PriceWaterhouseCoopers (PWC) riguardo alle prospettive legate alla crescente robotizzazione di molte attività lavorative, considerando l’arco temporale dei prossimi 15 anni. Il primo dato che emerge dalla ricerca riguarda le aree geografiche: si va dal 38% di sostituzione di robot con umani negli Stati Uniti al 30% nel Regno Unito al 21% in Giappone.
Secondo gli autori la penetrazione è correlata al grado di istruzione media, ossia la robotizzazione sarà più blanda dove il livello di istruzione è più alto: è facile capire che la sostituzione è ovviamente più problematica se si tratta di lavori complessi che richiedono un livello di preparazione medio-alto. Un secondo elemento preso in esame, strettamente connesso con il primo, riguarda la tipologia dei lavori “minacciati”: in prima linea, con l’ovvia massiccia presenza dell’industria 4.0, ci sono i trasporti, per la probabile avanzata delle self-driving car, poi lo stoccaggio nei magazzini, per la gestione sempre più automatica delle merci, ma anche i servizi alimentari.
Più difficili da automatizzare, con ampie aree di resistenza della complessità “umana”, sarebbero i lavori legati all’educazione-istruzione, alla sanità e al sociale. Buone notizie? Cattive notizie? Intanto bisogna prendere atto dello scenario, anche se sappiamo (speriamo?) che non sempre le previsioni sul futuro tecnologico si avverano al dettaglio. Gli autori della ricerca, come del resto il rapporto del Forum di Davos, si spingono ottimisticamente a immaginare un quadro in cui l’eliminazione dei lavori più ripetitivi forse consentirà una crescita di impieghi nuovi di più alto valore intellettuale; e questo è il dato che sottolinea John Hawksworth, chief economist in PWC.
Chiaramente questa prospettiva vagamente neo-fourieriana non convince del tutto e soprattutto resta la preoccupazione per le dimensioni quantitative di ciò che scomparirebbe rispetto a ciò che emergerebbe: riesce difficile immaginare una piena reintegrazione lavorativa dei soggetti espulsi dal ciclo produttivo. Ma, al netto della polarità ottimismo-pessimismo, dobbiamo immaginare davvero come unica soluzione una “tassazione dei robot”, come ha proposto Bill Gates, per finanziare altra occupazione nelle aree non robotizzabili e arricchire gli ammortizzatori per la disoccupazione?
Sono domande importanti che la politica, purtroppo spesso condannata all’orizzonte ristretto dell’immediatezza, dovrebbe porsi, magari andando un po’ al di là delle dispute tipo curriculum vs calcetto. Lo scenario del lavoro futuro difatti presenta almeno due punti critici, che rischiano concretamente di diventare dirompenti per le nostre società: il primo è la riduzione drastica dei lavori a più basso tasso di specializzazione, con problematiche legate agli assetti della working class, ma anche alla integrabilità nel nostro sistema produttivo con eventuale manodopera generica proveniente dall’immigrazione.
Il secondo è la paurosa latenza di lavoro giovanile: è di questi giorni il rapporto Aran che certifica attorno al 3°% la presenza di addetti sotto i 30 anni nella pubblica amministrazione (e questo aspetto puntuale aprirebbe un ulteriore e complicato discorso, che però bisognerebbe cominciare a fare…). La mancanza di turnover adeguato in tutti i settori non solo mette in crisi le speranze di futuro delle nuove generazioni, riguardo alla loro capacità di porsi costruttivamente nei processi sociali, economici e culturali dei prossimi decenni, ma ha effetti catastrofici sul sistema pensionistico e previdenziale.
Al di là della valutazione di insieme, la ricerca Pwc suggerisce una pista molto importante, indicando che i settori più resistenti e che potranno produrre nuova occupazione sono quelli dove il bagaglio culturale è più importante. Lo sguardo lungo della politica buona dovrà rendersi conto dell’ovvio: investire in formazione, in merito, in acquisizione di cultura e di competenze non è un lusso, ma una necessità per la sopravvivenza delle nostre società, se ci vogliamo giocare la chance di non farle diventare una colossale plaga abitata da disoccupati mantenuti con qualche assegno sociale spremuto ai padroni dei robot.
Anche di questo l’agenda culturale e politica del centrodestra ricostruito, se vorrà essere veramente “di governo”, dovrà farsi carico, pena l’irrilevanza sui grandi temi del nostro futuro.

(articolo pubblicato sull'Occidentale il 31 marzo 2017)

Digital libray italiana



C’è stato un tempo, non troppo remoto, che per un muro crollato a Pompei si arrivava ad armare una mozione di sfiducia individuale al ministro dei Beni Culturali. Qualcosa (o tanto) è cambiato, se praticamente solo Giulia Barrera sul Manifesto del 17 marzo (Quel pasticcio della “Digital Library Italiana”) ha rilevato l’approssimazione e la superficialità con cui il Ministro in carica ha affrontato un tema strategico come un progetto nazionale di digitalizzazione delle immagini e dei testi.
Ricapitoliamo: il 10 marzo il ministro Franceschini annuncia la “nascita” della Digital Library italiana. L’inglese è d’obbligo, e il clima è perfettamente riassunto dal peana che compare sulla Stampa: “Dalla biblioteca Angelica a quella Casanatense, dall’Alessandrina alla Medicea Laurenziana, dalla Marciana alla Braidense. C’è una vena d’oro sotterranea e nascosta ai più che scorre tra le meraviglie archeologiche, architettoniche e monumentali con cui l’Italia abbaglia i viaggiatori di tutto il mondo: profuma di pagine antiche, preziose e irriproducibili ed è disseminata nel silenzio delle tantissime e bellissime biblioteche italiane”.
“Ma qualcosa sta per cambiare: nasce oggi infatti la Digital Library italiana, una biblioteca nazionale digitale, che avrà l’obiettivo di valorizzare questo sterminato patrimonio diffuso e di renderlo fruibile a chiunque ne faccia richiesta, anche a distanza. Ad annunciarlo è il ministro Dario Franceschini in una conferenza all’Accademia dei Lincei”. Come commentare? Che finalmente usciamo dall’arretratezza e siamo vicini a un traguardo decente?
Le cose purtroppo non stanno esattamente così: prima di tutto è un vero peccato che questo nuovo cospicuo finanziamento annunciato (due milioni di Euro) non sia il primo della serie: come ha scritto la Barrera, “negli anni, infatti, di soldi se ne sono spesi e anche tanti; più di un ministro ha infatti voluto cogliere i benefici di immagine che poteva offrire il comparire come colui che digitalizzava il patrimonio culturale italiano”.
E’ almeno dal 1986 che si investe in progetti per le tecnologie per i beni culturali: i “giacimenti culturali” (600 miliardi, il progetto “Cultura Italia”, 1 milione e 300mila Euro), il progetto di digitalizzazione del patrimonio librario attivato in accordo con Google; e poi molti altri, patrocinati da Regioni, Enti locali, Università: un fiume di denaro, una miriade di iniziative spesso non ben coordinate. I risultati? Diciamo discontinui (ma non inesistenti), a volte deludenti, come il caso di “Cultura Italia” che, partito con obiettivi molto ambiziosi, restituisce al navigatore poco più di quello che si può trovare con una normale ricerca in Google.
I difetti? Prima di tutto questi progetti sono spesso frutto della cultura dell’annuncio, non vengono impiantati sul terreno solido delle verifiche: così si dice impunemente che il patrimonio culturale è all’anno zero delle tecnologie, e si ignora (ricorda sempre la Barrera) che “il Sistema archivistico nazionale permette di accedere alla descrizione del patrimonio documentario conservato da oltre 10mila istituti di conservazione e di accedere a più di 55 milioni di documenti digitalizzati; e il Servizio bibliotecario nazionale permette di consultare on line il catalogo unificato di circa 6mila biblioteche e accedere a 800mila testi digitalizzati. Un altro portale, “Internet culturale”, è finalizzato a facilitare l’accesso alle copie digitali di libri e periodici antichi e include oltre 10 milioni di oggetti digitali”.
Detto altrimenti, queste istituzioni, pur con una gestione che a volte è stata considerata burocratica e dispersiva, hanno costruito nel tempo un patrimonio che è veramente strano possa essere sottaciuto e deprezzato. Ma non finisce qui, perché il fatto più clamoroso è nessuno di queste due entità, nelle cui cabine di pilotaggio sono collocate fior di competenze e anni di esperienze, è coinvolto nel progetto: la creazione della “Digital Library Italiana” è stata affidata all’Istituto per il catalogo e la documentazione (Iccd), il cui fine istituzionale è la catalogazione del patrimonio culturale, ad eccezione di… archivi e biblioteche.
Le logiche sottese a queste scelte politiche sono sempre un po’ misteriose, ma forse non c’è neppure bisogno di ricorrere all’ipotesi di interessi poco trasparenti: a spiegarle forse basta il compulsivo bisogno della politica di avere una vetrina sempre illuminata, anche se molto costosa e poco produttiva.

(articolo pubblicato su Occidentale, 20 marzo 2017)