Il Manifesto del 6 febbraio ha dato il suo
contributo al “giorno del ricordo” con un articolo di Davide Conti intitolato
“Le foibe per dimenticare i crimini del fascismo”, con un chiaro sottotilo: “Giorno del ricordo. I mancati conti col
nostro passato fascista e l’assenza di una ridefinizione della complessità
storica, fanno sì che le foibe vengano presentate come pulizia etnica o come
violenza perpetrata contro gli italiani in quanto tali”.
Il contenuto
dell’articolo ha indubbiamente il merito di
rappresentare senza troppi giri di parole quello che altri sostengono in
modo confuso, e talora utilizzando slogan offensivi per la memoria
della gente italiana del confine orientale: i torturati, gli infoibati, gli
esuli.
Prima di
entrare nel merito può essere d'aiuto un’osservazione preliminare, ossia che l’assunto del titolo
potrebbe essere facilmente rovesciato, e si potrebbe tranquillamente fare il
contrario, cosa che in realtà è accaduta prevalentemente finora: rimuovere i
crimini perpetrati contro gli italiani spostando il discorso sugli antecedenti,
ossia la politica fascista in Istria, Slovenia e Dalmazia. La polemica
storico-politica è ricca di circoli viziosi di questo tipo, che non solo riescono
a intorbidare il racconto delle vicende storiche, ma veicolano un errore grave
dal punto di vista logico e concettuale, e cioè che la successione di due fatti
negativi produca somma zero, anziché, come è ovvio, somma -2: un errore
concettuale che poi si paga pesantemente in termini di giudizi etico-morali e infine,
di quella relativa obiettività a cui possiamo imperfettamente aspirare.
Andando più nel
merito, credo che non ci si debba mai sottrarre al richiamo alla complessità e
alla ricerca dei precedenti e del contesto, che sono il sale della ricerca
storica: questo è un punto che veramente dovrebbe essere sempre tenuto fermo. Sempre,
però, e non solo quando i crimini sono attribuiti alla parte per cui si fa il
tifo (se, per capirci, mi si lascia passare l’espressione un po’ calcistica e
riduttiva). In particolare è vero che questo
caposaldo è importante in tutta la vicenda del confine orientale, in cui la
conoscenza del ventennio precedente è essenziale. Anzi credo che per inquadrare
adeguatamente il dramma del 1943-1947 si debba risalire almeno alla caduta
dell’impero sovranazionale austro-ungarico, e alla fine della coesistenza delle
etnie al suo interno, non sempre idilliaca, ma sostanziale, almeno dal punto di
vista istituzionale.
Un profugo di rango, Enzo Bettiza, nel suo capolavoro Esilio ha messo in luce la ricchezza ma anche la complessità della convivenza in Dalmazia fino alla prima guerra mondiale, fissando nel Trattato di Rapallo del 1920 e nelle dolorose “opzioni” tra nascente Jugoslavia e Italia il punto discriminante per il futuro degli italiani istro-giuliano-dalmati.
E già, perché la presenza italiana in tutta quell’area non si può certo far risalire all'occupazione fascista: complessità per complessità, precedenti per precedenti, sarebbe necessario allungare lo sguardo a ciò che fu la presenza veneziana fin giù alle Bocche di Cattaro, al limite dell’Albania, dove ancora oggi se ne avvertono i segni e perfino le tracce linguistiche, devo dire anche con qualche commozione. Complessità per complessità ovviamente potremmo scendere nel dettaglio delle differenze tra Istria e Dalmazia, e –ancora più in
particolare - tra Pola, Fiume, Zara, Spalato e Ragusa: tutti piccoli mondi
antichi, con le loro belle particolarità, di cui fece un tutt'uno la grande
tragedia dell’esodo dopo la seconda guerra mondiale.
Insomma l’entrata in gioco della complessità, dei precedenti e dei contesti non deve far paura. E’ pur vero che a forza di spiegare gli eventi storici qualche volta si corre il rischio di scivolare nelle giustificazioni: la storiografia convive con questa zona grigia, in cui la linea di confine non è sempre chiarissima, ma è un rischio che è costretta a correre, per sopravvivere come disciplina seria e per svolgere il suo compito con dignità.
Sul filo di
questa linea incerta, e costantemente a rischio di superamento, entriamo però nella
zona più opaca delle tesi veicolate dall'articolo del Manifesto, e in modo
neppure tanto implicito: che significa che nelle celebrazioni del giorno del
ricordo le foibe sono “presentate come pulizia etnica o come violenza
perpetrata contro gli italiani in quanto tali”? Significa che non lo
furono? Nei fatti la documentazione
storica ha dimostrato senza ragionevoli smentite che la pulizia etnica fu
programmata e che la rimozione violenta della presenza italiana fu perseguita
con determinazione. Derubricare l’infoibamento di migliaia di persone e l’esodo
di centinaia di migliaia a falli di reazione e occasionali vendette contro i
fascisti, come continuano a sostenere alcuni settori particolarmente legati
alla narrazione titino-comunista di quegli eventi, sarebbe – e lo è nei fatti- veramente un brutto servizio alla memoria
storica.
Anche i dettagli
efferati e la disumanità dei trattamenti –con un copione uguale su tutto il
territorio istriano- non lasciano spazio per l’interpretazione della vendetta
occasionale e furono programmati scientemente, come in ogni genocidio che si
rispetti (a cominciare dalle file di persone legate col filo di ferro e spinte
nelle foibe alternando vivi e uccisi). E’ documentato che non furono colpiti
solo fascisti o presunti tali, ma genericamente gli italiani, specialmente se
figure in qualche modo socialmente rilevanti, secondo uno schema che i
comunisti hanno utilizzato frequentemente nel corso del Novecento: preti,
maestri, postini, professionisti; ma anche tanta gente comune.
Oggi che la
Repubblica Italiana ha deciso di rendere omaggio a queste vittime, superando
decenni di oscuramento deliberato e fazioso, è proprio il caso di scivolare dall'analisi storica al giustificazionismo corrivo, o peggio al puro
negazionismo?
Andando
verso la conclusione Conti richiama l’attenzione sul “paradossale
voto della commissione Cultura della Camera che… vorrebbe impedire
all’associazione dei partigiani [sarebbe filologicamente più corretto ‘a un’associazione
di partigiani’, ma vabbè] ... di parlare nelle scuole pubbliche del
confine italo-jugoslavo durante la seconda guerra mondiale”. Ecco, prima di
dire ‘paradossale’ bisognerebbe forse chiedersi se per caso dietro questa polemica
magari non si nasconda la pretesa di perpetuare il monopolio di una narrazione
storica non sottoponibile a verifiche e revisioni, e se a parlare dei “traditori”
della divisione partigiana non comunista Osoppo e dell’eccidio di Porzûs, tanto
per fare un esempio, nelle scuole devono essere chiamati solo quelli della
comunista Garibaldi, che ne furono gli autori.
Da ultimo (ma
non è certo ultimo punto per rilievo simbolico): la sentenza finale con cui si
chiude l’articolo, quella che possiamo definire la morale della favola, “Più
ancora di ciò che abbiamo fatto noi partigiani si deve parlare di ciò che è
stato il fascismo. Solo così sarà possibile seppellirlo per sempre”, è una
frase di Rosario Bentivegna, un gappista membro del gruppo che partecipò al
discutibile (e ampiamente discusso) attentato di via Rasella contro un reparto
di reclute tedesche, che qui assurge a testimonial
della corretta visione della guerra civile.
Siamo
sicuri che rivendicare personaggi e episodi di questo tipo sia un modo
accettabile di tener conto della complessità storica? E di suscitare la giusta pietas che scaturisce dalla memoria
condivisa, tante volte e tanto retoricamente invocata?
Decisamente
mi pare che siamo proprio fuori strada.
[Il testo è comparso con lo stesso titolo, con lievi differenze e privo di link, sull'Occidentale del 10 febbraio 2019]
[Il testo è comparso con lo stesso titolo, con lievi differenze e privo di link, sull'Occidentale del 10 febbraio 2019]
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