Questo libro è nostro, mi sono detto appena cinque minuti dopo che lo avevo aperto. Nostro nel senso di quella tribù di disadattati di montagna, che alle radici non vorrebbe mai rinunciare, ma dignitosamente, con l’impegno a non avvolgerle nella melassa idilliaca del buon tempo che fu. Perché buonissimo non fu mai, se così in tanti dovettero andarsene per trovare lavoro, sicurezza e speranze per il futuro: “Chi mantiene un sempre più vago e sfilacciato legame con il paese di origine rende merito alla propria doverosa scelta di andarsene. Chi evoca con sguardo tradizionalista il passato lo arricchisce d’aura bio/romantica, naturalmente buona, di un tempo che fu senza essere mai stato. Nel tempo che fu era ben evidente che questa è una valle di lacrime, oltremodo coinvolgente”.
Giovanni Lindo Ferretti – sulle spalle il sacco della sua importante attività di musicista – è risalito nel suo paese di origine e si è messo a fare l’allevatore/pastore/contadino, il mestiere che i suoi antenati hanno praticato per secoli. Lo sfondo è quello tipico dell’Italia a sud del Po: “Una dorsale di montagne protese su un piccolo mare. Se…siete abitanti delle città, del piano, delle coste, prendetevi un giorno di libertà, non d’agosto né durante le festività ma un giorno qualunque meteorologicamente variabile, e risalite le montagne che comunque delimitano, incombenti o all’orizzonte, il vostro sguardo...Quando si comincia salire e i rettilinei lasciano spazi ai tornanti… è come oltrepassare una frontiera a cui segue lo spopolamento, la disintegrazione del tessuto geologico, sociale, umano”. E sì, perché il paese di Ferretti (Cerreto, in provincia di Reggio Emilia), è un archetipo che vale per il 90% dei paesi appenninici e potete chiamarlo tranquillamente col nome del vostro, se la sorte ve ne ha regalato uno nei meandri della biografia. Qua la stagione della normalità è quella di una casa aperta e dieci chiuse, in attesa del popolo dei weekend, più o meno numeroso (“se le previsioni meteo sono favorevoli”) o di quello agostano, quasi sempre abbondante. La stagione della normalità è quella della messa per cinque persone, e tre che si fumano insieme una sigaretta all’uscita, parlando del più e del meno. Insomma un mondo dove “si sta tra l’agonia e un trapasso già avvenuto ma non comunicato”. Al netto dei ricorrenti progetti di riqualificazione turistica e ambientale, a cui tutti auguriamo successo, ci mancherebbe, purché escano una buona volta dal limbo delle chiacchiere, dei magheggi e delle furbizie.
Alla fin fine le speranze concrete di Ferretti su una possibile inversione di tendenza sono a dir poco scarse: la sua è soprattutto una testimonianza di fedeltà radicata nell’impossibilità di vivere fuori dall’orizzonte della sua casa, della sua chiesa, del suo cimitero; e nella riscoperta delle radici cristiane e “romaniche” della civiltà dell’Appennino.
“Abitiamo una linea di frontiera del tempo che era lo spazio di una civiltà. Le nostre piccole patrie. Facciamo argine all’abbandono puntellando qua e là le esigenze dell’abitare, inventando economie marginali, di sussistenza. Sopravvivere è già un risultato dignitoso, non scontato”.
E se pure noi della tribù appenninica dobbiamo sperare in qualcosa di più (e magari lavorare per ottenerlo) questo libro lo terremo sul tavolo di lavoro o sul comodino, ben in evidenza, per aprirlo ogni tanto, e farci raccontare del vecchio Fiore o di tradizioni viventi come la Perdonanza tra Cerreto e Sassalbo. Per respirare aria buona e mantenerci ancorati al principio di realtà, senza troppe fughe sulle mongolfiere dei sogni impossibili.
In margine a Non invano, di Giovanni Lindo Ferretti. Milano, Mondadori, 2020. 114 pagine.
(Articolo apparso il 1 ottobre sul blog Contrappunto)
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