giovedì 15 novembre 2012

Quando la lingua racconta una storia. E le piccole patrie di casa nostra riemergono dall'oblio


Nella Cecoslovacchia comunista la Bata, nazionalizzata nel 1949, era considerata un simbolo del passato capitalista da rimuovere perfino dalla memoria. L'insegna che campeggiava sul muro dello grande negozio praghese era stata ricoperta di vernice, ma dopo un po' rispuntava fuori, come una metafora beffarda delle stratificazioni del passato che le politiche dedite all'ingegneria sociale si ostinano a rimuovere, e che la storia fa sempre riaffiorare. Ovviamente tutti i praghesi critici o solo scettici verso il regime facevano il tifo per l'insegna e osservavano divertiti il suo riemergere nonostante l'affannoso e reiterato intervento dei verniciatori.
In questi giorni, leggendo delle discussioni sull'accorpamento delle province e sulle identità più o meno profonde che verrebbero misconosciute, e così via discorrendo, mi è venuto in mente proprio questo aneddoto, raccontato dal sociologo cèco Vaclav Belohradsky, ora docente a Trieste.
So bene che  il contesto è completamente diverso, e che in queste polemiche c'è soprattutto tanto campanilismo e poca voglia di cambiare qualunque situazione, ma quando nuovi confini politici e amministrativi imposti sono percepiti come sfregio dell'identità culturale e territoriale, lo sforzo di ascoltare e capire è meglio farlo, perché non accada qualcosa di simile, o almeno di paragonabile.

Tra i segnalatori di identità culturale e storica (le "insegne di Bata") la lingua occupa senza dubbio un posto importante, e molte volte ha marcato i territori con un'impronta forte, anche al là delle divisioni amministrative e delle ingegnerie politiche. Ricordare che il passaggio dalla rivendicazione dell'identità linguistico-culturale a quella politica è stato una molla del nazionalismo romantico a partire dall'Ottocento è fin troppo ovvio. E anche nel secolo scorso le riscoperte linguistiche hanno preparato rivendicazioni politiche importanti: basti pensare al gaelico nell'indipendentismo irlandese o al basco e al catalano in Spagna. A loro volta le lingue, da fenomeni in via di estinzione quali erano, sono state rivitalizzate dalla lotta politica e hanno conosciuto una nuova fioritura, sia pure un po' artificiale.
Queste connessioni sono abbastanza note, ma ce ne sono anche altre da scoprire, e forse più affascinanti, quando le "piccole patrie" sommerse o perdute si pongono a cavallo di più realtà politiche e amministrative ufficiali.


Le "macchie" di parlata ladina che punteggiano l'arco alpino dal romancio svizzero dei Grigioni fino al Friuli, passando per le valli ladine dolomitiche, e vanno a lambire con relitti toponomastici o lessicali anche zone ormai saldamente tedesco-parlanti, come il Liechtenstein (la cui capitale è ladinamente "la valle dolce") e la Carinzia austriaca, limitrofa alla simile Carnia in territorio italiano, secondo alcuni studiosi sarebbero il resto di un'area un tempo molto vasta, che da Coira arrivava fino a Trieste, e che nel tempo è stata coperta dal dominio del tedesco, lingua  della burocrazia dell'Impero asburgico e della predicazione ecclesiastica. Al di là della sostenibilità di questa interpretazione unitaria di grigionese, ladino e friulano, non condivisa unanimemente, resta il fatto che la suggestione di un "mondo sommerso" a cavallo tra ben tre stati qualche anno fa ha partorito anche il  timido tentativo di definire una regione transnazionale chiamata Rezia.


Anche il Tirolo, benché ormai quasi totalmente di lingua tedesca, è diviso in tre aree, due delle quali in Austria e una in Italia. E basta acquistare un giornale a Lienz  o a Bolzano o a Innsbruck e guardare la mappa delle previsioni del tempo per misurare quanto sia sentito come regione unitaria in modo ovvio e direi "rilassato", anche nelle cose più ordinarie.


Meno complicate, ma sempre interessanti, le situazioni all'interno della penisola italiana, come ad esempio la parte della Toscana che parla romagnolo o, detto altrimenti, la parte di Romagna finita nel dominio toscano-fiorentino...o ancora certe realtà sovraregionali solidamente riconosciute come lo storico Montefeltro.


Nell'insieme, guardando la carta dei dialetti italiani, capiamo a colpo d'occhio perché la lingua racconta molte storie. La netta divisione tra il gruppo dei dialetti padani e quelli centrali, la specificità toscana chiarissima e la grande zona delle parlate mediane e meridionali - da cui si staccano risolutamente il Salento e la Calabria centro-meridionale e poi le isole- sono una rappresentazione grafica molto efficace delle storia e delle peculiarità della nazione italiana: addirittura in orizzontale si può osservare come le parlate mediane seguano  linee che ripercorrono all'ingrosso i confini dello stato pontificio (e infatti l'Abruzzo è incluso nella zona meridionale), lasciandosi a est la Toscana granducale e a sud il vasto Regno delle Due Sicilie; e così succede con altre linee linguistiche (isoglosse) importanti che percorrono l'Italia  e ne segnano le macroaree dialettali.






Ma  il racconto della lingua va ancora più indietro e non si ferma all'Italia preunitaria: se si sovrappone una carta linguistica con una dell'Italia antica, si scopre con relativa meraviglia che le divisioni riproducono abbastanza la geografia delle popolazioni pre-romane: Liguri, Celti e Veneti al Nord, Etruschi in Toscana, Latini e Osco-Umbri (con le diramazioni Picene, Sannitiche, Irpine, Lucane) dalla diagonale "pontificia" Lazio-Marche fino alla Calabria cosentina,  riemergono come nell'epilogo di un mito ancestrale, dopo tanti strati di vernice e di storia, proprio come l'insegna di Bata.





Guardando più in dettaglio si riescono a vedere anche alcuni particolari del quadro. Nel cuore dell'Italia "italica" centro meridionale c'è una zona - attualmente a cavallo fra Lazio, Abruzzo, Molise, Campania e Puglia -  in cui le caratteristiche linguistiche sono la spia anche di altri elementi folklorici, comunanze di culti e di santuari al di qua e al di là delle catene montuose, perfino enclave di artigianato per la fabbricazione e di uso di strumenti musicali come il piffero e la zampogna.
I confini sono all'incirca quelli della parte beneventana e cassinense della Langobardia minor , la cui realtà statuale e culturale è stata descritta  negli studi di Nicola Cilento. Ma ancora, risalendo allo strato sottostante la grande globalizzazione romana, non è difficile riconoscere in quell'area la figura dell'antico Sannio preromano.

Con solide e un po' aride basi, confortato dal rigore accademico degli studi sui dialetti, anche fra queste montagne si è affacciato il tentativo di ridefinire una regione, sulla scorta della memoria di un passato più profondo.
Uno studioso che potremmo definire la colonna degli studi contemporanei di dialettologia abruzzese e molisana, Ernesto Giammarco, in una conferenza del 1978 proponeva la creazione di un'area culturale che aggregasse il Lazio meridionale al dominio  campano, abruzzese-molisano e pugliese, linguisticamente, antropologicamente e culturalmente ad esso omogeneo. 

Senza entrare troppo nei dettagli - immagino non per tutti appassionanti come per l'autore del post - Giammarco individuava la formazione del genere e del plurale dei nomi attraverso la metafonesi vocalica come la pricipale caratteristica morfologica unificante, oltre ovviamente ai numerosissimi elementi lessicali,  però quasi sempre comuni con le altre parlate meridionali.
Lo studioso pensava in prospettiva anche ad una crescita della consapevolezza culturale e quindi pre-politica all'interno di questo aggregato, una rinascita popolare in opposizione ai modelli dello stato "calato dall'alto".

Dal punto di vista della storia della linguistica italiana, e forse non solo della linguistica, è interessante notare che  i due casi che abbiamo considerato hanno un rapporto stretto con il grande tronco degli studi del  goriziano Graziadio Isaia Ascoli, fondatore dell'Archivio Glottologico Italiano, della cui impostazione sono debitori sia Clemente Merlo che poi Giammarco. Non è un caso che il magistero di Ascoli abbia potuto produrre un  effetto di così intensa rivalutazione delle particolarità locali; e in questo senso è importante ricordare che  nella  annosa discussione sui modelli della lingua italiana si oppose fortemente all'idea manzoniana del modello fiorentino colto.
Ascoli, più attento alle realtà frutto della storia che ai modelli astratti scelti arbitrariamente, ammette che la lingua italiana dei testi letterari è il toscano, e più propriamente il fiorentino trecentesco, fissato e poi codificato nella tradizione scritta; ma il fiorentino moderno non è altro che l' "ultimo momento" di una parlata municipale e non può essere assunto astoricamente come modello unico per la lingua nazionale, che è sì una grande necessità di cui l'Italia è secolarmente carente, ma che può nascere solo dall'apporto di tutte le componenti culturali della nazione.

Con tutto ciò non credo davvero che le suggestioni della nuova Rezia o del nuovo Sannio possano costituire la base per una sorta di irredentismo di tipo basco, o solo catalano. Non è nella volontà delle popolazioni, non è patrimonio neppure di élite intellettuali o di minoranze significative. Ma non è detto che i racconti della lingua siano proprio inutili e che le insegne di Bata siano destinate tutte a scomparire. Qualche volta possono anche rivivere.
Si può arricchire la consapevolezza e lo spessore delle differenze e contestualmente abitare nel mondo globale, facendo per la cultura dei popoli una battaglia non dissimile da quella intrapresa da tanti per salvare le biodiversità e le sementi. 
Anzi, probabilmente a maggior titolo.

Note 

  • La proposta della provincia retica, per la verità  limitata alla sola area italiana per ragioni di real-politik, è contenuta ad esempio nel volume di Gianpaolo Sabbatini "I Ladini: come è nato e come si estingue un popolo", Firenze 1976. Il volume, che significativamente riporta sulla copertina un ulteriore sottotitolo "Friuli Dolomiti Grigioni", ha la prefazione di Arturo Toso,  fondatore e figura storica del Movimento Friuli.
  • La conferenza  di Ernesto Giammarco, dal titolo "Area culturale del Lazio Meridionale: proposte per l'aggregazione  al dominio abruzzese-molisano-pugliese settentrionale"  fu tenuta a Sora (FR) in occasione della presentazione della ristampa anastatica Forni de "La fonologia del dialetto di Sora" di Clemente Merlo e pubblicata nello stesso anno nei "Quaderni i studi sorani". 
  • La carta dei dialetti, quella del Sannio  e il logo Bata provengono da Wikimedia Commons (Creative Commons Attribution 2.5 License) e sono utilizzate nei termini della  GNU Free Documentation License

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