giovedì 28 gennaio 2021

La resistenza dei montanari: la Bergamasca nella morsa del COVID-19



È passato quasi un anno da quel 23 febbraio in cui ebbe inizio la catastrofe della Bergamasca e della Val Seriana. Due positivi al Coronavirus identificati nell’ospedale di Alzano, e poi una corsa veloce verso il precipizio, i morti, le bare portate via dai camion: una successione di eventi che ci ci lasciò sgomenti per settimane.
Poi è venuto il resto, l’estate, la ripresa del virus stavolta in modo più diffuso nel territorio nazionale, i colori delle zone, le polemiche sanitarie e politiche, e insieme il rischio di dimenticare la violenta tragedia, allora circoscritta a poche zone del Paese.
Certamente ad aiutare la nostra memoria ci sono i filmati, i documenti, le voci dei protagonisti, tutto disponibile, tutto consultabile… volendo. Ma forse niente più di questo libro essenziale – 150 pagine serrate – ci può restituire il clima e gli eventi di quei giorni.
Prima di tutto la terra: la Bergamasca operosa, solidale e radicata nei suoi valori (una identità di valori e una capacità muscolare, montana, di resistenza alle intemperie, come dice nell’introduzione Vittorio Feltri, bergamasco doc). Un libro in cui non son presenti scoop e rivelazioni, ma le testimonianze di “una geografia umana…fatta di collegamenti, di ogni uomo e donna e mestiere agganciato ad anello con gli altri delle strade accanto… e soprattutto della continuità e dell’impegno comune, quando le campane hanno suonato a raccolta, del dispiegamento dei valori che già fondavano e animavano la valle”. È questa la chiave di lettura, anzi il leitmotiv che percorre il reportage di Alberto Luppichini – giovane giornalista al suo primo libro – che ha composto sostanzialmente una specie di spartito in quattro tempi. Nel primo troviamo le avvisaglie, la chiusura e la riapertura dell’ospedale di Alzano, la mancata sanificazione, la zona rossa annunciata e mai costituita, con la testimonianza puntuale di Gessica Costanzo, direttrice di Valseriananews.it, un portale locale di notizie: l’assenza di quarantena e la mancata sanificazione – diversamente da quanto era accaduto a Codogno – furono le cause principali della deflagrazione del virus che colpì la città di Bergamo e le valli.  Il secondo tempo raccoglie le voci della valle: Nembro, Clusone, Fiorano al Serio, Valbondione con le loro storie di malattia, di dolore e di morte, di rabbia e frustrazione, ma anche di solidarietà e di speranza di rinascita. Il terzo tempo racconta delle voci della fede: il potente “argine contro la disperazione” rappresentato dalle chiese, le omelie dei preti di campagna, la loro dedizione, il loro pesante contributo in termini di malati e di vittime, la vicinanza alle persone più fragili e più sole dell’associazionismo cattolico, tradizionalmente molto presente in quella provincia. L’ultima parte è dedicata alle testimonianze degli operatori sanitari, i medici di base, i farmacisti, gli infermieri impegnati in “una corsa disperata contro il tempo”, veri e propri “medici in prima linea” (tra tutti Ariela Benigni, dell’Istituto Mario Negri, menzionata anche nei ringraziamenti finali), col racconto della scoperta dei sintomi, i tamponi, i ricoveri, le situazioni più critiche ma anche gli esiti positivi.

Adesso che la tempesta sembra passata e che la Bergamasca sembra quasi immunizzata dal virus, e comunque epidemiologicamente molto al di sotto di altri territori lombardi, la riconquista di una qualche forma normalità non dovrebbe andare a discapito della memoria, non per cercare vendetta, bensì esclusivamente chiarezza, conclude Luppichini, esprimendo anche in questa clausola lo spirito autentico di una popolazione orgogliosamente fiera e umilmente cristiana.

L’urlo di dolore: la Val Seriana nell’epidemia da Covid-19: le storie da non dimenticare, di Alberto Luppichini; prefazione di Vittorio Feltri.  Milano, Guerini e Associati, 2020. 150 p.


mercoledì 20 gennaio 2021

La saggezza del contadino: a vent'anni dalla morte di Gustave Thibon

 

A leggere i suoi aforismi, anche dopo vent’anni dalla morte, di Gustave Thibon si apprezza soprattutto l’attualità: benché una lettura superficiale della biografia indurrebbe a immaginarlo come un conservatore imbevuto di nostalgia per il buon tempo antico della civiltà contadina, in realtà tutto il suo pensiero sorprendentemente ruota attorno al confronto con la liquidità e le contraddizioni del postmoderno. Non si tratta di un confronto sistematico e tanto meno rigidamente dottrinario. Piuttosto, collocandosi nel filone della tradizione aforistica e “moralista” così feconda in Francia, offre continui spunti di riflessione e apre prospettive divenute inconsuete, misurandosi dialogicamente con le certezze e i pregiudizi della nostra epoca, in molti casi riuscendo a metterli efficacemente in discussione, e perfino a terremotarli. Ma anche una lettura strettamente politica del suo pensiero sarebbe limitante. Certamente Thibon è ascrivibile al grande filone culturale della destra francese: in alcuni passaggi si può intravedere anche la suggestione del Maurras comtiano apologeta del dato di realtà; si aggiunga che durante la seconda guerra mondiale la sua posizione, ostile agli occupanti, ma abbastanza benevola nei riguardi di Vichy e di Pétain, nel dopoguerra è stata anche oggetto di polemiche. Ma per unanime riconoscimento il suo contributo più importante è nella zona pre-politica delle tendenze e dell’atteggiamento di fondo di fronte alla realtà.

Radicamento contro evasione, realismo contro utopia e fantasticheria, senso dei legami orizzontali e verticali contro nichilismo e relativismo assoluto: queste sono le parole chiave che ci aprono al significato complessivo del suo pensiero.


D’altronde la sua vicenda umana, tranne una breve parentesi giovanile, si aprì (2 settembre 1903) e si chiuse (19 gennaio 2001) in un villaggio della Provenza, Saint-Marcel-d’Ardèche. Nel suo villaggio continuò per tutta la vita a leggere, studiare e scrivere, non smettendo mai di coltivare la terra. Il rapporto concreto con la terra e con la fatica del contadino, che non fu mai vagheggiamento letterario, rappresenta emblematicamente la metafora centrale del suo realismo. Non è un caso che le sue opere più note siano Diagnosi. Saggi di fisiologia sociale (con la prefazione di Gabriel Marcel) e Ritorno al reale, ambedue pubblicati più volte anche in italiano. Non è un caso che l’appellativo che più frequentemente gli è stato riservato, quasi abusato ma sempre suggestivo, sia quello di “filosofo contadino” o, più argutamente, l’Alce nero della Provenza, come ebbe a definirlo Giovanni Cantoni, il fondatore di Alleanza Cattolica, nel riproporne la lettura agli inizi degli anni 70  – anche con finalità formative – così evidenziando l’importanza del recupero intelligente della tradizione vivente e vicina, senza vagheggiare fughe fantastiche dalla modernità rivoluzionaria verso approdi esotici: una “tentazione” molto diffusa e anche molto seducente, in quella stagione di incipiente “riflusso” e di delusione per i parossismi seguiti al Sessantotto.


A coltivare la vigna di Thibon arrivò un giorno dell'estate 1941 anche Simone Weil, che soggiornò presso di lui su indicazione del domenicano padre Perrin. La Weil, dopo l’esperienza del lavoro in fabbrica, e prima del suo tentativo di arruolamento nella Resistenza, volle provare anche il lavoro contadino, ma il soggiorno non si limitò certo a questo: conversazioni intense, approfondimenti di riflessioni religiose e di suggestioni mistiche furono pane quotidiano dell’incontro tra i due. Lasciando Saint-Marcel Simone affidò al suo ospite alcuni quaderni di appunti, di cui Thibon curò la pubblicazione postuma nel 1947 col titolo La Pesanteur et la Grâce.
 
 
 
Nel 1964 gli fu assegnato, per l’insieme della sua opera, il prestigiosissimo Gran Premio di Letteratura dell’Accademia di Francia. Ma il contadino di Provenza – che nella formazione ebbe anche qualche debito nei confronti di un altro paysan, il Jacques Maritain contadino della Garonna (1) che lo aveva spinto a pubblicare il suo primo saggio nel 1931 – ovviamente non amava i convegni, le passerelle, la mondanità dei circoli letterari. Tanto più dobbiamo essere orgogliosi della sua trasferta romana in occasione della presentazione dell’edizione italiana di Ritorno al reale (1972), tradotta da Italo De Giorgi. 
Il volume è dedicato ai giovani pisani che ne avevano caldeggiato la pubblicazione presso l’editore Giovanni Volpe e che andarono ad incontrarlo a Roma. Evidentemente il saggio contadino Thibon non li considerò tipi da passerella. 

(1) Le paysan de la Garonne è il  titolo del libro che Maritain scrisse nel 1966 in piena stagione postconciliare, in cui ribadiva polemicamente la necessità di un ritorno al pensiero di Tommaso d'Aquino.
 
Pubblicato, con lievi differenze e meno riferimenti ipertestuali, su L'Occidentale del 19-1-21 (Gustave Thibon, ovvero la saggezza del contadino)


mercoledì 6 gennaio 2021

Quanti maschi ci sono in un amen

Non molto tempo fa, quando avevamo una presidente della Camera molto sensibile alle battaglie femministe, si usava celiare su “presidenta”, come se lei stessa avesse rivendicato questa (errata) femminilizzazione per designare il suo ruolo istituzionale. In realtà non lo aveva mai richiesto, trattandosi oltre tutto di una parola in cui la distinzione di genere si opera comodamente (e regolarmente) con la semplice variazione dell’articolo. Ma il fake, che più di qualcuno ha scambiato a lungo per una notizia vera, era finalizzato a irridere l’eccesso di correttezza politica nelle faccende grammaticali, che molti giudicano tedioso o forzato. Donde continue polemiche sulla sindaca, sull’assessora, sull'ingegnera. Per non dire delle ironie sulle misure dell'architetta.
 

Però nessuno, per scherzo o per davvero, era mai arrivato fino al vertice del pastore Emanuel Cleaver, deputato democratico eletto alla Camera dei Rappresentanti per lo Stato del Missouri: in apertura dei lavori del Congresso, in conclusione della preghiera invece di "amen" ha detto "amen and awoman", con un gioco di parole che aveva come scopo quello di sottolineare l’obbligo etico di distinguere il genere grammaticale.

Prescindiamo pure dal fatto che la binarietà maschio/femmina anche in grammatica è sempre più insidiata dall’avanzata del neutro indistinto (asterischi e compagnia bella) e mettiamo pure che forse il pastore non è aggiornatissimo circa le ultime conquiste della parità e sia un progressista benintenzionato benché démodé, resta comunque che delle due l’una: o le lingue, compresa la propria, non le conoscono tanto neppure i deputati degli States, arrivando al punto di credere che nella parola “amen” si nasconda un numero indefinito di maschi (un’altra prova scientifica del predominio patriarcale) e riconducendone la formazione e l’etimo all’inglese; o più probabilmente al pastore, che da persona “del ramo” immaginiamo ben consapevole dell’origine ebraica della parola, è scappata una battuta come dire “da sacrestia”, e ha deprezzato il suo ruolo di deputato e il suo status di pastore con un omaggio un po' penoso alla politically correctness.

Ipotesi ambedue preoccupanti, ma la seconda direi di più.

 

[Pubblicato su Occidentale del 4-1-2021]