venerdì 22 febbraio 2019

Ruanda: il genocidio avvolto nell’ambiguità di una serie televisiva


In questi giorni Netflix ha annunciato una miniserie di 8 episodi, Black Earth Rising, incentrata sul dramma del genocidio ruandese
Sarebbe una notizia da salutare con entusiasmo, soprattutto se consideriamo che questa vicenda qui in Europa non è ben conosciuta dal grande pubblico e che, al di là delle canoniche commemorazioni annuali, spesso – così remotamente confinata com'è “alle falde del Kilimangiaro” -  è avvolta in una nebbia di ignoranza e di approssimazione. E quindi, potremmo dire, che c’è di meglio di una bella serie televisiva, di quelle che appassionano e nello stesso tempo trasmettono la conoscenza di fatti atroci e la consapevolezza morale della loro gravità?

La storia recente del Ruanda non è semplice. La divisione tragica tra le due etnie Tutsi e Hutu ha molte cause, che per i più sono legate al periodo coloniale e a stratificate rivalità tra i due gruppi etnici, presenti anche in Burundi e in Uganda. La rivalità, con fasi alterne di predominio, ha segnato tutta la storia postcoloniale dell’area: la si può approfondire anche a partire dalle voci delle enciclopedie in linea, avendo l’accortezza di seguire filoni documentali accurati, perché la narrazione ha tuttora aspetti controversi. 




Di fatto i Tutsi erano stati estromessi dal potere dagli Hutu che costituivano l'80% della popolazione e che, dalla rivoluzione del 1959, detenevano completamente il potere. 
L’evento che fece precipitare la situazione fu l’abbattimento dell'aereo del presidente Juvénal Habyarimana il 6 aprile 1994. Subito dopo cominciarono i massacri della popolazione tutsi e di una parte di quella hutu, ad opera della Guardia Presidenziale e dei gruppi paramilitari Interahamwe e Impuzamugambi, con il supporto dell'esercito governativo. Il segnale dell'inizio delle ostilità fu dato dalla radio RTLM che invitava, per mezzo dello speaker Kantano, a seviziare e ad uccidere gli "scarafaggi" tutsi.
I massacri ebbero termine nel luglio 1994 con la vittoria dei Tutsi dell'RPF (Fronte Patriottico Ruandese).
In quei 100 giorni vennero uccise sistematicamente (a colpi di arma da fuoco, di machete e di bastoni chiodati) almeno 500.000 persone. Le stime sul numero delle vittime sono tuttavia cresciute fino a raggiungere cifre dell'ordine di circa 800.000 o 1.000.000.
Per avere un’idea delle dimensioni di questo genocidio bisogna ricordare che il Ruanda aveva allora circa 7 milioni di abitanti.
Ci furono molti profughi, in Belgio, Francia, America e – in numero minore- anche in Italia. 

La storia del genocidio ruandese era già stata trattata nel cinema: basta ricordare Hotel Ruanda, del
2004. Ma ce ne sono anche altri, e perfino una pièce teatrale. La serie Netflix appena sbarcata, prodotta dalla BBC, si presenta con una fisionomia particolare: racconta la storia di Kate Ashby, una giovane sopravvissuta al genocidio che nel corso della storia si rende conto di essere, in realtà, una sopravvissuta a un massacro commesso dal Fronte patriottico ruandese (RPF), cioè i tutsi che posero termine al genocidio.
Il regista (e scrittore) Hugo Blick ha invocato il diritto di un artista di far luce su aspetti trascurati della storia recente del Ruanda, cioè il fatto che l'RPF abbia a sua volta commesso delle efferatezze.
Tuttavia questo bilanciamento mediatico tra le centinaia di migliaia di vittime deliberatamente massacrate con un piano predisposto da tempo e alcuni eccessi commessi da un esercito di liberazione in guerra ha fatto indignare le associazioni dei sopravvissuti e ha dato luogo ad alcuni  interventi circostanziati, come quelli di Laetitia Tran Ngoc,”researcher specializzata in Africa centrale e orientale con sede a Bruxelles”, su Huffingtonpost.uk dell’8 febbraio e di Jessica Gérondal, “militante afrofemminista panafricanista” su Mediapart dell’11 febbraio.
Ambedue hanno sottolineato il fatto che la libertà artistica non può arrivare a ribaltare lo schema fondamentale di una vicenda, con la scusa di indagarne un lato nascosto e minore. 
Abbastanza provocatoriamente Laetitia Tran Ngoc nel suo articolo si chiede: “Possiamo solo immaginare l'indignazione che avrebbe sollevato una serie contemporanea che utilizza un approccio simile per l’Olocausto? Se la BBC avesse deciso di trasmettere la storia di una donna che, avendo creduto per tutta la sua vita di essere una sopravvissuta dell'Olocausto, scoprì che era, in effetti, una delle vittime degli attacchi delle forze alleate che il popolo tedesco soffrì durante la seconda guerra mondiale?”. Chiosando la researcher, per la verità il paragone più calzante non sarebbe tanto con la vittima di un bombardamento alleato, quanto con la vittima di un gruppo di resistenza ebraico, immaginando una situazione del genere in una fiction, perché – si sa – in realtà purtroppo la storia non ci ha consegnato nessuna testimonianza di resistenza armata alla shoah.
E, assai polemicamente, Jessica Gérondal aggiunge: “Il privilegio bianco è anche arrogarsi il diritto di prendere una storia traumatica, modificarla, deformarla e esotizzarla a modo proprio con lo scopo di ricavarci tanti soldi. Prendete in più una piattaforma massicciamente seguita come Netflix e il gioco è fatto”
Possiamo dire che hanno torto?

Ma ancora: dopo l’orrore del 1994 il nuovo Ruanda ha intrapreso un percorso di pacificazione, cancellando con magnanimità dal 2007 la pena di morte, anche per i reati connessi al genocidio, e istituendo fin dal 2001 i tribunali gacaca (pronunzia gaciàcia), ispirati alle istituzioni tradizionali alle quali nei villaggi era affidata l'amministrazione della giustizia: all'imputato che riconosce la sua colpa, chiede perdono alla famiglia e al villaggio e si impegna a risarcire i danni arrecati, la comunità riconosce il pentimento, accorda il perdono e può tornare alla vita normale. Attraverso i gacaca sono passati miglia di ruandesi, e la popolazione è stata aiutata a riprendere un cammino comune, oltre le vecchie e tragiche divisioni.

Se si pensa che il tribunale internazionale di Arusha al 31 dicembre 2015 aveva portato a termine meno di un centinaio di processi, si capisce come la risposta ruandese, basata sulla concezione tradizionale dei rapporti comunitari, sia stata importante per rimarginare veramente le ferite. 
Inoltre in tutto il paese, su iniziativa del governo di Paul Kagame, viene messa in atto una costante attenzione educativa e mediatica a distinguere le responsabilità, valorizzando il ruolo degli Hutu che non parteciparono al genocidio e anzi, in vari casi, aiutarono i Tutsi perseguitati.

Mi pare che una serie come Black Earth Rising, che in qualche modo “ribalta” la ricostruzione storica, mettendo al centro della scena – e quindi del senso comune di milioni di telespettatori - una lettura “ribaltata” della vicenda del genocidio, non solo non aiuti questo processo virtuoso della società ruandese, ma rischi fortemente di contribuire a vanificarlo.

(Testo pubblicato con piccole differenze sull'Occidentale del 21 febbraio 2019)

lunedì 11 febbraio 2019

Le foibe per non parlare del fascismo? O magari il fascismo per non parlare delle foibe?


Il Manifesto del 6 febbraio ha dato il suo contributo al “giorno del ricordo” con un articolo di Davide Conti intitolato “Le foibe per dimenticare i crimini del fascismo”, con un chiaro sottotilo: “Giorno del ricordo. I mancati conti col nostro passato fascista e l’assenza di una ridefinizione della complessità storica, fanno sì che le foibe vengano presentate come pulizia etnica o come violenza perpetrata contro gli italiani in quanto tali”.

Il contenuto dell’articolo ha indubbiamente il merito di rappresentare senza troppi giri di parole quello che altri sostengono in modo confuso, e  talora utilizzando slogan offensivi per la memoria della gente italiana del confine orientale: i torturati, gli infoibati, gli esuli.
Prima di entrare nel merito può essere d'aiuto un’osservazione preliminare, ossia che l’assunto del titolo potrebbe essere facilmente rovesciato, e si potrebbe tranquillamente fare il contrario, cosa che in realtà è accaduta prevalentemente finora: rimuovere i crimini perpetrati contro gli italiani spostando il discorso sugli antecedenti, ossia la politica fascista in Istria, Slovenia e Dalmazia. La polemica storico-politica è ricca di circoli viziosi di questo tipo, che non solo riescono a intorbidare il racconto delle vicende storiche, ma veicolano un errore grave dal punto di vista logico e concettuale, e cioè che la successione di due fatti negativi produca somma zero, anziché, come è ovvio, somma -2: un errore concettuale che poi si paga pesantemente in termini di giudizi etico-morali e infine, di quella relativa obiettività a cui possiamo imperfettamente aspirare.

Andando più nel merito, credo che non ci si debba mai sottrarre al richiamo alla complessità e alla ricerca dei precedenti e del contesto, che sono il sale della ricerca storica: questo è un punto che veramente dovrebbe essere sempre tenuto fermo. Sempre, però, e non solo quando i crimini sono attribuiti alla parte per cui si fa il tifo (se, per capirci, mi si lascia passare l’espressione un po’ calcistica e riduttiva). In particolare è vero che questo caposaldo è importante in tutta la vicenda del confine orientale, in cui la conoscenza del ventennio precedente è essenziale. Anzi credo che per inquadrare adeguatamente il dramma del 1943-1947 si debba risalire almeno alla caduta dell’impero sovranazionale austro-ungarico, e alla fine della coesistenza delle etnie al suo interno, non sempre idilliaca, ma sostanziale, almeno dal punto di vista istituzionale.



Un profugo di rango, Enzo Bettiza, nel suo capolavoro Esilio ha messo in luce la ricchezza ma anche la complessità della convivenza in Dalmazia fino alla prima guerra mondiale, fissando nel Trattato di Rapallo del 1920 e nelle dolorose “opzioni” tra nascente Jugoslavia e Italia il punto discriminante per il futuro degli italiani istro-giuliano-dalmati. 


E già, perché la presenza italiana in tutta quell’area non si può certo far risalire all'occupazione fascista: complessità per complessità, precedenti per precedenti, sarebbe necessario allungare lo sguardo a ciò che fu la presenza veneziana fin giù alle Bocche di Cattaro, al limite dell’Albania, dove ancora oggi se ne avvertono i segni e perfino le tracce linguistiche, devo dire anche con qualche commozione. Complessità per complessità ovviamente potremmo scendere nel dettaglio delle differenze tra Istria e Dalmazia, e –ancora più in particolare - tra Pola, Fiume, Zara, Spalato e Ragusa: tutti piccoli mondi antichi, con le loro belle particolarità, di cui fece un tutt'uno la grande tragedia dell’esodo dopo la seconda guerra mondiale.



Insomma l’entrata in gioco della complessità, dei precedenti e dei contesti non deve far paura. E’ pur vero che a forza di spiegare gli eventi storici qualche volta si corre il rischio di scivolare nelle giustificazioni: la storiografia convive con questa zona grigia, in cui la linea di confine non è sempre chiarissima, ma è un rischio che è costretta a correre, per sopravvivere come disciplina seria e per svolgere il suo compito con dignità.


Sul filo di questa linea incerta, e costantemente a rischio di superamento, entriamo però nella zona più opaca delle tesi veicolate dall'articolo del Manifesto, e in modo neppure tanto implicito: che significa che nelle celebrazioni del giorno del ricordo le foibe sono “presentate come pulizia etnica o come violenza perpetrata contro gli italiani in quanto tali”?  Significa che non lo furono?  Nei fatti la documentazione storica ha dimostrato senza ragionevoli smentite che la pulizia etnica fu programmata e che la rimozione violenta della presenza italiana fu perseguita con determinazione. Derubricare l’infoibamento di migliaia di persone e l’esodo di centinaia di migliaia a falli di reazione e occasionali vendette contro i fascisti, come continuano a sostenere alcuni settori particolarmente legati alla narrazione titino-comunista di quegli eventi, sarebbe – e lo è nei fatti-  veramente un brutto servizio alla memoria storica.
Anche i dettagli efferati e la disumanità dei trattamenti –con un copione uguale su tutto il territorio istriano- non lasciano spazio per l’interpretazione della vendetta occasionale e furono programmati scientemente, come in ogni genocidio che si rispetti (a cominciare dalle file di persone legate col filo di ferro e spinte nelle foibe alternando vivi e uccisi). E’ documentato che non furono colpiti solo fascisti o presunti tali, ma genericamente gli italiani, specialmente se figure in qualche modo socialmente rilevanti, secondo uno schema che i comunisti hanno utilizzato frequentemente nel corso del Novecento: preti, maestri, postini, professionisti; ma anche tanta gente comune.

Oggi che la Repubblica Italiana ha deciso di rendere omaggio a queste vittime, superando decenni di oscuramento deliberato e fazioso, è proprio il caso di scivolare dall'analisi storica al giustificazionismo corrivo, o peggio al puro negazionismo?

Andando verso la conclusione Conti richiama l’attenzione sulparadossale voto della commissione Cultura della Camera che… vorrebbe impedire all’associazione dei partigiani [sarebbe filologicamente più corretto ‘a un’associazione di partigiani’, ma vabbè] ... di parlare nelle scuole pubbliche del confine italo-jugoslavo durante la seconda guerra mondiale”. Ecco, prima di dire ‘paradossale’ bisognerebbe forse chiedersi se per caso dietro questa polemica magari non si nasconda la pretesa di perpetuare il monopolio di una narrazione storica non sottoponibile a verifiche e revisioni, e se a parlare dei “traditori” della divisione partigiana non comunista Osoppo e dell’eccidio di Porzûs, tanto per fare un esempio, nelle scuole devono essere chiamati solo quelli della comunista Garibaldi, che ne furono gli autori.


Da ultimo (ma non è certo ultimo punto per rilievo simbolico): la sentenza finale con cui si chiude l’articolo, quella che possiamo definire la morale della favola,Più ancora di ciò che abbiamo fatto noi partigiani si deve parlare di ciò che è stato il fascismo. Solo così sarà possibile seppellirlo per sempre”, è una frase di Rosario Bentivegna, un gappista membro del gruppo che partecipò al discutibile (e ampiamente discusso) attentato di via Rasella contro un reparto di reclute tedesche, che qui assurge a testimonial della corretta visione della guerra civile.
Siamo sicuri che rivendicare personaggi e episodi di questo tipo sia un modo accettabile di tener conto della complessità storica? E di suscitare la giusta pietas che scaturisce dalla memoria condivisa, tante volte e tanto retoricamente invocata?
Decisamente mi pare che siamo proprio fuori strada.

[Il testo è comparso con lo stesso titolo, con lievi differenze e privo di link, sull'Occidentale del 10 febbraio 2019]


lunedì 4 febbraio 2019

Il mulino ad acqua sul Melfa: uno scritto di Aldo Venturini


Il calendario di Facebook, sempre attento alle ricorrenze, oggi ha riportato a galla un bellissimo servizio [mi è stato promesso un caffè per ogni "bellissimo", e io accumulo] che il mio amico Aldo aveva confezionato per il sito Settefrati.net nel 2009 e poi ripubblicato nella pagina di Settefrati il Giornale nel 2017.
Mi permetto di riprodurlo, perché questa importante testimonianza di storia e di tecnologia della Valcomino non sia travolta ancora dalla corrente inesorabile del timeline.




L'antico mulino ad acqua delle Mole di Vito 

    di Aldo Venturini




Sono stato sulla macchina del tempo. Alla guida c’era Filippo Volante – Di Vito, un amico che abita in una frazione del comune di Picinisco che ha preso il nome dai suoi antenati: Le mole Di Vito.
Assieme ad altre quattro famiglie è proprietario di una società che gestisce un antico mulino ad acqua.

Rinnovata nel 1811, questa società lo era già stata nel 1754 e prima ancora nel 1600.

I documenti non vanno oltre ma la profondità degli occhi azzurri di Filippo lascia intravedere che quel pezzetto di mondo gli appartenga da sempre.

Preso un secchio di granturco dal granaio, mi porta poco vicino alla sua grande casa, dove sorge un mulino acquattato sulla riva del fiume Melfa, laddove esiste un certo dislivello.
Uno stretto canale artificiale convoglia l’acqua sull'unica ruota idraulica, ancora funzionante, impiantata sotto il mulino.
Filippo, dopo aver aperto la porta stridula, riempie un piccolo serbatoio (tramoggia) sopra la macina.
Il mulino è lì fermo come su di un trono.
Gli ultimi gnomi che si sono attardati, incuriositi dalla mia presenza, scompaiono dietro le macine dismesse in fondo alla sala.
Ci siamo.
Filippo, con la sacralità di una liturgia antica, rimuove la saracinesca di legno che si frappone tra l’acqua e la ruota idraulica.
Muove, poi, gradualmente una vite che distanzia la macina mobile da quella fissa ed è subito movimento.
I chicchi di granturco scendono gradualmente nella bocca della macina mobile e vanno ad essere stritolati, frantumati tra le due pietre in movimento.
La farina ottenuta si raccoglie nelle scanalature scolpite sulla pietra ed il movimento rotatorio la porta a cadere in un recipiente di legno.


.
In Europa, l’uso dei mulini ad acqua iniziò verso l’anno mille.


Furono i monaci benedettini che ne diffusero capillarmente l’utilizzo .L’utilizzo dell’energia idraulica, al posto di quella animale o umana, permise un aumento della produttività senza precedenti.Un mulino ad acqua può macinare 150kg di grano in un’ora, equivalente al lavoro di quaranta schiavi.
Con l’avvento dell’energia elettrica agli inizi del novecento, il motore elettrico soppiantò il mulino ad acqua.
Gli undici mulini che ancora sopravvivevano lungo il fiume Melfa furono dismessi.
Negli anni cinquanta anche le tre macine del mulino Di Vito.
Si fermò per prima la macina di granito francese con cui si otteneva una notevole raffinatura, poi quelle di granito della cava di Pofi.
La tramoggia è vuota, Filippo ghigliottina il flusso d’acqua lasciando calare la saracinesca di legno.
Il vecchio pavimento in tavolato di quercia ha un sussulto breve, gli ultimi cigolii della macina affogano nel rumore d’acqua che scorre nel letto del grande fiume.



Tutto si ferma.
Fuori sta scendendo la sera.
Nuvoloni bassi rimangono impigliati tra le querce del bosco di Castellone e Picinisco, in alto, appollaiato come un condor sulle pendici del Meta, occhieggia con le sue luci giallo periferia.
Il thè offerto dalla moglie Sandra Cucco e il sorriso delle graziose figliole, Maria Laura e Giulia, mi riscaldano dentro.
Mentre mi allontano in macchina, Filippo scompare dietro l’angolo per andare ad accudire la sua arca di Noè.
Forse sbaglio, ma anche nello spot televisivo, attorno alla casa del "Mulino Bianco" ci sono degli animali!!!
22 dicembre 2009
Santa Francesca Cabrini
Aldo Venturini



Il Monte Meta sopra Picinisco. Foto di Ciociariaturismo, scaricata dal web