"La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate di impolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa"
Provate a chiedere in giro tra i vostri amici, anche tra quelli che mediamente leggono abbastanza. Difficilmente troverete qualcuno che conosca Flannery O'Connor. In Italia molte delle sue opere sono state tradotte, ha i suoi estimatori, ma nell'insieme resta una scrittrice un po' di nicchia. Eppure i suoi racconti sono di una bellezza stupefacente. Pietro Citati ha scritto: "A poco più di vent'anni possedeva già una straordinaria perfezione nell'arte del racconto: mai un errore di tocco, mai un particolare fuori luogo; la più difficile tra le arti era naturale per lei come il respiro". E Attilio Bertolucci dichiarò di essere stato "folgorato" dai suoi testi. Ecco, non trovo esagerato l'aggettivo di Bertolucci per descrivere l'impressione che lascia l'incontro con i suoi racconti e con la sua figura.
A 15 anni resta orfana del padre Edward, un gentiluomo del Deep South, che muore di una malattia che lei contrarrà a sua volta poco più che ventenne: il lupus eritematoso. Da allora, dopo una breve e intensa esperienza di studio e di letteratura a New York, vive in una fattoria di famiglia accanto alla madre Regina: segue l'andamento della casa colonica, alleva pavoni, guarda notiziari sportivi in tv, ma soprattutto scrive senza sosta, mentre la malattia inesorabilmente progredisce. Da ultimo si ammala di tumore. Pur fortemente debilitata non si nega agli inviti per conferenze e lectures, cui continuerà a partecipare fino a pochi mesi prima della morte, che la prenderà a 39 anni, nel 1964.
Personalmente credo che il percorso più corretto per entrare nel mondo della O'Connor sia quello di passare attraverso i racconti, capaci davvero di folgorare e catturare immediatamente, anche perché è ampiamente riconosciuta la sua capacità di formidabile scrittrice di short stories. Ma il lettore più curioso del suo particolare retroterra culturale non mancherà di scandagliare tra le brevi recensioni -che ci danno velocemente un'idea di alcune delle sue letture (troviamo Teresa di Lisieux, Eric Voegelin, Mircea Eliade, Jean Guitton, François Mauriac, Edith Stein, Russel Kirk, Pierre Theilard de Chardin, Karl Barth)- e tra gli interventi di teoria della scrittura, con il loro particolare humus teologico e filosofico. Appassionata di Tommaso d'Aquino (una volta si definì una tomista zoticona, hillbilly thomist), ma il suo background teologico e filosofico comprende anche i mistici Teresa d'Avila e San Giovanni della Croce, come pure i contemporanei Jacques Maritain e Theilard de Chardin.
Difatti se Flannery O'Connor stupisce come scrittrice, per quella speciale capacità di raccontare tutto in modo essenziale e per la severità della sua poetica, stupisce anche di più come cattolica, soprattutto per ciò che comunemente ci si aspetta dietro questa qualificazione: niente di devozionale o di consolatorio emana dal suo universo letterario, che aborre la spazzatura edificante e gli elogi del buon cuore. Tutta la sua tensione religiosa è segnata da questo straordinario racconto: "Ho fatto i primi sei anni di scuola dalle suore. Fra gli otto e i dodici anni avevo l'abitudine di chiudermi ogni tanto a chiave in una stanza e facendo una faccia feroce (e cattiva) vorticavo coi pugni serrati scazzottando l'angelo (socking the angel). Si trattava dell'angelo custode del quale, secondo le suore, tutti eravamo provvisti. Non ti mollava un attimo. Lo disprezzavo da morire". Il senso complessivo di questa forte immagine biografica va molto al di là dell'episodio infantile: in una conferenza tenuta alcuni mesi prima della morte sostiene che lo scrittore deve lottare "come Giacobbe con l'angelo ... La stesura di un romanzo degno di questo nome è una sorta di duello personale" (Antonio Spadaro, nella prefazione a Il volto incompiuto, pag. 8-9). Ma il suo cattolicesimo, asciutto e intenso -come ha messo in evidenza Elisabetta Rasy in un un ampio articolo dedicato alla O'Connor apparso sull'inserto domenicale del Sole 24 ore del 24 aprile (Dannazione, metafora di salvezza)- è vissuto senza sconti e addomesticamenti nei confronti del buon senso secolarizzato e dell'idolatria laicista che lo circonda, e non si nasconde dietro una fede privata: "Scrivo come scrivo perché sono (e non sebbene sia) cattolica". E ancora: "Se c'è una cosa tremenda a scrivere quando si è cristiani è che per te la realtà suprema è l'Incarnazione, e all'Incarnazione non ci crede nessuno: nessuno dei tuoi lettori, cioè. I miei lettori sono convinti che Dio sia morto". La fede che anima la sua scrittura è un cattolicesimo hard core, dove non esiste sublimazione, e "non è il materiale a spiritualizzarsi, ma lo spirituale a materializzarsi, secondo il principio dell'Incarnazione" (Spadaro). I personaggi dei suoi racconti, dall'apparenza "normale", stanano il mistero che abita la vita umana e mostrano l'irruzione spesso insopportabile della grazia "in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo", il soprannaturale annidato o appostato dietro il naturale (Rasy). Per questo l'aspetto più importante della narrativa per lei è quello di rifuggire dai concetti astratti e dai presupposti teorici, con i quali non si fanno storie: occorre affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare, toccare". Non è possibile suscitare emozioni con testi che trasudano emozione né suscitare pensieri riempiendo le pagine di considerazioni e riflessioni. A queste cose bisogna dare un corpo: non si tratta di "dire" le cose, ma di farle "vedere" al lettore. Dio è un dato dell'esperienza, non un'intuizione della mente o dello spirito: nel racconto La veduta del bosco Cristo è reso in figura dal bosco, in cui "i pini , visti di fianco, avevano l'aria di camminare sull'acqua" (ancora Spadaro, pag. 10-12).
Per approfondire consiglio la lettura di questo articolo di Andrea Monda
Di Flannery O' Connor in italiano possiamo leggere ambedue i romanzi, i racconti e una raccolta di saggi, lettere e recensioni: praticamente un panorama completo della sua attività di scrittrice. Dal suo romanzo La saggezza del sangue (in it. Garzanti 2010), è tratto il film di John Huston del 1979. Il secondo romanzo, Il cielo è dei violenti, è stato pubblicato da Einaudi nel 2008. I racconti sono disponibili in edizione economica (Tutti i racconti, Tascabili Bompiani, 2. ed. 2009). Le lettere (Sola a presidiare la fortezza), curate da Ottavio Fatica, sono uscite da Einaudi nel 2001; i saggi - oltre che in Nel territorio del diavolo: sul mistero di scrivere, mininumfax 2010- sono disponibili, insieme a una raccolta di recensioni e lettere, nel recentissimo Il volto incompiuto, a cura di Antonio Spadaro, BUR Rizzoli 2011.
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