mercoledì 23 novembre 2016

Francia: quel voto cattolico che spinge Fillon verso l'Eliseo



Presi dall'imminenza del nostro referendum e ancora stupefatti della vittoria di Trump, forse non abbiamo fatto molta attenzione alla Francia, dove domenica si è svolto il primo turno delle primarie del centrodestra: un po’ di non celata soddisfazione e qualche post nel popolo di destra per l’uscita di scena del ridente (ex) Sarkozy, bombardatore della Libia, e poco più. Invece, nelle profondità della douce France, qualche movimento tellurico e qualche sorpresa non è mancata. E almeno due non erano state proprio previste alla vigilia. La seconda è la vittoria di François Fillon, con il 44% dei voti, seguito da Juppé col 28,4%. Ma la prima sorpresa è il dato sulla partecipazione, 4 milioni di elettori. Gli stessi organizzatori si sono stupiti. Ed è da questo che bisogna partire.



Secondo vari osservatori, primo tra tutti Pascal Bruckner, la spinta nelle urne è stata data da una mobilitazione del mondo cattolico. Quando tutti si aspettavano il duello tra Juppé e Sarkozy, è emerso il terzo uomo, con un profilo e una storia sempre da “secondo” (è stato varie volte ministro e anche primo ministro di Sarkozy), ma con un background che ha convinto molti elettori di centrodestra. François Fillon viene dalla Francia profonda, Le Mans, dove è nato nel 1954; ha un passato politico tutto nel partito gollista, di cui incarna alcune linee fondamentali soprattutto in politica estera (sempre un po’ - o un po’ tanto - diffidente nei confronti degli USA) e nel radicamento nei valori tradizionali. Cattolico senza remore, ha inserito nella sua agenda politica un’ostilità di principio alle leggi abortiste (anche se ha dichiarato che non intende cambiarle), e un’ostilità anche più fattuale a nozze gay e utero in affitto. Se a questo si aggiunge un ripetuto sostegno alla causa dei cristiani perseguitati nei paesi islamici e altrove nel mondo, si comincia a capire cosa abbia spinto la “mobilitazione cattolica” di cui parla Bruckner.


In politica economica, Fillon sostiene la necessità di grandi liberalizzazioni, in un Paese che è anche più statalista e rigido dell’Italia, mentre in politica estera è fautore di una maggiore vicinanza alla Russia di Putin; per storia politica è ovviamente più sensibile all’idea dell’"Europa delle nazioni", ma senza troppe ostilità pregiudiziali verso la collaborazione europea. Insomma sul lato "centrodestra" della politica francese si è posizionato un competitor di peso. Se, come pare ineluttabile dopo la débacle di Hollande, la sinistra non giocherà la prossima partita delle presidenziali, si andrà al ballottaggio tra François Fillon e Marine Le Pen, con un Fillon che, con le sue posizioni conservatricsui temi etici e aperte a Putin in campo internazionale, ha sparigliato lo schema classico destra liberale vs.destra identitaria. E ancora, c’è un altro elemento che entra in partita: dal momento che sui temi etici e sociali la piattaforma di Marine Le Pen al momento è più “laica e giacobina” di quella di Fillon, e per di più nel Front National hanno un grosso peso personaggi come il laicissimo vice Florian Philippot, assisteremo a una bella battaglia tra le due destre. 
Con la sinistra a guardare, e forse un po’ ad arbitrare.

(pubblicato su Occidentale il 23 novembre 2016)

venerdì 7 ottobre 2016

Ma Renzi vuol prendersi pure le università?

Pubblicato su L'Occidentale del 4 ottobre 2016

Siccome la corruzione può annidarsi dappertutto, il numero uno dell’anticorruzione, Raffaele Cantone, interviene oramai sui temi più disparati, dalla liberalizzazione delle droghe cosiddette leggere fino ai problemi dell’Università. Lo scorso 24 settembre, il Corriere della Sera pubblica un’inchiesta sullo stato dell’Università italiana, corredata da quattro impietose tabelle OCSE (per le tabelle vedi un mio post su Recto&Verso): dagli investimenti pubblici al numero dei laureati, tutti i dati ci posizionano molto al di sotto della media UE21 e G20. Che i numeri non siano confortanti sono tutti d’accordo. Resta però che la qualità del “prodotto” in termini di laureati e dottori di ricerca sembra abbastanza alta, se si considera la presenza abbondante di ricercatori italiani nelle università nordamericane, britanniche e dell’Europa del Nord.
Per Cantone è l’occasione di mettere sotto accusa la corruzione dei nostri concorsi universitari, che costringe i migliori ad andarsene all’estero. La maggior parte dei media si accoda e spuntano vecchie indagini sulla “parentopoli. C’è una casta da additare al pubblico ludibrio, come resistere? Fioccano le repliche di parte accademica, col sito ROARS in prima fila: innanzitutto parlare di parentopoli è fuorviante, si tratta di un fenomeno molto disdicevole ma la cui rilevanza numerica non basta assolutamente a spiegare il declino dell’università: il problema vero è che non si fanno concorsi per ricercatori, e i giovani di talento sono costretti ad emigrare. Tutto chiaro? Veramente non proprio tutto, e vediamo perché, considerando che le risposte sommarie non giovano mai troppo, quando si ha a che fare con problemi complessi.
Intanto diciamo che è vero, parentopoli in senso stretto è un fenomeno abbastanza limitato, a un tentativo di esame statistico serio non sembra superare la soglia “possibile” del 3% del personale docente. E’ vero anche che ogni tanto il tema emerge mediaticamente perché fa tanto “casta”. Ma è anche risaputo che esistono altri tipi di filiere accademiche e consorterie, non sempre virtuose, a dire il meno. Insomma, rispondere ai rilievi fatti da Cantone affermando che nelle università va tutto bene e quindi “dateci più soldi e ci pensiamo noi”, può essere irritante, oltre che fuorviante. Ma c’è un altro aspetto della questione che preoccupa e molto: se l’esito di queste polemiche dovesse essere un aumento del controllo governativo sulle cattedre universitarie, avremmo aggiunto un tassello importante al processo di abbattimento dei corpi intermedi e delle autonomie, che costituisce la “cifra” più significativa della riorganizzazione istituzionale predisposta dal governo Renzi.
Purtroppo non si tratta di un’ipotesi solo teorica. Il famoso decreto sulle “cattedre Natta”, in preparazione, prevede l’assunzione straordinaria di un certo numero di docenti universitari in deroga alle norme concorsuali vigenti, con criteri che saranno definiti da un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, vagliati da commissioni nominate appositamente. E’ stata ventilata l’ipotesi che i commissari potrebbero essere nominati direttamente dalla Presidenza del Consiglio: questo punto non è ancora chiaro, ma stupisce che l’allarme lanciato da ROARS (l'editoriale Umberto Izzo) non abbia suscitato reazioni né smentite, almeno per ora.
Polemicamente, l’editorialista di ROARS ha affermato che neppure Mussolini si immaginò mai di arrivare a tanto e che sarebbe un bel metodo per normalizzare le università, dove allignano ancora troppi gufi e rosiconi. Umberto Izzo, ricordando “il valore della libertà accademica, intesa (fra le altre cose) anche quale autonomia dell’Università dalla politica”, conclude: “Con le lenticchie di questo (piccolo e tuttavia prezioso, vista la penuria dei tempi) piatto delle cattedre Natta ci si potrà sfamare mettendosi ordinatamente in fila, ma il costo rischia di essere davvero incommensurabile per l’autonomia della comunità scientifica italiana”. Se si aggiunge che la parlamentare del PD Francesca Puglisi, componente della VII commissione Istruzione pubblica, ha affermato che ”…il decreto Natta sarà una sperimentazione per la selezione dei docenti universitari. Potrebbe rivelarsi un procedimento da estendere a tutti i docenti universitari, non solo alle supercattedre”, il cerchio si chiude.
Forse a voler essere scaramantici è meglio dire “si chiuderebbe” perché riesce veramente difficile immaginare che in un paese democratico possa verificarsi un’occupazione di queste dimensioni dell’Università da parte della Presidenza del Consiglio. E’ necessario denunciare questo rischio e contemporaneamente resistere alla pressione mediatica che immagina di rispondere ad ogni imperfezione della società con un aumento del controllo politico. Contro ogni deriva centralistica, e sfidando un bel po’ di radicato giustizialismo dilagante, si deve riaffermare che le Università, come del resto ogni comunità organizzata dedicata alla studio e alla ricerca, possono crescere solo se utilizzano procedure di cooptazione, ossia se la comunità è messa in condizione di scegliere chi è in grado di farne parte.
Lo Stato si deve occupare di monitoraggio costante dell’offerta formativa in termini di corsi e di sedi, di valutazione dei risultati della ricerca misurata con criteri articolati e non meramente numero-bibliometrici, dei risultati della didattica, anche attraverso il feedback degli studenti e degli stakeholder presenti nel territorio, e di ricaduta in termini di occupazione lavorativa, certamente perfezionando e affinando gli strumenti già in uso. Ma l’idea che i commissari li nomini il nostro multitasking presidente del consiglio, o chi per lui - che così metterebbe le mani anche sull'università, dopo i giornali, le tv, le banche - francamente deve essere rigettata con forza. Anche in questo caso, come in analogia per le autonomie comunali e i corpi intermedi, occorre rafforzare una proposta politico-culturale che miri a darci un sistema universitario adeguato alle esigenze di un grande paese e che si opponga con fermezza ad ogni tentativo di mortificarne la vivacità e la crescita autonoma.

giovedì 11 agosto 2016

Silenzio stampa sulle biblioteche in rivolta: i beni culturali al tempo del renzismo

La notizia in sé magari non è di quelle che manda le agenzie in fibrillazione, ma il quasi generale silenzio stampa che la avvolge francamente è un po’ sospetto. Se si eccettuano Left e il Manifesto, nessuno sembra essersi accorto che venerdì 27 maggio si sono dimessi quattro componenti importanti del Comitato tecnico scientifico nazionale per le biblioteche: Mauro Guerrini, ordinario di biblioteconomia a Firenze, Luca Bellingeri, direttore della Biblioteca nazionale di Firenze, Paolo Matthiae, archeologo orientalista tra i maggiori in Italia (è considerato, tra l’altro, lo scopritore di Ebla) e Gino Roncaglia, docente all’Università della Tuscia, forse il maggiore  esperto italiano di informatica e new media nel settore dell’editoria e delle biblioteche.
Quasi in contemporanea Giovanni Solimine, ordinario in Sapienza e autore di numerosi saggi sulla situazione della lettura in Italia, si è dimesso dal Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici. Sommessamente e tra parentesi: se un gesto così clamoroso fosse stato compiuto durante la gestione del MIBACT di Urbani o di Biondi, come minimo un paio di girotondi ci sarebbero stati, e i giornali ora silenti avrebbero doviziosamente stigmatizzato l’ignoranza della classe dirigente di centrodestra. Ma tant’è, lo ricordiamo fuggevolmente per i posteri e entriamo un po’ nel merito.
All’origine della decisione dei cinque esperti c’è un radicale dissenso verso la politica del MIBACT nei riguardi delle istituzioni bibliotecarie del paese, sia per il provvedimento che ha disposto un improbabile accorpamento della tutela dei beni librari nelle sovrintendenze archivistiche, dimostrando palesemente una visione arretrata, centralistica e burocratica della tutela, sia – e questa è la goccia che ha fatto traboccare il vaso – per la beffa dei numeri nel reclutamento di professionisti bibliotecari.
In un settore in cui le grandi istituzioni librarie, come le Nazionali di Firenze e Roma, soffrono da anni di una cronica carenza di ricambio; in cui un ente come l’ICCU (Istituto centrale per il catalogo unico) – che per anni ha guidato la strategia di lungo periodo nell’informatizzazione del patrimonio librario italiano, attivando quelServizio bibliotecario nazionale (SBN) che, sia pure tra luci e ombre, costituisce un esempio virtuoso anche all’estero –  oggi è ridotto a poche unità di personale, spesso non professionalizzate; insomma in un contesto veramente molto critico il bando delMIBACT che doveva – c’è bisogno di dirlo? – “cambiare verso” anche alle biblioteche, ha previsto l’assunzione di 25 professionisti bibliotecari su 500 totali.
Questo il merito, che smentisce clamorosamente tutta la narrazione renziana (ma non solo) della cultura come “tesoro” da valorizzare: si tratta di istituzioni librarie, si sa e si dice che dovrebbero svolgere un compito fondamentale per la conservazione e la trasmissione delpatrimonio culturale della nazione (e lo fanno in condizioni ormai proibitive), ma evidentemente non si prestano tanto all’hashtag facile o al tweet di tendenza come altri manufatti culturali più visibili e mostrabili.
Qui si vede con chiarezza come la cifra fondamentale del renzismo sia la comunicazione a effetto, un giorno dietro l’altro, con un contestuale disinteresse per le attività di “lunga durata” che non comportino echi mediatici immediati. Certo, questo è un antico vizio (o limite) della politica, che vive di consenso, di apparenza e di voti, ma le modalità operative e comunicative di Matteo Renzi stanno portando questo limite al parossismo. E questa è la prima lezione della vicenda.
La seconda lezione è un po’ tra le pieghe, ma forse è ancor più interessante: nel comunicato di Giovanni Solimine si legge: “Da tempo avvertivamo un certo disagio, dovuto al fatto che agli organi consultivi del Ministero non è stata data l'occasione per esprimersi sulle scelte di fondo e sulle principali questioni che nel recente passato hanno toccato il settore delle biblioteche”. 
Anche qui, è vizio antico della politica nominare esperti di cui fare un po’ un uso “vetrina”, ma nel meraviglioso mondo di Renzi e dei suoi ministri sta crescendo sempre più l’abitudine a non far discutere nessuno, a decidere tutto nelle cerchie di un qualche “giglio magico”, per poi dare mandato agli ex decisori di eseguire: i parlamentari col ricatto della fiducia votano leggi in blocco, senza nemmeno discutere gli emendamenti, e gli esperti non sono ascoltati neppure proforma negli argomenti per cui sarebbero stati nominati.
Nell’insieme assistiamo alla realizzazione di un progetto apparentemente “decisionista”, ma sostanzialmente volto a eliminare ogni livello intermedio, ogni momento di riflessione e di confronto ordinario, per sostituirli con ricette precucinate in riva all’Arno e annunciate ogni volta con grande enfasi come l’inizio della palingenesi d’Italia. Si tratta di un metodo spregiudicato e arrembante, riscontrabile ormai anche negli episodi “minori”, che ci deve far tenere alta la guardia sul progetto di concentrazione di potere che si sta preparando mediante la combinazione perversa tra legge elettorale e riforma costituzionale.

(pubblicato su L'Occidentale del 31 maggio 2016)

Proteggere i deboli, ci aiuta la tecnologia

Il 4 febbraio sulla Stampa on line e sui social compare lo spezzone di un video registrato dai Carabinieri che mostra ai pisani allibiti una scena inimmaginabile nella loro città: una maestra di un asilo nido comunale molto rinomato - e da sempre vantato come esempio di eccellenza pedagogico-sociale - maltratta dei bambini, li strattona, impartisce qualche sberla, li colpisce con le stoviglie. 
Il video è accompagnato dalla notizia che la maestra è stata posta agli arresti domiciliari dall’autorità inquirente. Le immaginisono diffuse solo in piccola parte e prive di audio: il passaparola fa trapelare in città che il “parlato” è ancora più agghiacciante. Ma c’è dell’altro: nel video si notano chiaramente alcune persone adulte (poi si saprà: si tratta di altre maestre) che assistono alla scena senza intervenire e senza scomporsi. 
La città è immediatamente in subbuglio. L’assessore all’istruzione, Marilù Chiofalo, si trincera dietro la spiegazione del “burnoutindividuale e occasionale”, per di più scoperto da pochissimi giorni, all’interno di un sistema eccellente e provvisto delle migliori procedure di controllo e di verifica. La versione del caso isolato, benché sostenuta con sicumera, crolla in pochissimo tempo: non solo sono implicate più persone, ma si apprende quasi subito che qualcosa non andava per il verso giusto almeno dal giugno, o forse dal febbraio2015. 
L’11 febbraio la questione viene discussa in una movimentata seduta del Consiglio comunale. Intanto in città si muovono con molto vigore comitati spontanei di mamme e di cittadini. Il consigliere Raffaele Latrofa con l’associazione civica Pisanelcuore promuove immediatamente una mozione popolare con raccolta di firme, da discutere in seduta pubblica del consiglio, perché si chiariscano tutte le responsabilità e perché si individuino gli strumenti più opportuni per un controllo efficace negli asili. 
La vicenda pisana purtroppo non resta isolata: la cronaca nazionale, in cui anche in passato erano emersi maltrattamenti ai danni di bambini, anziani e disabili in pochi giorni produce una specie di campionario degli orrori: vicino Viterbo anziani presi a schiaffi e calci, con insulti irrepetibili, 3 denunciati per abbondono di incapaci, violenza privata e maltrattamenti. A Vercelli 18 arresti: qui assistiamo a un upgrade del film dell’orrore: pare che alcuni pazienti fossero costretti a maltrattarne altri. A Grottaferrata 10 arresti per maltrattamenti in un centro di riabilitazione neuropsichiatrico. Altre notizie di violenze in asili arrivano da Modena e Milano. 
La capillarità e la frequenza di denunce di questo tipo, una specie di malcostume dilagante che sta assumendo i connotati di un microfenomeno sociale diffuso, costringe la politica ad andare oltre la pur meritoria polemica locale e a fare una riflessione generale sulle modalità con cui sono gestite e controllate le strutture a cui è affidata la parte più debole della nostra società. 
Poiché ci sono migliaia di strutture dove il personale per 365 giorni all’anno svolge il proprio compito bene, e spesso con abnegazione e sacrificio, anche a maggiore tutela di chi fa il suo dovere è necessario prevedere un controllo più stringente: questo non significa trasformare questi luoghi in una specie di casa del Grande Fratello perennemente spiato, perché in questo caso la soluzione sarebbe peggiore del male, ma dotarli di sistemi di registrazione a disposizione esclusiva degli inquirenti e delle forze di polizia in caso di denunce.
La tecnologia offre soluzioni sempre più sofisticate. Resta alla politica l’onere di rimuovere gli eventuali ostacoli legislativi o regolamentari che impediscano di farlo, mentre l’opera di convincimento e di depotenziamento dei timori degli operatori è compito di una serena riflessione culturale e sociale, soprattutto per allontanare i sospetti di demonizzazione e di generalizzazione becera nei confronti di professioni e attività che per loro natura sono delicate, complesse e faticose. Le installazioni di controllo chiaramente non devono ledere il rispetto del lavoro e non devono essere intrusive nello svolgimento ordinario dell’attività educativa, di assistenza o riabilitativa. 
Nel contesto nazionale di tutte le problematiche legate alla tutela delle fasce deboli (anziani, disabili, bambini) il convegno di Pisa nel cuore si vuole porre in modo propositivo, esaminando gli aspetti legali, psicologici e tecnici collegati all'installazione dei sistemi di controllo.

(pubblicato su L'Occidentale il 4 aprile 2016)

domenica 3 aprile 2016

La Madonna di Rupecava

La Madonna di Rupecava: inventari di rovine e qualche tradizione sottotraccia.

La Madonna di Rupecava è una severa immagine trecentesca in legno, attribuita - a detta della relativa voce di Wikipedia - ad Andrea Pisano. E’ stata restaurata e restituita ai suoi bei colori nel 2000.
Da un po’ di tempo conduce una vita da esule, ospitata nella vicina Ripafratta, perché la sua casa di Rupecava è fatiscente e dirupata, probabilmente in modo irreversibile e senza speranza di interventi di restauro.
  







Arrivo a Ripafratta da Pisa, lungo la via vecchia lucchese. La chiesa è chiusa, come capita sempre più spesso nei nostri paesi, per via dei furti e dei danneggiamenti. E così non posso vederla dal vero: visita rimandata a una prossima domenica.
Ripafratta è l’ultimo paese del Pisano in riva al Serchio, a confine con la Lucchesia, di cui risente i buoni influssi nel parlato e nella cucina. Come ogni posto di confine che si rispetti, ha un’aria severa, munita di rocche e torri, che la fanno distinguere nettamente al viaggiatore che percorra l’autostrada o la statale, o meglio – con subitanea apparizione di bellezza – al camminante che si spinga sulla dirimpettaia collina di Avane, dall'altra parte del fiume.


Prendo un po’ d’acqua alla fontana accanto alla chiesa (le scarpe sono già quelle buone) e mi inerpico per un’oretta verso il convento di Rupecava, attraverso il sentiero Pisa 00, dorsale del Monte Pisano, che a Ripafratta si imbocca col nome meno trendy, ma decisamente più antico e paesano di “Via di sopra”. Lascio il paese, veramente un po’ degradato in questa parte, e, superati un paio di torrioni in successione, mi inoltro nel bosco. 


A Rupecava si arriva con poco cammino, in qualche tratto in salita più ripida, ma sempre a portata di (quasi) tutte le gambe. Tant'è che vale la pena di allungare ancora per poco più di un chilometro e raggiungere il crocevia adiacente il sacrario di Molina di Quosa, dedicato alle vittime di una delle tante rappresaglie dell’esercito tedesco che martirizzarono queste terre dopo l’armistizio del 43.
Il convento di Rupecava fa parte di una costellazione di eremi e luoghi di culto che punteggiano il Monte Pisano, oggi praticamente tutti in pessimo stato di conservazione, e che hanno conferito alla zona il suggestivo appellativo di “Tebaide della Toscana”.


I resti, dirupati e vandalizzati, evidenziano una costruzione importante, con cappelle, sale e murature articolate attorno a grotte naturali.
Le notizie sicure più vecchie risalgono alla consacrazione del 1214, ma pare ci siano motivi fondati per ritenerlo il più antico tra gli insediamenti eremitici del Monte Pisano.
Nel Settecento risulta ancora vitale e tenuto da una comunità di frati agostiniani, collegati anche col convento di San Nicola a Pisa.
Il culto della Madonna di Rupecava era molto diffuso tra le popolazioni della Bassa Val di Serchio. Anticamente la festa più importante era il 13 maggio, anniversario della consacrazione del Pantheon alla Madonna Regina dei Martiri: il titolo ufficiale della chiesa di Rupecava infatti è Sancta Maria ad Martyres. Ancora all'inizio dell'Ottocento ci sono tracce di questa festa, celebrata dagli abitanti dei paesi più vicini (quelli del cosiddetto Fosso Macinante) e chiamata Festa di Santa Maria dal Fosso in su.
Ma da molto tempo la festa principale si era spostata all'8 settembre, giorno della Natività di Maria, ed è quella celebrata dalle comunità della Bassa Val di Serchio, sia lucchesi che pisane.
Il 14 agosto si celebra la festa del voto: in ricordo di un rovinoso terremoto del 1840, che risparmiò la popolazione di Ripafratta, gli abitanti si recano in processione fino all'eremo.

Finisco con una notazione curiosa, in questa specie di micro recherche di resti di un’altra Italia: per una circostanza sicuramente casuale ma non per questo meno suggestiva - come direbbe un mio caro amico - il 14 agosto al mio paese è la “giornata-cuore” della festa della Madonna di Canneto, altra abitatrice di dimore montane, e l'8 settembre si celebra la sentitissima festa della Madonna Bambina nel paese di  mia madre, con tanto di sacello a un paio di chilometri dall'abitato.