sabato 2 novembre 2019

Harold Bloom difensore della letteratura occidentale

Oggi si fa perfino un po’ di fatica a crederlo, ma nel 1996, nella premessa alla traduzione italiana (Bompiani, 1996) del Canone Occidentale di Harold Bloom, Francesco Saba Sardi annotò: “Le grandi epoche, anzi vichiani ricorsi in cui si articola, culminano oggi in un’Età caotica nella quale Bloom legge il preannuncio dell’apocalittico ricorso di una nuova Età teocratica con la censoria messa in mora dell’estetico in nome del politically correct, espressione del risentimento verso l’assoluta, anarchica, intollerabile libertà della scrittura”.
Si fa una certa fatica, tanto il dilagare dell’ideologia del politicamente corretto e dell’ingresso massiccio del termine nella polemica anche più spicciola e social ci sembra cosa di questi ultimi tempi. Non che non si potesse sapere, o non si sapesse, anzi: basterebbe ripercorrere il volume di Eugenio Capozzi per avere un’idea della sua genesi. E’ che la lente con cui ci siamo abituati a guardare da vicino il fenomeno, cercando di coglierne tutti i dettagli, inevitabilmente ci ha reso un po’ miopi, e stentiamo a vedere quanto relativamente lontane siano le premesse.

La guerra di Harold Bloom contro la “scuola del risentimento” era cominciata fin dagli anni 70, per maturare nel 1977 nella scelta di lasciare il Dipartimento di Inglese di Yale e di accettare una cattedra di discipline umanistiche (humanities) fuori di ogni struttura dipartimentale, in splendido isolamento. Lettore voracissimo (la leggenda dice che era capace di assumere anche 400 pagine all'ora: un suo amico lo aveva definito “spaventoso”), ma anche scrittore instancabile: nei suoi 60 anni di vita accademica ha pubblicato tantissimi libri e un gran numero di articoli. Perfino negli ultimi anni, benché debilitato da una serie di malattie importanti, non ha mai smesso di leggere, di fare lunghe discussioni di letteratura al telefono, di scrivere (sei libri dal 2017 al 2019). 
Sintetizzando l’enorme varietà dei suoi interessi coltivati in sessanta anni di attività, possiamo indicare -con Arlo Ercolani  (Il Fatto, 18 ottobre)- la separazione fra estetica e ideologia, l’interesse per le tradizioni mistico-esoteriche (dalla Gnosi alla Qabbalah) e i testi sacri (soprattutto il Vecchio Testamento), la lotta contro la controcultura divenuta popolare nelle accademie a partire dagli anni 70, la difesa dei classici contro la mediocrità dei contemporanei, l’amore immenso per Shakespeare, messo al centro della cultura europea, come genio assoluto a cui poter accostare solo Dante.
L’obiettivo della sua polemica è la difesa costante della letteratura dall'assalto dei “selvaggi” – lacaniani, femministe, nuovi storici, titolari di Black Studies – Bloom le chiamava “ideologie punk”, “femminismo vizioso”, “dottrina soffocante” e “nuovi stalinismi”. Descriveva i membri del dipartimento di Inglese come “veri e propri agitatori marxisti”. Una scuola che avrebbe sdoganato tutto, l’afrocentrismo, il femminismo letterario, ogni possibile teoria queer e altri movimenti da Bloom collocati nella “Scuola del risentimento”, i resentniks, “i cosiddetti multiculturalisti che ci dicono che dobbiamo valutare un’opera letteraria a partire dall'origine etnica o dal gender dell’autore” (Giulio Meotti, Il Foglio, 16 ottobre).

Benché lo spettro dei suoi interessi letterari sia stato piuttosto vario, e abbia toccato anche l’esegesi biblica, elaborando nel Libro di J un’audacissima e meticolosa lettura “femminista” della Bibbia, che sarebbe opera di una donna colta e aristocratica vissuta alla corte di Re David,  la sua opera più famosa resta The Western Canon, del 1994, che all'uscita fu accolto come una dichiarazione di guerra, e fu osteggiato radicalmente dagli studiosi legati alla “French School”, ma anche dai gruppi militanti nelle università americane.
La tesi centrale del Canone è che la tradizione letteraria occidentale è rappresentata da 26 autori, da Shakespeare a Dante a Walt Whitman, passando per Dickens e Tolstoj fino a Proust e Beckett, (quasi) tutti bianchi, morti e maschi, ha scritto Mariarosa Mancuso: una vera catastrofe per il politicamente corretto. Nell'appendice figurano 850 nomi di autori che rientrano nel canone e che, a suo giudizio, resisteranno all'urto del tempo.

In sostanza dietro alla guerra del canone c’era “un disaccordo sulla natura e lo scopo della letteratura: se questa si muovesse nel campo dell’estetica e del sublime – termini che Bloom, difensore del romanticismo, amava – oppure se fosse in fondo un’ancella delle scienze sociali, una sovrastruttura. Bloom ha sfruttato ogni forma saggistica e si è avvalso di qualunque tribuna polemica per evitare che i “resentnik”, come li chiamava lui, prendessero il sopravvento nelle facoltà umanistiche americane, ma era una battaglia gravata all'origine da un invincibile senso di sconfitta. In questo era in linea con le considerazioni sulla chiusura della mente americana formulate dal suo omonimo filosofo, Allen Bloom. Aveva il pregio e la civetteria di collocarsi dalla parte sbagliata della storia, scrollando le spalle di fronte al moltiplicarsi di metodi innovativi per affrontare e ripensare il testo letterario”, ha concluso Mattia Ferraresi in un bell'articolo apparso sul Foglio, che restituisce tutta la profondità degli studi e la complessità della vita (compreso l’immancabile incidente con #metoo) di questo Yiddish del Bronx, di origini modeste (working class), che apprende l’ebraico veterotestamentario nella sua famiglia di ebrei ortodossi e praticanti,  si laurea in lettere classiche a Cornell ed è spinto dal suo maestro M.H. Abrams “a cercare un dottorato altrove perché, disse,  “qui non avevamo più nulla da insegnargli”, approdando così a Yale, università alla quale rimase legato tutta la vita e che sta curando un libro postumo dei suoi scritti.

Da ultimo aveva dichiarato la sua sconfitta: “Per cinquant'anni ho combattuto la morte degli studi umanistici nelle università, ma abbiamo perso la guerra e tutto quello che posso fare ora è una sorta di azione di guerriglia, i barbari hanno preso il controllo dell’accademia”.

(Pubblicato sull'Occidentale del 19-10-2019)

domenica 20 ottobre 2019

La destra francese tra Marine e Marion

Osservando lo spettro politico francese, a destra della destra da un po’ di tempo troviamo il fenomeno impetuoso del Front National e dei suoi leader, prima Jean-Marie e poi Marine. Il Fronte, che da ultimo aveva cambiato il nome in Rassemblement national, a più riprese è parso inarrestabile, ma al dunque non è mai riuscito a fare il salto decisivo verso la Presidenza e ha avuto risultati molto modesti alle elezioni regionali.

Questa impasse si è palesata con chiarezza nelle ultime presidenziali, quando alla fine Marine – che nei sondaggi fino ad un certo punto sembrava che sfiorasse la vittoria – è stata sconfitta da Emanuel Macron.

La débacle ha messo a nudo i mugugni e le perplessità che già serpeggiavano nel movimento: nel dibattito tra primo e secondo turno Marine era sembrata del tutto inadeguata alla situazione, e Eric Zemmour, il controverso intellettuale considerato ministro della cultura in pectore, si spinse a parlare di “incompetenza crassa”, mettendo anche sotto accusa le parole d’ordine di sinistra che il Rassemblement aveva adottato, seguendo le indicazioni strategiche ‘trasversaliste’ del suo consigliere Florian Philippot.

Sui temi etici, e non solo, il RN nella sua campagna elettorale era stato quanto meno ambiguo, e sicuramente lontano dalle tesi di movimenti come Manif pour tous, con la cui alleanza invece era stata cementata la sfortunata candidatura neogollista di François Fillon, (auto?) affondata in tempi brevissimi e con modalità che ancora oggi stupiscono.

Dopo il colpo negativo delle presidenziali varie “teste d’uovo” abbandonarono il Rassemblement, e mentre Florian Philippot fondava un suo movimento, Les Patriots (LP), Eric Zemmour si avvicinava alla giovane nipote di Marine, Marion Maréchal, che, dopo aver lasciato la casa politica di famiglia, cominciava a muoversi per conto suo, affrontando le scelte politiche a partire da una ridefinizione del senso complessivo e dei contenuti culturali della destra.

La vittoria di un personaggio “terzo” come Macron, con una forte capacità attrattiva verso la parte più liberal e tecnocratica dei Républicains, il partito di centrodestra erede del gollismo, costringeva comunque a un ripensamento.

Di fronte allo scenario del macronismo trionfante, con la sinistra storica in grande difficoltà al pari del centrodestra, Marine Le Pen ha accentuato la narrazione della insussistenza del clivage destra/sinistra, sostituito a suo parere dall’antitesi mondialismo/patriottismo: l’obiettivo dichiarato di questa strategia, sebbene non trovi molto conforto nei risultati delle elezioni, è ancora quello di raccogliere il voto della “Francia profonda”, oltre le vecchie categorie di destra e sinistra, e battere il mondialismo globalista di Macron. Dall’altra parte Marion, senza entrare al momento in competizione diretta con la zia, e negando – sempre al momento- di volersi candidare alle presidenziali del 2022, si sta muovendo con un intreccio ambizioso di cultura e politica. Per ora la consegna è sempre identica: “Non è un ritorno politico. Forse è un ritorno alla vita pubblica, ma per la metapolitica”

L’obiettivo dei reiterati convegni, che nelle sue intenzioni saranno supportati da una vera e propria accademia di formazione politica, l’ISSEP, è quello “di staccare la spina al 68”, e di creare le condizioni culturali per una rinascita di un conservatorismo adeguato alla sfida attuale. Il 28 settembre ha chiamato a raccolta il milieu conservatore con una vivace “Convention de la droite”, a proposito della quale Marco Gervasoni su Atlantico ha potuto parlare di “conservative renaissance”, perché [Marion] ha intuito che “la crisi della destra è crisi di identità, di progetti, di valori, di cultura”. Accanto a lei si muovono, oltre a Zemmour, vari intellettuali come Elisabeth Lévy, direttrice del Causeur, Jacques de Guillebon, dell’Incorrect, Gérard Leclerc, giornalista e saggista cattolico, e Jean Sévillia, firma storica del Figaro.

Ma la strategia non è confinata in una specie di iperuranio delle idee. Molto concretamente, alla diagnosi che “il Rassemblement national non è più sufficiente”, segue il tentativo di allargare il nuovo fronte conservatore agli ambienti dei Républicains refrattari all’assorbimento nel macronismo. Se questo tentativo riuscisse, costituirebbe un superamento della “conventio ad excludendum” vigente nella destra francese: la conventio, radicata nella frattura storica e culturale tra gli eredi di Vichy e gli eredi della resistenza gollista, ha finora impedito la saldatura di una robusta coalizione di centrodestra.

Rivitalizzare le idee conservatrici e su questa base coltivare i contatti con gli uomini e gli ambienti del centrodestra di origine gollista con cene, incontri e convegni: la doppia articolazione della strategia di Marion Maréchal e del suo mondo di riferimento, volta ad impedire l’assorbimento dei “moderati” nel centrismo macroniano, non sembra evocare problemi, esigenze e soluzioni impellenti anche dalle nostre parti? La contingenza politica italiana al momento pare segnata dal tentativo di ricomposizione di un centro in grado di “tenere in frigorifero” il consenso, sia pure cospicuo, della destra sovranista, magari con l’aiuto di una nuova legge elettorale: forse che anche al centrodestra italiano non serve una ricetta di rifondazione conservatrice alla Marion, maggioritariamente inequivoca e senza sbandamenti verso le sirene centriste?

(Pubblicato sull'Occidentale 8-10-2019)

martedì 1 ottobre 2019

Comunismo e nazismo: chi si scandalizza per l'equiparazione dei due mostri del Novecento?

L’Europa ha stabilito che il Nazismo e il Comunismo sono due totalitarismi equivalenti: questa più o meno è la sintesi che hanno fatto i media della Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull'importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa.
Il documento è stato approvato con 535 voti a favore, 66 contrari e 52 astenuti. A favore si sono espressi il gruppo del PPE, di cui fa parte Forza Italia, il gruppo “Identità e Democrazia”, a cui aderisce la Lega, il gruppo dei “Conservatori e Riformisti”, di cui fa parte Fratelli d’Italia, e il gruppo dei “Socialisti e Democratici” di cui è membro il PD. I parlamentari italiani di questi partiti hanno votato a favore, ma nel gruppo PD c’è stata la defezione di Majorino e Smeriglio, e i poi i distinguo post voto di Benifei e Pisapia. I 5 stelle si sono astenuti.
Si può affermare che la sintesi mediatica non tradisce troppo la sostanza, salvo il fatto che la risoluzione è più articolata e contiene vari altri passaggi, sui quali varrà la pena soffermarsi.

Ma prima vediamo l’accoglienza. Scontate le molte reazioni favorevoli, comprensive di richiami alla lezione di Hannah Arendt (Le origini del totalitarismo è del 1951, e questo vuol dire che la scomoda “parentela”, che i comunisti hanno sempre recalcitrato a riconoscere, era già acclarata almeno dal 51). Quelle contrarie si sono manifestate con diverse gradazioni prima di tutto nell'area della sinistra più legata al mito del comunismo, ma c’è stato qualche dissenso minoritario anche tra i PD. Qualcuno si è limitato a parlare di intervento inappropriato: “certo non è un bel segnale...perché la politica si arroga il compito di intervenire nella scrittura della storia, e di farlo con le semplificazioni e le deformazioni dei comunicati” (così Guido Crainz su Repubblica, con un’osservazione che magari ha una sua ragionevolezza metodologica, ma che curiosamente non si era manifestata ogni volta che organismi politici europei o nazionali si occupano di storia, di revisionismo, e di negazionismo). 

Man mano che ci si addentra nel versante di sinistra i toni si alzano, i distinguo e le perplessità diventano accuse dirette di falsificazione: si va dalla “preoccupazione” dell’ANPI perché “in un’unica riprovazione si accomunano oppressi ed oppressori, vittime e carnefici, invasori e liberatori” fino all'indignazione per l’ “ignobile equiparazione” stigmatizzata da Pastorino e Laforgia di LEU.  Sulla stessa linea si pongono organi di informazione, dal Manifesto ai vari siti “alternativi” on line: per tutti la falsificazione è palese e inaccettabile, perché la risoluzione avrebbe vanificato il ruolo dell’URSS nella lotta contro il nazismo. 


Peccato che tutte queste reazioni – a parte qualche rilievo storiografico sulla centralità del patto Molotov-Ribbentrop nella determinazione dello scoppio della seconda guerra mondiale-  tendano a focalizzarsi su riserve di tipo moralistico (l’oltraggio alle vittime comuniste del nazifascismo e l’offesa alla lotta dell’Unione Sovietica), sfuggendo al confronto accurato con il testo. Al fondo, come ha scritto Carmelo Palma su Strade, “a suscitare l’intollerabilità dell’accostamento e della dichiarazione di consanguineità ideologica tra comunismo e nazifascismo è innanzitutto l’idea che il comunismo vada giudicato non per quello che è stato e doveva essere, ma per l’ansia di libertà, di giustizia e di solidarietà umana che milioni di persone hanno prestato a quest’ideale di violenza politica”. E ancora, molto acutamente: “Dietro il rifiuto di questo accostamento e dietro lo scandalo che continua a suscitare c’è l’idea ultra-totalitaria che il nazifascismo fosse bestiale perché i suoi protagonisti e sostenitori erano, semplicemente, delle bestie, mentre il comunismo sia diventata una disumana macchina di macelleria politica per una sorta di impazzimento del sistema o per un imprevedibile scarto della storia, che ne avrebbe dirottato la vocazione “umanistica” verso direzioni inaspettate, imponendo il giogo stalinista alle speranze di milioni di persone buone e generose. Insomma, nazifascismo e comunismo non dovrebbero essere giudicati ugualmente cattivi, perché i fascisti erano cattivi, ma i comunisti erano buoni e il comunismo reale è stato il tradimento o almeno il fatale dirazzamento dell’ideale comunista, mentre il nazifascismo l’adempimento coerente di un progetto intrinsecamente diabolico”.

Da questo punto di vista la risoluzione e la sua recezione sono la spia di quanto la sinistra di origine comunista, particolarmente in Italia, sia rimasta arroccata nei suoi pregiudizi e nelle sue mitologie, e non abbia affrontato sostanzialmente nessuno dei nodi ideologici e degli schemi propagandistici che la caratterizzano, se non su tematiche periferiche o con stratagemmi lessicali scontati, come la riduzione del problema epocale e complessivo del comunismo alla degenerazione stalinista.
Prova ne è che gli scenari revisionistici o falsificanti conclamati non reggono ad una lettura della risoluzione scevra di pregiudizi. 
Intanto non dovrebbe destare meraviglia che i paesi dell’ex cortina di ferro, affacciatisi da poco nell'Europa comune, siano particolarmente sensibili al fatto che le armate sovietiche, una volta sconfitti i nazisti, abbiano imprigionato i popoli “liberati” e instaurato con la violenza regimi che hanno segnato per decenni la vita concreta delle persone, delle confessioni religiose, della cultura, dell’economia. E neppure che i rappresentanti di questi paesi siano i più solerti nel pretendere un giudizio inequivoco sul comunismo realizzato e teorico. Forse basterebbe fare il piccolo sforzo di mettersi nei loro panni… Poi bisognerebbe comprendere che ovviamente un documento di questo tipo non può esaurire tutte le problematiche storiche e filosofiche che sono sottese a un tema così grande. Non solo, una risoluzione parlamentare è inevitabilmente il prodotto di una serie di interventi e di emendamenti, da cui può derivare qualche effetto di incoerenza, e magari – agli occhi di qualcuno- di compromesso.

Ma anche con tutte le cautele ermeneutiche che possiamo mettere in campo, il percorso tracciato dalla risoluzione non cessa in linea generale di essere condivisibile.
Nel lungo testo premesse e antecedenti introducono 22 punti, nessuno dei quali meritevole di tanta indignazione, ma quasi tutti di palmare evidenza e buon senso, salvo – a mio parere- quelli prescrittivi, come vedremo.
Ricordato il rispetto per la dignità e i diritti umani come valori comuni a tutti gli stati membri, si asserisce preliminarmente che con  il patto Molotov-Ribbentrop e i suoi protocolli segreti i due regimi decisero di spartirsi l’Europa, cominciando dalla Polonia; si ricordano poi gli omicidi di massa e i genocidi compiuti da entrambi, chiedendo che se ne mantenga la memoria anche davanti ai tribunali; segue la  condanna del negazionismo insieme alla preoccupazione per i rigurgiti propagandistici nei paesi europei, e infine si invita la Russia ad un’operazione di verità nei confronti del proprio passato comunista, oggi ancora troppo coperto e giustificato dalla classe dirigente di quel paese.
Il testo si conclude con l’invito a tutti gli stati membri a contrastare “le organizzazioni che incitano all'odio e alla violenza negli spazi pubblici e online, nonché a vietare di fatto i gruppi neofascisti e neonazisti e qualsiasi altra fondazione o associazione che esalti e glorifichi il nazismo e il fascismo o qualsiasi altra forma di totalitarismo”.

Alcune oscillazioni lessicali tipo stalinismo/comunismo e l’invito a contrastare l’uso degli spazi pubblici e a vietare per legge i gruppi che glorificano nazismo e fascismo (esplicitamente citati) e ogni altra forma di totalitarismo (nel quale, alla luce di quanto affermato in lungo e in largo nel documento s’intende implicitamente compreso il comunismo) ha fatto storcere la bocca non solo ai sempre agguerriti antieuropeisti, che cercano comunque di scoprire “dove sta il trucco”, ma anche a qualche pensoso liberale, per il quale i divieti non dovrebbero mai riguardare le manifestazioni del pensiero, ma solo gli atti penalmente criminosi.
Sono preoccupazioni certo non infondate, vista la tendenza dilagante non solo degli stati, ma anche dei “superstati” social ad escludere dal dibattito pubblico chiunque sia ritenuto – a giudizio di chi non è mai troppo chiaro- portatore di “ideologie di odio”.
Però Il fatto che la massima espressione istituzionale dell’Europa, il Parlamento eletto, a larghissima maggioranza abbia preso le distanze dagli incubi ideologici del Ventesimo secolo – e lo abbia fatto con una certa fermezza- oggi ci consente di sperare che i fondamenti della convivenza civile in questo continente possano essere stabilmente di un altro tipo. 
Basta non perdere mai di vista la lezione impartita da Eliot ne L'Idea di una società cristiana: “qui, come ovunque, l’alternativa all'inferno è il purgatorio”.

(Pubblicato con altro titolo sull'Occidentale del 24-9-2019)

mercoledì 25 settembre 2019

Quando Facebook si mette a censurare. E ultimamente lo fa spesso

La vicenda è nota, ed è stata pure (abbastanza) ampiamente commentata: Facebook e Instagram hanno “bannato” le pagine di Casapound e di Forza Nuova
Anche a chi predilige la razionalità più asettica - e aborre l’utilizzo pervasivo della categoria del complotto come chiave interpretativa della storia e della cronaca - non dovrebbe sfuggire la coincidenza temporale di questa decisione con la svolta normalizzatrice impressa al quadro politico italiano attraverso l’operazione parlamentare rappresentata emblematicamente dal secondo dei due Giuseppi.
Ma è soprattutto nel merito che la decisione stride: alle due associazioni, che nel frattempo hanno impugnato la decisione dell’azienda, non è imputata alcuna violazione specifica delle regole, ma una generica, e giuridicamente nebulosa, “propagazione di odio”.  E quanti siti, quante pagine, quanti commenti propalano odio e bizzeffe senza essere non dico bannati, ma neppure rimproverati con un buffettino?

Commenti tanti, dicevo. I legalisti a tutti i costi, per sfuggire al discorso sulla libertà di espressione conculcata, un po’ farisaicamente si aggrappano alla natura “privata” dell’azienda col supremo argomento “a casa mia faccio entrare chi voglio”, senza riflettere nemmeno un minuto sul rilievo pubblico che i social hanno assunto nel nostro sistema di comunicazione globale. Poi ci sono i contrari, tra i quali -centratissimi-  Marcello Veneziani e Eugenio Capozzi, ossia quelli che hanno capito che tira un’aria bruttissima. Con una stilettata sintetica e ben assestata Mattia Feltri, sotto il titolo Fascisti che non ti aspetti, ha scritto sulla Stampa: “Anzitutto è ignota la colpa specifica di CasaPound e Forza Nuova, se non quella generica di avere «diffuso l’odio», capo d’imputazione accettabile forse nei tribunali di Stalin e applicabile, ben oltre l’estrema destra, a metà della popolazione attiva online”.  E ancora: “Si coglie, stavolta lampante, il paradosso di Facebook e Instagram, aziende private – ormai evolute a servizio pubblico per l’uso quotidiano di partiti, sindacati, associazioni – che dichiarano inaccettabili pagine espressione di consiglieri comunali, dunque accettabili per la Repubblica”. Conclusione: “Sulla legge dello Stato troneggia una legge privata, opaca e sovranazionale con cui si separano i giusti dagli ingiusti: se ne sono viste poche di robe più fasciste”. Tombale, a parte la giusta osservazione di Marco Gervasoni, che si potrebbe scrivere benissimo “comuniste”, considerato quanta attività di questo tipo è ascrivibile al mondo delle Vite degli altri.

Perciò il discorso si potrebbe chiudere qui, se non fosse che ad illuminare compiutamente la sgradevolezza dell’episodio ci è venuta in soccorso su Twitter (che è un po’ i Parioli dei social) la senatrice Monica Cirinnà, al solito combattiva, entusiasta e definitiva: “Oscuramento profilo social di Casapound è atto dovuto. Chi predica odio e intolleranza violenta deve essere punito e non può continuare ad infestare i social e il dibattito pubblico. Finalmente! E’ necessario bonificare i social da chi odia e discrimina”.  (Notoriamente lo fa solo Casapound, quelli che augurano la morte e distribuiscono insolenze e insulti a Meloni e Salvini e ai loro seguaci fanno sane operazioni di propaganda benefica, alias “bonifica”, letteralmente da bonum facere).


Fissiamo l’attenzione sulle parole chiave usate da questa aralda dei diritti: atto dovuto, infestare, bonificare: una costellazione lessicale, priva di indicazione di fatti specifici, riconducibile ideologicamente alle modalità inquisitoriali del Novecento totalitario, a cui opportunamente accenna Feltri. L’obiettivo è togliere la parola al nemico ideologico in quanto tale, avendo l’accortezza di restare sempre seduti dalla parte del giudice, senza mai dare un’occhiata ai comportamenti e alla storia dei personaggi del proprio album di famiglia.
Ma consoliamoci: in fondo un progresso c’è stato. In altri tempi “i maggior sui” (ideologici si intende) avrebbero auspicato almeno la deportazione nei campi di lavoro, oggi si attizza e si spinge solo alla bocca cucita. Per la verità, sono progressi un po’ lenti, e soprattutto sempre all’interno di una cornice logica deprecabile, perché alla fine della fiera funziona sempre come ai bei tempi: punto uno, io ho diritto di parlare perché sono nella direzione del progresso e del senso della storia; punto due, sono io che stabilisco chi ha diritto di parlare, e chi deve tacere, anche se nessun tribunale della Repubblica ha riscontrato un reato specifico e neppure ha ravvisato nella tua organizzazione i termini della violazione delle leggi sull'apologia di fascismo e sulla ricostituzione del partito fascista; ma il nucleo censorio è che sei contrario al senso della storia, a quell'orizzonte bellissimo e pacificato dell’umanità nuova che da humus ideale del vecchio sogno gnostico si è via via trasfuso nei messianismi rivoluzionari (Voegelin docet) e oggi è di fatto inglobato anche nella visione delle grandi piattaforme digitali, se ne hanno una ulteriore il profitto. E quindi, niente diritto di parola agli sfigati del “Dio Patria e Famiglia”, a suo tempo così amorevolmente trattati sui social, e via via –estensivamente- a tutti quelli che si oppongono alla costruzione del mondo post-umano dell’ultima rivoluzione, quella che ha al centro la corporeità della persona e la sussistenza dei residui corpi sociali. Basta cominciare a porre il principio generico: il resto seguirà. E vabbè, non pretendiamo troppo: bisogna accontentarsi dello pseudo-liberalismo che passa il convento: revisioni e refresh, giammai riesame dei principi.
E dunque grazie, senatrice, uno per la chiarezza degli obiettivi, esplicitati senza ipocrisia; e due per la generosa disponibilità a limitare la sanzione al “solo” diritto di parola.

(Pubblicato con altro titolo su L'Occidentale del 12-9-2019)

lunedì 23 settembre 2019

Toscana profonda: vetrine, case chiuse e indignate smemorate.

Capita che un consigliere regionale di nome Roberto Salvini, eletto nel collegio di Pisa con tantissime preferenze (le male lingue dicono che cognome e un abile confezionamento dei volantini elettorali gli abbiano dato una bella mano), in una riunione della commissione per lo sviluppo economico, si avventuri nella proposta di arricchire il turismo con l’offerta di ragazze a pagamento ben esposte in vetrina.
“Non ce lo vogliamo togliere il prosciutto dagli occhi? Io sono stato 20 anni fa alle fiere in Germania, in Olanda è uguale, in Austria è uguale, in Francia è uguale: troviamo le donne in vetrina. E' un turismo anche quello”. 
Alla riunione è presente Monia Monni, vicepresidente del gruppo consiliare PD, che pubblica a stretto giro un post su Facebook, dal titolo “Lega contro le donne” (discretamente generalizzante, si può dire?). Immediatamente il video dilaga sui social e rimbalza sul TG RAI regionale e su altri media; in parallelo risale i palazzi delle istituzioni, da dove arriva un salace commento del governatore Rossi, che propone a Salvini (Roberto) di mettersi intanto lui nudo in vetrina, non senza avergli preventivamente ricordato la vigenza nell'ordinamento e il valore esemplare della legge Merlin del 1958. Di rincalzo, da Palazzo Madama la Senatrice Caterina Citi esprime così la sua indignazione: “Lo sfruttamento della prostituzione è una forma di schiavitù del nostro tempo e non è ammissibile sentirne parlare diversamente. Ci aspettiamo che tutta la Lega prenda posizione e condanni quelle dichiarazioni". 

E così avviene in tempi tutto sommato molto stretti. Al Salvini (Roberto) era già arrivata una secca lavata di testa da parte dell’ex ministro al turismo Gian Marco Centinaio, che esprimeva un categorico dissenso dal consigliere toscano, e definiva la proposta priva di fondamento e non condivisa da nessun esponente della Lega, letteralmente una “stupidata”.  
Nel giro di poco la vicenda arriva in qualche modo a conclusione, con un provvedimento di sospensione dal partito a firma del commissario regionale Daniele Belotti: “Toni e contenuti delle dichiarazioni del consigliere Roberto Salvini sono di una gravità tale che non possono essere sottovalutati e presi alla leggera. La Lega da sempre ha una linea politica, con i fatti ancor più che con le parole, di assoluta difesa del ruolo delle donne”. E, continuando, spiega pure come:
“Il nostro Movimento vuole la riapertura delle case chiuse non per mettere le donne in vetrina, ma, anzi, sull'esempio di società civilmente evolute come Svizzera e Austria, per toglierle dallo squallore delle strade. Il fine è quello di garantire più sicurezza nelle città, eliminare il degrado, stroncare radicalmente l’indegno sfruttamento delle donne da parte di organizzazioni criminali, prevenire malattie a trasmissione sessuale e far emergere l’enorme ed incontrollata evasione fiscale, garantendo, in tal modo, entrate tributarie miliardarie per lo Stato”. Che dire? Un comunicato che francamente lascia sbalorditi: in sintesi, le case chiuse sì, ma senza vetrine, importante è che le tapparelle siano ben calate.

Appurato tristemente che questa metà del campo non gode esattamente di buona salute, diamo un’occhiata più attenta all'altra parte, sempre popolata da pronte e combattive tutrici del corpo delle donne, giustamente indignate per ogni riproposizione della bontà -o almeno della praticabilità legale- della prostituzione, con o senza vetrine.
Ecco, loro sono così indignate e pronte alla reazione da rimuovere un punto essenziale. E cioè che nel loro partito allignano numerosi sostenitori e sostenitrici della vendita del corpo delle donne a scopo riproduttivo. E anche qualche autorevole utente. Deve essere senz'altro un’amnesia - benché una strana amnesia di gruppo- perché non è possibile credere che l’accettazione di un pagamento per una prestazione sessuale equivalga a rendere schiavo il corpo delle donne, mentre il pagamento per condurre a termine una gravidanza e consegnare il prodotto al committente sia inscritto in un orizzonte di civiltà, di progresso e di emancipazione. Un orizzonte così alto e nobile che va anche legalmente tutelato, in modo tale che chi avanza perplessità e dubbi o si spinga audacemente al dissenso sia dichiarato omofobo o qualcosaltro-fobo e penalmente perseguito.





domenica 22 settembre 2019

Le radici liberal del totalitarismo dei "buoni"

Lunedì 16 su Il Foglio in apertura campeggiava un titolo che da solo valeva il giornale: “Il totalitarismo dei buoni”. Come non identificarsi? Quante volte è stato questo il nostro pensiero implicito, di fronte agli argomenti del mainstream politicamente corretto?
A seguire Mattia Ferraresi ha confezionato tre paginate di intervista e commenti allo scrittore americano Bret Eston Ellis (1964-) in occasione del suo ultimo, polemicissimo, libro White, che apparirà presto in traduzione italiana presso Einaudi.

Ma di che si tratta? Intanto Ellis non è un parruccone, né certo uno del Tea Party. E’ un romanziere, collocabile nell'area liberal, con uno stile di vita da liberal e che ha alle spalle una cospicua serie di volumi e sceneggiature, tra cui il fortunatissimo American Psycho. Semplicemente ha raggiunto la saturazione per i luoghi comuni e le imposizioni che a suo parere stanno distruggendo la libertà di pensiero negli Stati Uniti e ha cominciato a ragionarci sopra. Qualcuno, penso con un po’ di esagerazione, ha parlato di un nuovo samizdat; altri, forse più appropriatamente di un nuovo Tom Wolfe: più Tom Wolfe che Solzenicyn, suggerisce Ferraresi.
In ‘White’ ce n’è per tutti: documentari, film, articoli di giornale, case editrici, premi, università e istituzioni culturali obbediscono a una serie di precetti basati sulla nuova ideologia progressista, quella che propone ”l’inclusività universale eccetto per quelli che osano fare domande”. Chi si azzarda a farlo “è in qualche modo fottuto”.
E aggiunge: “Questa è una forma totalitaria recente, che non ho mai sperimentato nella mia vita prima. La libertà di espressione e di opinione è stata sempre esaltata qui, ma non è più così. E non riesco a capire perché non c’è una reazione a quello di cui tutti sembrano lamentarsi a parole”.  Nel mirino di Ellis, omosessuale dichiarato, anche il “fascismo gay” e il suo conformismo imposto, e le associazioni che hanno santificato “l’elfo gay”, figura magica e mansueta, che non fa domande complicate, non viola gli ordini di scuderia, si presenta come vittima, vota diligentemente a sinistra, non si azzarda a prendere in considerazione ciò che viene dal mondo conservatore, specialmente da quello di impronta cristiana”.
Insomma, il liberalismo, da posizione ispirata alla difesa della libertà, è stato ridotto in un distorto movimento autoritario che arriva a negare il diritto di parola con molotov e spranghe. E proprio a Berkeley, patria del free speech negli anni Sessanta.

Molti altri spunti costellano i suoi ragionamenti, e altri idoli di terracotta vanno in frantumi: l’isteria delle conversazioni e degli editoriali dei grandi giornali, la crescente incapacità di discutere pacatamente, fino alla confessione pazzesca dell’editorialista del NYT che dichiara di soffrire d’insonnia dal giorno della vittoria di Trump.  Ma il cuore della perversione secondo Ellis sta in una cultura che non sa che farsene dell’arte e della bellezza, ignora il potere della metafora e riconduce tutto alla lettera, allineandosi a una serie di regole prescrittive su cosa l’arte dovrebbe dire, cosa dovrebbe essere, quali valori dovrebbe rappresentare, cosa dovrebbe includere o escludere. Ed è così che abbiamo perso la capacità di leggere un libro o vedere un film senza produrre continue associazioni ideologiche.
Su tutto domina il vittimismo di quelli che, se incontrano un’opinione opposta alla loro, si sentono violentati e l’asserzione diffusa secondo cui nei confronti di Trump chi non è un attivista è un collaborazionista. 
Ma questa non vi pare di averla già sentita?

(Pubblicato sull'Occidentale del 18-9-2019)

sabato 21 settembre 2019

Sindaco o sindaca? Teniamoci stretto il genere prima che dilaghi il no gender

Lo sappiamo bene che quello della lingua non è un terreno neutrale. Basta ricordare che nell'orwelliano 1984 la Neolingua è il veicolo privilegiato per modificare la mentalità, come spiega efficacemente Wikipedia: “Fine specifico della neolingua non è solo quello di fornire, a beneficio degli adepti del Socing, un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Una volta che la neolingua fosse stata radicata nella popolazione e la vecchia lingua (archelingua) completamente dimenticata, ogni pensiero eretico (cioè contrario ai principi del partito) sarebbe divenuto letteralmente impossibile, almeno per quanto attiene a quelle forme speculative che derivano dalle parole”.

Con intensità variabile nel corso del Novecento tutti i regimi totalitari sono stati tentati da questo “rimpasto”, così paradigmaticamente descritto da Orwell, e nei paesi dell’Est i dissidenti avevano ribattezzato “lingua di legno” quella artificiale e fuorviante usata dagli organi di informazione del partito.
Le prescrizioni di tipo linguistico non sono state disdegnate neppure dal Fascismo, sia pure volte prevalentemente a ripulire la lingua italiana dai forestierismi. Alcune di quelle sostituzioni hanno avuto anche successo, al punto che oggi le usiamo in tutta tranquillità senza ricordare il contesto in cui sono nate: una per tutte, ‘autista’, coniato nel 1932 per sostituire lo chauffeur, di origine francese. E già, perché i termini imposti o consigliati dalla politica devono poi passare al vaglio della lingua viva, quella specie di grande fiume dove le trasformazioni e le persistenze si scontrano, si sovrappongono, soccombono o vincono.
Nel nostro mondo, quello della globalizzazione, la coercizione è tendenzialmente “liquida”, anche se in molti casi non meno prescrittiva, come sanno bene giornalisti, educatori, insegnanti, per i quali esistono veri e propri repertori di parole da evitare e di quelle da usare al loro posto: è uno dei vettori dell’avanzata del “politicamente corretto”, così magistralmente descritto nel volume di Eugenio Capozzi.

La questione del genere dei nomi e degli aggettivi, specie se riferita a professioni e cariche pubbliche, è un aspetto importante dell’interazione società-cultura-politica e si inserisce sicuramente in un contesto in cui l’autorità politica tenta spesso di fornire un indirizzo prescrittivo. E’ una questione che riemerge periodicamente, quando per l’esternazione di un personaggio politico, quando per la decisione di un’amministrazione comunale, quando per una polemica sui social. Giusto il 5 agosto il Corriere delle Sera riportava la notizia di una delibera del Comune di Milano sull'uso della declinazione “di genere” negli atti amministrativi e nella denominazione delle cariche, tipo assessore/assessora, sindaco/sindaca, revisore/revisora. Il tutto accompagnato da un perentorio “declinare al maschile è una violenza”: se un organismo pubblico –al 99,99% governato dalla sinistra- si esprime in questi termini, è abbastanza spiegabile che da destra partano risposte a palle incatenate, e che alla dichiarazione “non mi chiami assessore, io sono assessora” dell’una, la parlamentare di destra, rivolta al Presidente della Camera, risponda “mi chiami deputato, non deputata”.
Spiegabile, certo, ma è davvero un peccato che su una questione così delicata non si riesca a ragionare con saggezza, e anzi prevalgano caricature improbabili come “presidenta”, che tanto successo ha avuto nei confronti di Laura Boldrini, che semplicemente voleva essere chiamata LA Presidente (una cosa che per esempio le suore fanno da qualche secolo).
Io non mi rassegnerei facilmente all'idea che la risposta al prescrittivismo burocratico debba essere l’ignoranza. Purtroppo in una nota veloce non c’è tempo per articolare fino in fondo un tema così complesso, ma comunque vorrei dare qualche spunto per riflettere meglio, uscendo dalle reazioni puramente di rimbalzo.

Partiamo dal punto nevralgico: l’italiano ha due generi, maschile e femminile. I generi grammaticali non ricalcano al 100% la distinzione biologica e culturale maschio/femmina, ma certamente hanno un rapporto molto forte con essa, potremmo dire che sono l’impronta della differenza sessuale nel tessuto della lingua. Anche questo deve essere sottolineato, perché non è difficile constatare che la battaglia per le desinenze femminili alla fin fine risulta un po’ di retroguardia: quando sarà percepita con lampante evidenza la “violenza” del doversi dichiarare appartenenti a un sesso specifico tramite la desinenza apposta alla denominazione della propria funzione, si comincerà – mi sembra una facile profezia - a esigere tassativamente una terminologia “no gender”, che è la vera frontiera della modificazione prescrittiva della lingua e della mentalità
Per la verità nel corso del tempo senza tante circolari la lingua italiana, sedimentando i mutamenti sociali, ha dolcemente introdotto il femminile nelle professioni e nelle attività svolte da donne, man mano che questo fenomeno si allargava. A partire dalle badesse medievali - nessuna delle quali avrebbe mai gridato ”mi chiami abate!” -  fino alle maestre, alle professoresse, alle dottoresse (il femminile reso con –essa in luogo del semplice –a ha avuto molta forza, e in generale i linguisti ritengono che questi termini sono entrati troppo saldamente nell'uso, per tentare di modificarli d’autorità). 
Per completare il quadro ricordo pure che gli aggettivi e i sostantivi che terminano in –ente rendono il femminile con l’articolo, per la semplice ragione che derivano da participi presenti latini ambigeneri. Quindi, per carità, nessuna presidenta, sia pure per ritorsione polemica. Ci sono poi alcuni nomi maschili che terminano in –a, tipo il poeta, come nella prima declinazione latina: anche qui teniamo lontano poeto e astronauto! Infine c’è un gruppo di nomi come la guardia e la sentinella che sono femminili anche se riferiti tradizionalmente a maschi.


Questo è il quadro di riferimento, sia pure ridotto all'essenziale. Ma che fare con sindaca e assessora? Niente vieta che entrino legittimamente nell'uso, perché questa è una tendenza forte della lingua italiana, ma… giacché ci siamo vediamo qualche ultimo ma.
Intanto ci sono avvocate che preferiscono essere chiamate “avvocato” perché più professionale (evidentemente non sufficit il prestigio dell’Advocata nostra, ma tant'è, e siamo in un altro campo); conosco dottoresse di ricerca nient’affatto destrorse che preferiscono definirsi dottore: quindi il problema non tocca solo le deputate di destra. Il fatto è che, pur non esistendo il neutro, in italiano c’è il maschile “sovraesteso”, che in pratica svolge una funzione ambigenere (il leone mangia la carne riguarda anche le femmine, mentre la leonessa allatta i cuccioli). Soprattutto per le funzioni pubbliche e negli atti formali il tipo Il Sindaco, il Rettore, l’Assessore ecc. seguito da titolo e nome femminile potrebbe tranquillamente convivere con formulazioni al femminile utilizzate in un contesto descrittivo e narrativo: se vogliamo raccontare che la sindaca è incinta, sarebbe perlomeno strano usare il maschile nel nome e nell'aggettivo. 
Al di là dell’esempio estremo, mi pare evidente che tutta la questione è alquanto complessa (d'altronde ciò che non è complicato è falso, stando alla lezione di Gomez Davila) e che nel rifiutare il prescrittivismo burocratico è bene non dimenticare che il fiume (della storia e della lingua) scorre e che la tradizione non è un museo

Personalmente, sia pure con molta benevolenza verso i “resistenti”, preferisco pensare che se c’è la sarta e la maestra, ci sarà anche la sindaca.
Ma, sia ben chiaro, nella battaglia finale tra l’assessora e l’asterisco obbligatorio, io so già da che parte stare.

(Pubblicato sull'Occidentale del 16-8-2019)

Adesso chiedete scusa a Scruton





Se fosse il sequel di un film si potrebbe intitolare “Roger Scruton, il ritorno” o anche più trucemente “la vendetta”, se non fosse che il termine poco si addice all'educazione britannica e al notevole senso estetico del nostro.


L’antefatto.
I lettori dell’Occidentale ricorderanno che a metà aprile Scruton era stato rimosso dalla presidenza della commissione governativa Building More, Building Beautiful, che si occupa di edilizia residenziale, in cui era stato chiamato per la sua fama di pensatore e soprattutto per i suoi importanti contributi di estetica.

L’allontanamento era stato causato da alcune affermazioni “politicamente scorrette” su Soros, sulla Cina e sul termine islamofobia riportate in un’intervista al New Statesman, a cui aveva fatto seguito l’immancabile tempesta Twitter, che ne aveva amplificato la portata.
Il fatto che a rimuoverlo fosse stato un ministro del governo conservatore e che non fosse stato difeso dal premier aveva accresciuto lo stupore dei commentatori, dal momento che Scruton è considerato universalmente un pilastro del pensiero conservatore.
Il provvedimento era stato ampiamente commentato nel mondo anglosassone, ed aveva suscitato critiche anche in ambienti della sinistra libertaria. In Italia, oltre a noi dell’Occidentale, se ne erano occupate varie testate; e su Vita e Pensiero era apparso un intervento di Sergio Belardinelli.


Che è successo nel frattempo? Un’analisi accurata fatta anche con la trascrizione integrale ha dimostrato in modo incontrovertibile che George Eaton, del New Statesman, acerrimo nemico di Scruton, aveva forzato il testo e il contesto dell’intervista, tagliando le dichiarazioni in modo capzioso. E il giornale ha dovuto fare marcia indietro, pubblicare il testo vero e scusarsi.

Risultati immagini per Spectator Scruton

A ruota il ministro Brokenshire, con una lettera allo Spectator, il settimanale che si era mobilitato in difesa di Scruton, lo ha invitato a dare di nuovo il suo importante contributo ai lavori della commissione: “Sono lieto anche che il New Statesman abbia pubblicato una rettifica all'intervista originale, che non rappresentava correttamente e interamente le sue idee come avrebbe dovuto. Come sa, mi rincresce che la decisione di rimuoverla dalla presidenza della Commissione sia stata presa nel modo in cui è stata presa. Mi dispiace: soprattutto perché è avvenuta sulla base di un resoconto chiaramente parziale del suo pensiero. Sto ora valutando la prossima fase del lavoro della Commissione. Se lo desidera, vorrei invitarla a un incontro per discutere di tale lavoro e di quale ruolo lei sarebbe disposto a svolgere nel portare avanti l’importante agenda che interessa tanto a entrambi”.
Pare che anche Teresa May, dalla zona Cesarini del suo mandato come premier, gli abbia rivolto un invito analogo.
I media inglesi- dalla BBC all’Independent  fino al progressista Guardian- hanno dato conto del provvisorio finale. In Italia che io sappia finora se ne è (come al solito meritevolmente) occupato Tempi.

Dunque tutto il caso è rientrato e sotto controllo?
Di sicuro, stando a quanto dichiarato da un portavoce del ministro, pare che il filosofo incontrerà presto il ministro Brokenshire.
Resta il fatto che la ferita è stata profonda e ne rimangono tracce vistose, come testimonia il commento di Scruton:
“Questa esperienza è stata molto spiacevole, non da ultimo per i giudizi affrettati di media e politici. Mi ha particolarmente umiliato il comportamento del ministro, che mi ha licenziato in forza dell’articolo del New Statesman senza nemmeno chiedermi se riportasse correttamente quel che avevo detto. Mi hanno stupito anche i commenti di Downing Street e il fatto che il Partito conservatore non abbia fatto alcuno sforzo nel suo insieme per difendermi. Sono grato al New Statesman quanto meno per questo: questi fatti umilianti mi hanno fatto rendere conto della autentica crisi morale del Partito a cui, nonostante tutto, ancora appartengo”.
(Pubblicato anche sull'Occidentale del 17-4-2019)

sabato 11 maggio 2019

L'orologio di Greta segna mezzanotte meno cinque, ma da più di un secolo

Greta Thunberg

La mobilitazione per il fenomeno Greta non si è ancora del tutto esaurita e i suoi slogan sono sostenuti da molti settori di opinione pubblica, in prima fila giornalisti e politici. 
Ne ha parlato sull'Occidentale Federica Ciampa, e varie altre voci fuori dal coro, come quella di Riccardo Ruggeri, hanno sottolineato come apparato mediatico e marketing ben studiato stiano “pompando” la diffusione del personaggio e del suo messaggio: quindi, benché minoritarie, non sono mancate le prese di distanza, le ironie e per la verità neppure qualche tono fuori misura. 
Andando più nel merito degli argomenti, ci sono scienziati -come il climatologo Franco Prodi e il fisico Carlo Rubbia, per non dire del combattivo Franco Battaglia-  che hanno contestato anche giornalisticamente l’assunto fondamentale dei movimenti ecologisti estremi, e cioè che il cambiamento del clima sia determinato in modo significativo dall'azione umana e dall'inquinamento.
Piuttosto – è stato rilevato- le posizioni apocalittiche espresse all'insegna dei fridays for future rischiano di liquidare sommariamente un problema (quello dell’inquinamento) che necessita di interventi strutturali e di politiche energetiche e industriali non recessive. L’approccio pragmatico non si sottrae alla preoccupazione per la cura dell’ambiente e anche l’approccio culturale dei conservatori riflessivi è tutt'altro che contraddistinto da una superficiale sottovalutazione del problema: basta rileggere il bel capitolo del Manifesto dei conservatori di Roger Scruton dal titolo “Conservare la natura” (ed.it. Raffaello Cortina, 2007).

Il fatto è che molte affermazioni ecologistiche estreme hanno a che fare più con la filosofia o, se vogliamo addentrarci ancora più in profondità, con un pensiero di tipo religioso. Michael Novak ha parlato di “segni caratteristici della religione gnostica, con Madre Natura assunta a idolo” e, al fondo delle formulazioni più radicali, si percepisce l’ostilità alla presenza umana nel pianeta, l’idea dell’uomo come grande parassita. Lo ha messo bene in evidenza, con ricchezza di riferimenti, anche Eugenio Capozzi nel suo Politicamente corretto (Marsilio, 2018), che articola attorno a questo tema  uno dei quattro blocchi su cui si sviluppa la riflessione del volume.
Il misticismo panteistico e la tipologia apocalittica dell’annuncio in realtà coesistono con la componente “religiosa” dell’ambientalismo fin dalle origini. Ad ogni svolta, la fine del mondo industrializzato e inquinato viene annunciata come imminente: non c’è tempo, manca poco alla catastrofe!

La storia del Rapporto del Club di Roma sui limiti dello sviluppo, diffuso più di mezzo secolo fa è abbastanza nota, compresa la nota previsione (errata) della fine delle risorse petrolifere entro il secolo.  L’acme delle previsioni catastrofiste fu raggiunto forse durante la Giornata della Terra del 1970, e curiosamente comprendeva anche un’apocalisse non causata come ora dal riscaldamento globale, ma da un raffreddamento da “nuova era glaciale”.  Sempre entro il 2000.


Gruppo di Wandervogel

Ma se andiamo ancora indietro nel tempo, all'inizio del 900, ci imbattiamo in una singolare anticipazione di quasi tutti i timori con cui abbiamo appreso a convivere, con le analoghe modalità apocalittiche della loro enunciazione, e col sottofondo religioso gnostico o panteista che alcuni studiosi hanno rilevato.  Solo che, un po’ perché è più vecchia, un po’per ragioni legate all'esito di una parte di questi movimenti, la vicenda non è conosciuta come la storia della cultura ecologista del dopoguerra.

Ludwig Klages
Parliamo del libro L’uomo e la terra di Ludwig Klages (1872-1956) - un intellettuale vicino a Stefan George e a Johann Jakob Bachofen-  e di tutto l’ambiente che fa capo  al movimento giovanile dei Wandervögel. Questo movimento in parte anticipò molte tematiche hippie con prevalenza del filone “emancipazionista” e liberatorio, ma in una parte non trascurabile, tramite il culto romantico dei boschi e della natura incontaminata dall'industrialismo, confluì nel nazionalsocialismo, in cui peraltro Klages – benché intellettuale molto conservatore e con venature antisemite-  rimase sempre in qualche modo appartato e non organico.
All'inizio il movimento si presentava come un contenitore che mescolava “neo-romanticismo, filosofie orientali, misticismo della natura, ostilità alla ragione e un forte impulso comune verso una confusa ma non meno ardente ricerca di rapporti sociali autentici e non alienati. La loro enfasi sul ritorno alla terra spronò una appassionata sensibilità verso il mondo naturale e i danni che soffriva”. Insomma possiamo dire che a quel punto le ragazze acqua e sapone nei boschi nordici erano già un’immagine consolidata.


Il simbolo dell’assemblea sull’Hoher Meißner. 
Nel 1913, in occasione del grande raduno dell'Hoher Meissner (una specie di Woodstock di inizio secolo) uscì il libro di Klages, ristampato più e più volte, e ancora oggi considerato un caposaldo dell’ecologismo (ed. it. Edizioni Mimesis, 1998).
L’uomo e la Terra anticipava quasi tutti i temi del movimento ecologista contemporaneo. Denunciava l’accelerata estinzione delle specie, la rottura dell’equilibrio del sistema ecologico globale, la deforestazione, la distruzione dei popoli aborigeni e dei loro habitat, l’allargamento delle città e l’aumentata alienazione della gente dalla natura. In termini enfatici condannava il cristianesimo, il capitalismo, l’utilitarismo economico, l’iperconsumo e l’ideologia del “progresso”. Condannava anche la distruttività ambientale del turismo rampante e il massacro delle balene e mostrava una chiara cognizione del pianeta come una totalità ecologica”. Il tutto come estremamente imminente.
Insomma già nel 1913 l’orologio dell’apocalisse segnava le 23:55!

(Pubblicato col titolo Ambiente, Greta & Co. si svegliano tardi: l'orologio segna le 23.55 dal 1913! sull' Occidentale del 1-5-19)


Jean Vanier, un moderno "pazzo di Dio"

Quando i giornali di tutto il mondo  hanno riferito che il 7 maggio, a  90 anni, era morto Jean Vanier (1928-2019) e che papa Francesco aveva espresso il suo cordoglio - come capita con le persone importanti-  molti si saranno chiesti chi fosse, perché ai più probabilmente risultava un nome praticamente sconosciuto: Vanier infatti era una di quelle figure straordinarie di cui magari non si parla per anni, ma che nella loro esistenza hanno costruito realtà solide e intessuto reti di relazioni dense di bene. E che la momento della morte “bucano” la superficialità della nostra “infosfera”, prevalentemente costruita su notorietà effimere e destinate a veloci obsolescenze.
Io l’avevo per così dire ‘incontrato’ qualche anno fa, in un libro di Emmanuel Carrère (Il Regno) che ritengo bello anche se complesso -non fosse altro per il difficile percorso dell'autore, sostanzialmente non credente (che poi è una definizione molto stretta in ogni caso, ma nel suo caso è davvero strettissima) in un tema come la vita di Gesù vista attraverso i suoi testimoni, in particolare Luca e la sue fonti e San Paolo - e che ha un finale stupefacente, costruito proprio sull'incontro dell’autore con Jean Vanier e con una delle sue comunità dell’Arca.
Più di cinquant'anni fa – racconta Carrère- un canadese che aveva fatto la guerra nella marina inglese, poi era stato ufficiale nella marina canadese, all'improvviso si era messo a studiare filosofia e stava cercando la sua strada. Nel Vangelo, è ancora Carrère che parla, c’è un brano o una frase per ognuno di noi: quella di Vanier si trova in Luca, ed è quella sul banchetto al quale Gesù consiglia di non invitare gli amici ricchi, né quelli del proprio giro, ma i mendicanti, gli storpi, i minorati che arrancano per strada, quelli che la gente evita e che nessuno naturalmente invita mai. 

Quale fosse esattamente la sua strada, come ha ricordato su Tempi Leone Grotti, “non lo sapeva ancora quando acquistò nel 1963 una catapecchia senza elettricità e acqua corrente a Trosly-Breuil, qualche decina di chilometri a nord di Parigi. Ma lo capì quando un vecchio amico di famiglia, il sacerdote domenicano Thomas Philippe, che viveva nella cittadina, lo invitò a visitare un istituto che curava i malati mentali. Era il 1964.
Non era esattamente un posto terapeutico, ma piuttosto un vero e proprio parcheggio per gli incurabili, quelli che sbavano e urlano a squarciagola, per capirci. 
E la sua strada Vanier non la voleva cercare con una soluzione tiepida, sia pure da buon samaritano dei nostri tempi, uno interessato a fare piccole belle cose per i più piccoli: voleva “seguire Gesù” ed essere “eccessivo”, a costo di sembrare “un po’ pazzo.  Affermava che nel messaggio del Vangelo c’è qualcosa di semplice ed di eccessivo: Gesù faceva tutto in eccesso. A Cana, trasformò l’acqua in una quantità eccessiva di vino. Moltiplicò una quantità eccessiva di pane e amare i propri nemici è un eccesso di amore. Tutto è eccessivo perché l’amore non può che essere eccessivo.
Rimasi molto toccato dalla visita al “manicomio”, ricordava nel 2002 a 73 anni, in un’intervista al Catholic Herald. “Ho scoperto un intero mondo di dolore e debolezza”. Dopo quella visita, fece un’altra “pazzia”: invitò due disabili, Raphael Simi e Philippe Seux, a vivere in casa sua per “condividere tutto”. “Queste persone non erano viste come esseri umani con un valore. Io invece ho scoperto in loro il Vangelo: io parlavo delle Beatitudini e dei valori del Vangelo, loro invece li incarnavano in modo profondo”. I due ospiti cominciarono a vivere con lui come in una famiglia: era la prima comunità dell’Arca. Ne seguiranno altre, basate sullo stesso modello di condivisione di vita, come una famiglia.
Oggi il lascito di Vanier è di 154 comunità in 38 paesi dei cinque continenti e un’organizzazione, Fede e luce fondata nel 1971), che riunisce ogni mese decine di migliaia di persone con handicap, le loro famiglie e i loro amici in 83 paesi in tutto il mondo.
Ispirate alla sua esperienza e alla sua vocazione sono anche numerosissime pubblicazioni, anche a carattere teorico, perfino una riflessione sulla felicità basata sull'etica aristotelica. Ha avuto anche incarichi ecclesiali importanti: è stato membro del Pontificio consiglio per i laici e ha ricevuto nel 2015 il Premio Templeton, uno dei massimi riconoscimenti mondiali che ogni anno viene attribuito a personalità del mondo religioso. Nel 1983 pronunciò il discorso di apertura dell’Assemblea generale del Consiglio ecumenico della Chiesa, a Vancouver, e nel 1987 su invito di san Giovanni Paolo II partecipò al Sinodo sulla laicità a Roma. 
Ma la cifra profonda del suo insegnamento, tutto incentrato sulla concretezza dell’esperienza cristiana, la possiamo cogliere nell'evocazione della lavanda dei piedi, praticata nelle sue comunità, per la quale non posso che rimandare allo straordinario racconto di Carrère, un evento "liturgico" e comunitario incardinato in una sua famosa riflessione: “Vivere è molto più difficile che morire. Ci sono molte persone che vivono ma sono tristi come la morte. Bisogna vivere l’oggi e ringraziare per ciò che siamo. La gente pensa che dovrebbe fare qualcosa di buono per i poveri, ma in pochi sanno che i poveri possono farci molto bene, possono cambiarci”.

(Con lievi differenze il testo è stato pubblicato col titolo Jean Vanier, la pazzia di seguire Gesù  su L'Occidentale dell'8-5-19)