domenica 22 settembre 2019

Le radici liberal del totalitarismo dei "buoni"

Lunedì 16 su Il Foglio in apertura campeggiava un titolo che da solo valeva il giornale: “Il totalitarismo dei buoni”. Come non identificarsi? Quante volte è stato questo il nostro pensiero implicito, di fronte agli argomenti del mainstream politicamente corretto?
A seguire Mattia Ferraresi ha confezionato tre paginate di intervista e commenti allo scrittore americano Bret Eston Ellis (1964-) in occasione del suo ultimo, polemicissimo, libro White, che apparirà presto in traduzione italiana presso Einaudi.

Ma di che si tratta? Intanto Ellis non è un parruccone, né certo uno del Tea Party. E’ un romanziere, collocabile nell'area liberal, con uno stile di vita da liberal e che ha alle spalle una cospicua serie di volumi e sceneggiature, tra cui il fortunatissimo American Psycho. Semplicemente ha raggiunto la saturazione per i luoghi comuni e le imposizioni che a suo parere stanno distruggendo la libertà di pensiero negli Stati Uniti e ha cominciato a ragionarci sopra. Qualcuno, penso con un po’ di esagerazione, ha parlato di un nuovo samizdat; altri, forse più appropriatamente di un nuovo Tom Wolfe: più Tom Wolfe che Solzenicyn, suggerisce Ferraresi.
In ‘White’ ce n’è per tutti: documentari, film, articoli di giornale, case editrici, premi, università e istituzioni culturali obbediscono a una serie di precetti basati sulla nuova ideologia progressista, quella che propone ”l’inclusività universale eccetto per quelli che osano fare domande”. Chi si azzarda a farlo “è in qualche modo fottuto”.
E aggiunge: “Questa è una forma totalitaria recente, che non ho mai sperimentato nella mia vita prima. La libertà di espressione e di opinione è stata sempre esaltata qui, ma non è più così. E non riesco a capire perché non c’è una reazione a quello di cui tutti sembrano lamentarsi a parole”.  Nel mirino di Ellis, omosessuale dichiarato, anche il “fascismo gay” e il suo conformismo imposto, e le associazioni che hanno santificato “l’elfo gay”, figura magica e mansueta, che non fa domande complicate, non viola gli ordini di scuderia, si presenta come vittima, vota diligentemente a sinistra, non si azzarda a prendere in considerazione ciò che viene dal mondo conservatore, specialmente da quello di impronta cristiana”.
Insomma, il liberalismo, da posizione ispirata alla difesa della libertà, è stato ridotto in un distorto movimento autoritario che arriva a negare il diritto di parola con molotov e spranghe. E proprio a Berkeley, patria del free speech negli anni Sessanta.

Molti altri spunti costellano i suoi ragionamenti, e altri idoli di terracotta vanno in frantumi: l’isteria delle conversazioni e degli editoriali dei grandi giornali, la crescente incapacità di discutere pacatamente, fino alla confessione pazzesca dell’editorialista del NYT che dichiara di soffrire d’insonnia dal giorno della vittoria di Trump.  Ma il cuore della perversione secondo Ellis sta in una cultura che non sa che farsene dell’arte e della bellezza, ignora il potere della metafora e riconduce tutto alla lettera, allineandosi a una serie di regole prescrittive su cosa l’arte dovrebbe dire, cosa dovrebbe essere, quali valori dovrebbe rappresentare, cosa dovrebbe includere o escludere. Ed è così che abbiamo perso la capacità di leggere un libro o vedere un film senza produrre continue associazioni ideologiche.
Su tutto domina il vittimismo di quelli che, se incontrano un’opinione opposta alla loro, si sentono violentati e l’asserzione diffusa secondo cui nei confronti di Trump chi non è un attivista è un collaborazionista. 
Ma questa non vi pare di averla già sentita?

(Pubblicato sull'Occidentale del 18-9-2019)

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