giovedì 15 novembre 2018

Leone, il bambino che spezza l'incantesimo


Intorno ai bambini “il cristianesimo — la forza che ha sorretto e reso grande la nostra civiltà — non esiste più. E non esiste perché il sacro è stato divorato a grandi morsi fuori e dentro la chiesa, e quello che rimane spesso non è altro che una vestigia identitaria nostalgica o un abito esterno che si indossa per tradizioni sociali. Il cattolicesimo non viene più visto come una chiave di lettura del mondo ma, nel migliore dei casi, come una succursale dei servizi sociali o di qualche laica Ong”. 
Così Susanna Tamaro sul Corriere della sera del 12 ottobre descrive il contesto nel quale vive anche Leone, il protagonista dell’ultimo romanzo di Paola Mastrocola pubblicato da Einaudi, in libreria dal 16 ottobre.


Mastrocola, classe 1956, torinese con padre abruzzese, ha cominciato a scrivere nel 1977; si è laureata in Lettere nel 1980 e a lungo ha alternato la sua attività di scrittrice con l’insegnamento scolastico e la ricerca universitaria nel campo degli studi italianistici, fino a dedicarsi alla scrittura full time e con notevole produttività.


Rispetto alla rappresentazione politicamente corretta della nostra società e ai suoi miti progressisti non è certo la prima volta che racconta storie controcorrente, e con protagonisti davvero imperdonabili. E neppure si è sottratta a dichiarazioni pubbliche scomode, specialmente sul tema della scuola, sottofondo del suo romanzo Una barca nel bosco (premio Super Campiello 2004), in cui aveva affrontato di petto il nodo della dequalificazione dell’insegnamento. E’ la storia di Gaspare Torrente, un ragazzo che si trasferisce al Nord per frequentare un Liceo adeguato al suo grande talento per gli studi e alle sue aspirazioni, ma incontra la derisione dei compagni e la mediocrità degli insegnanti, nella cornice di un sistema scolastico che punta sempre più verso il basso e ignora i migliori: tema che ritorna nel pamphlet La scuola raccontata al mio cane, sempre del 2004.

Tre anni dopo, con Più lontana della luna, è la volta di una ragazza degli anni 70 che, invece di partecipare al movimento studentesco, insegue l’amore ideale vagheggiato nella poesia cavalleresca. 
Nel 2013 va in scena la fuga dalla palude accademica: in Non so niente di te un ragazzo ventottenne avviato a una brillante carriera di economista di colpo abbandona gli studi; per tre anni finge di fare un dottorato e invece si rifugia nella campagna inglese a pascolare pecore, per poter studiare meglio, fuori dal clima competitivo e utilitarista dell’università di oggi.

Leone è un altro imperdonabile, ma cambia lo spartito. La madre -Katia- è una normale nostra contemporanea: separata, lavora in un supermercato, ha ricevuto una dimenticata e rimossa mezza educazione cattolica, e vive il suo trantran abbastanza infelice senza aperture e senza domande sul trascendente: si è pure sposata in chiesa, ma né lei né l’ex marito hanno attribuito una qualche importanza all'evento.  Vive con il figlio di sei anni in un paese ormai trasformato in periferia di una grande metropoli: un paesaggio perfetto per il quadro della scristianizzazione light, in cui la religione è personalmente e socialmente insignificante, senza che ci sia neppure un’ostilità dichiarata. Non c’è la religione, non c’è neppure il problema, tutto è anestetizzato. 

Ed è in questo contesto che accade l’evento imprevisto, quello che mette a soqquadro il trantran, potremmo quasi dire l'esorcismo che mette in fuga l'incantesimo dell'ottundimento post-cristiano.


Katia un giorno si accorge che di tanto in tanto Leone all'improvviso si mette a pregare; e non recita preghiere generiche o vagamente new age, ma proprio quelle della tradizione cristiano-cattolica: Padre nostro, Ave Maria, Angelo di Dio e -incredibile-  anche il Credo mandato a memoria. Comincia un’accorata ricerca dell'origine di questa stranezza; Katia a un certo punto viene anche convocata a scuola, dove la maestra e la preside emettono la sentenza: «Suo figlio che prega, esula». Come dice l'autrice, con una espressione che non è sfuggita all'acuto Riccardo Ruggeri «esula deriva da esilio, a noi gli esuli piacciono solo esotici, non quelli nostrani».
Katia cerca aiuto nell'ex marito, nelle colleghe, ma nessuno capisce fino in fondo il suo disagio e la sua paura per la derisione e l’emarginazione sociale a cui va incontro il bambino. A un certo punto la verità viene a galla, e si scopre che Leone semplicemente ha imparato le preghiere dalla nonna a cui era molto affezionato e ha cominciato a recitarle da solo dopo la sua morte. 
La vicenda si srotola trovando man mano una sua spiegazione abbastanza verosimile, ma nell'insieme la storia conserva il sapore di una fiaba metropolitana nel tempo della nostra distratta contemporaneità.
Il finale, quasi una parabola, lo lascio ai lettori, che spero saranno numerosi.

(Pubblicato senza link ipertestuali e col titolo Signora, suo figlio che prega, esula sull'Occidentale del 13 novembre)

venerdì 9 novembre 2018

Il centrodestra ci prova in Toscana. Con il "patto della bistecca"


In Toscana i contendenti si stanno riscaldando per la battaglia delle elezioni regionali.
Per la verità alcuni anni fa -quelli del mitico 40%- il centrodestra fu vicino alla possibilità di giocarsi la partita della conquista della Regione. Ma da più parti si sospetta – e si dice- che in sostanza ci rinunciò per accordi e spartizioni di influenze (e convenienze) ai vertici. Di fatto, al di là dei retroscena, è vero che una battaglia vera, fatta con convinzione e con tutte le armi lecite, non fu combattuta, e cominciarono gli anni del declino, quando anche le città governate dal centrodestra (Lucca, Prato, Grosseto, Arezzo) e conquistate durante gli anni “mitici” caddero una ad una.
I primi segnali di una nuova svolta si ebbero con la vittoria di Antonfrancesco Vivarelli Colonna a Grosseto e di Alessandro Ghinelli ad Arezzo. Poi, come una valanga sospinta dal crescente consenso della Lega, dopo le clamorose ed emblematiche vittorie di Susanna Ceccardi nella rossissima Cascina, di Silvia Chiassai nella boschiana Montevarchi, è stata la volta di Pistoia, Pisa, Siena e Massa. Lucca è stata persa per un pugno di voti, su cui hanno pesato anche divisioni e frammentazioni sul versante moderato della coalizione. Intanto anche Livorno e Carrara sfuggivano al PD e venivano conquistate dai 5Stelle. 

In pochi anni la Toscana ha cambiato decisamente i colori di fondo del suo panorama politico. Adesso si attende con una certa apprensione il 2019, con la competizione per il Comune di Firenze e con la madre di tutte le battaglie, quella per il governo della Regione.
I presupposti per giocarsela e vincere ci sono tutti, ma fino ad ora il quadro delle alleanze non era stato indicato diciamo così con sicurezza adamantina. Perciò si deve registrare con molto interesse il fatto che, per iniziativa della Ceccardi, tutti i sindaci dei capoluoghi provinciali (Vivarelli Colonna di Grosseto, Alessandro Ghinelli di Arezzo, Luigi De Mossi di Siena, Francesco Persiani di Massa, Michele Conti di Pisa e AlessandroTomasi di Pistoia) si siano ritrovati a un tavolo del Giglio Rosso a Firenze, per concordare le linee dell’azione di governo e per darsi una piattaforma di alleanze in vista delle regionali. L’iniziativa (il cosiddetto “patto della bistecca”) ha suscitato pure qualche mugugno nei confronti del protagonismo leghista, se si deve dare retta alle notizie riportate sul Corriere Fiorentino del 4 novembre:Alla cena tutti sindaci civici vicini a questo o a quel partito del centrodestra, tranne Tomasi, alfiere di FdI, che ne spiega il senso: «Lo progettavamo da molto. Ci siamo visti per scambiarci le buone pratiche, per mettere in piedi una discussione dove si parlasse la stessa lingua, quella delle amministrazioni. Per conoscerci meglio e per preparare delle tattiche concordate. Ci tengo a dire che non vogliamo scavalcare i partiti — precisa Tomasi — che comunque faranno il loro lavoro in sinergia con noi nei prossimi mesi». Il sindaco pistoiese pare mettere le mani avanti per allontanare la polemica, ma l’iniziativa dei sette amministratori non è ovviamente passata inosservata”. 

Al di là delle polemiche e dei sospetti, che si spera non abbiano motivo per avere spazio nelle prossime scadenze elettorali, Vivarelli Colonna - vulcanico e carico di entusiasmo, come al solito-  ha riassunto bene il senso della serata: “Abbiamo creato un gruppo che da adesso in poi si riunirà con scadenze regolari, perché questa è una squadra coesa in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, sia per i rinnovi dei consigli comunali che per il consiglio regionale. Appuntamenti ai quali arriveremo con un centrodestra compatto”. E ancora: “Al Giglio Rosso una nuova energia prende vita #noimuroinvalicabile”.

(Pubblicato  con altro titolo e senza link ipertestuali su l'Occidentale del 9-11-2018)

mercoledì 7 novembre 2018

Più rispetto per le donne. Ma anche per la cucina


Non ha fatto il giro del mondo web e non ha provocato subito le infinite catene di santantonio su Facebook, con la massiccia ondata di sdegno che ci sarebbe stata a parti (politiche) invertite.
Tuttavia al senatore Mario Laus del PD, rivolgendosi alla sua collega 5stelle Alessandra Maiorino, gli è proprio scappata così: “Vai in cucina”. Indubbiamente il Laus è inciampato di brutto, ma sta godendo di un po’ di sconti di routine, giacché comunque è schierato tra i “buoni” e non fa parte della feccia sessista, omofoba, razzista ecc. ecc. che ha preso maleducatamente il potere.
E dunque bene, anzi benissimo hanno fatto le senatrici della Lega a sottolineare che “la pochezza dell'epiteto tradisce altrettanta pochezza culturale e stupisce provenga da una parte politica che costantemente si professa vicina alle donne e alla loro condizione” e ad auspicare “che vengano presi gli opportuni provvedimenti sanzionatori, che non risarciscono la senatrice della sciocca e puerile offesa, ma che inviino ai cittadini un segnale chiaro ed inequivocabile: la donna merita rispetto e cortesia in Senato come per le nostre strade”.
Magari ci sarebbe solo da aggiungere che il comunicato mostra una certa smemoratezza riguardo a un episodio analogo che poco più di un mese fa ebbe come protagonista il sottosegretario leghista Massimo Bitonci, che si lasciò andare a un invito analogo nei confronti dell’esponente di Forza Italia Lara Comi. E’ vero che il fatidico invito maschilista non risuonò nella solenne aula di Palazzo Madama, ma nel corso di una trasmissione televisiva. Ma insomma….

Dato a Cesare ciò che è di Cesare, resterebbe però aperto un altro fronte, sul quale si deve assolutamente auspicare un intervento dei vari Cracco, Vissani e Colonna, e magari un’energica presa di posizione dell’Accademia Italiana della cucina: questi maschilisti intemperanti che sotto sotto ritengono che le donne non si debbano occupare di politica, ecco quando la smetteranno di indicare la cucina come il regno dell’incompetenza, il sinonimo del destino servile e accudente della femmina del loro branco?
Allora, maschilismo per maschilismo, insulto per insulto, beceraggine per beceraggine, non sarebbe molto più pertinente l’icastico “alla ‘onca” e "all'acquaio", mansione a cui nella più paludata tradizione popolare toscana e labronica in specie si immaginava destinata la donna che mettesse il becco e il naso fuori del suo ristretto campo di competenza?


(Pubblicato, con titolo diverso,lievi differenze e senza link ipertestuali su l'Occidentale del 6-11-2018)