mercoledì 25 novembre 2020

Ocone e la chiave per interpretare il Novecento


Questo post ha un antefatto biografico-culturale, che vi devo raccontare.  Con una compagnia di ventura “di fatto”  abbastanza avventata ma ormai consolidata, composta da Massimo, Antonio, Gualtiero, Federico ed io – avevamo pensato di dedicare al libro di Ocone un pomeriggio – col soccorso di un paio di menti accademiche, tra cui di sicuro l’ a noi carissimo Eugenio,  e la conduzione di Eleonora e Stefano (i cognomi non li posso spoilerare, saranno la sorpresa dell’evento in presenza) –  per sviscerarlo nei suoi temi portanti, squisitamente filosofici e filosofico-politici, ma anche con l’ambizione di suggerire almeno qualche spunto per la comprensione d’insieme di un secolo per molti aspetti ancora vivissimo.  Quello che avevamo in mente però si sarebbe prestato poco alla trasformazione in presentazione on line. Perciò abbiamo preferito aspettare tempi migliori e pandemicamente rassicuranti, sperando nella possibilità di organizzare qualche cauto e vigilato “assembramento”.

E così intanto mi anticipo con qualche riflessione e qualche domanda, quelle che avrei probabilmente fatto in pubblico. Premetto che “Interpretazioni del Novecento” è un sottotitolo troppo attraente, e di suo indurrebbe nella pericolosa tentazione di utilizzare la “chiave” per curiosare in più di un cassetto. Certamente il secolo si porta dietro quella connotazione di brevità, che gli ha attribuito Hobsbawm in contrapposizione al “lungo” Ottocento: se questo è vero sul piano delle scansioni degli eventi e se è corretto delimitarne i confini tra la scoppio della prima guerra mondiale e la caduta del blocco comunista sovietico, non si può ignorare che sul piano della storia delle idee ci siamo ancora pienamente dentro, nonostante le novità introdotte dalla crisi della globalizzazione triumphans a partire dagli anni 10. Non ci è dato ancora sapere se l’assetto post-covid porterà altri mutamenti, e quanto profondi. Di fatto la narrazione della storia ha bisogno di scansioni e di ritmi, ma le idee viaggiano in uno strato più profondo, in un magma dove le brusche soluzioni di continuità sono invisibili, se non proprio inesistenti. Non è una novità, se solo pensiamo a quello che da qualche secolo ci rappresentiamo come il paradigma di tutte le fratture, la cosiddetta caduta dell’Impero romano, e ai lunghi secoli in cui novità e persistenze si intrecciarono così fortemente da farci arrivare perfino a mettere in crisi l’idea stessa di Medioevo come tempo intermedio tra l’antichità e la modernità.  
Una lunghezza soprattutto filosofica, che Ocone consapevolmente esplicita fin dalle prime pagine:” la metodologia filosofica è valida in generale, probabilmente, ma lo è di più e a maggior ragione per un secolo, che forse tanto “breve” non è stato (e le cui propaggini in realtà arrivano fino a noi), ma che sicuramente è stato il secolo delle ideologie di massa, delle idee e della filosofia che hanno inteso farsi potere”
 

I saggi che compongono il volume sono prima di tutto un vero excursus attraverso gli snodi del pensiero, ma non se ne stanno certo lì ad aleggiare nell’empireo delle idee. Tutto è argomentato, e l’autore non si discosta mai da uno stile accademico e sobrio. Potremmo dire che non alza mai la voce. Ma in più di un punto rovescia con pacato vigore le tesi dominanti, sia riguardo alle figure di Nolte e Del Noce e alla loro interpretazione del Novecento, oggetto del primo capitolo, sia – soprattutto – riguardo alla lettura del Sessantotto come “apocalisse dell’ideologia italiana”, un capitolo particolarmente contromano, che direi centrale per il nesso filosofia-ideologia-politica-attualità.   Ma non c’è ambito in cui non si possa ricavare un arricchimento e una prospettiva per interpretare la nostra contemporaneità, che si parli di Derrida o di Heidegger, o ancora del liberalismo, di Croce e De Ruggiero o – infine – della genesi, della proponibilità e del rilievo dell’Italian theory, dove si confronta con un lavoro di Roberto Esposito, filosofo di scuola pisana.
In tutti i saggi, anche quelli più ‘tecnici’ e strettamente legati alla storia della filosofia, si può vedere in filigrana quanto dichiarato nel risvolto di copertina, ossia la preoccupazione e la cura che animano la domanda di fondo:  se oltre la crisi evidente c’è un futuro possibile per la civiltà occidentale e per il liberalismo che ne è stata la cifra essenziale e più originale.

A proposito di  La chiave del secolo: interpretazioni del Novecento,  di Corrado Ocone, Rubbettino, 2019, post pubblicato con lievi differenze nel blog della Libreria Pellegrini di Pisa, Contrappunto il 25-11-20



La sindaca Raggi sfratta il Medioevo

 

Con una comunicazione del 9/11/2020, pervenuta 16/11/2020, il Comune di Roma ha chiesto all’Istituto Storico Italiano per il Medioevo (ISIME) di “rilasciare bonariamente i locali, liberi da persone e cose, entro 90 giorni dal ricevimento della presente…”. Si minaccia la “riacquisizione forzosa del bene” e si dice – falsamente secondo l’Istituto – che il Comune ha un credito di 24.437,88 euro. I locali sono stati richiesti per le necessità di spazi dell’Archivio storico capitolino, collocato nello stesso complesso dell'Oratorio dei Filippini: esigenza apparentemente inspiegabile, dal momento che nel 2006 il Campidoglio ha curato il restauro di grandi spazi al secondo e al terzo piano dello stesso complesso, destinati proprio all’Archivio, e ancora inutilizzati.

Fondato nel 1883 per dare "unità e sistema alla pubblicazione de' Fonti di storia nazionale", assunse il titolo di Istituto Storico Italiano per il Medio Evo nel 1934 e ha al suo attivo ricerche, borse di studio, convegni, molte pubblicazioni di alto livello scientifico (una delle sue “glorie” maggiori è la direzione scientifica della riedizione dei 28 volumi  dei Rerum Italicarum Scriptores, la raccolta di documenti e fonti per la storia italiana dal VI al XIV secolo a cui Ludovico Antonio Muratori dedicò gran parte della sua esistenza, pubblicandoli a cui e tra il 1723 e il 1752). Alla storia dell’ISIME sono legati personaggi come Giovanni Gentile, che nel 1923 vi istituì la Scuola Storica Nazionale, e Pietro Fedele, che inaugurò la nuova sede. E poi la serie degli storici medievisti come Giorgio Falco, Raffaello Morghen, Gina Fasoli, Arsenio Frugoni, Girolamo Arnaldi, Ovidio Capitani. La sua dotatissima biblioteca è un punto di riferimento imprescindibile per gli studiosi.

Ma se conoscere la storia non è sempre da tutti, se la sindaca Raggi del medioevo conoscesse solo l’aggettivo che viene utilizzato dagli ignoranti e dai media scadenti per connotare ogni nefandezza e ogni arretratezza – come ha argutamente ipotizzato la medievista pisana Alessandra Veronese – almeno valutare gli aspetti logistici e l’impatto organizzativo di una decisione dovrebbe essere pane quotidiano per un’amministrazione rispettabile o solo decente. 

Ebbene in 90 giorni, per motivazioni comunque non chiare e con una procedura indifendibile, l’Istituto dovrebbe rimuovere, trasferire e collocare nella nuova sede circa 100.000 libri di una biblioteca aperta al pubblico; le serie pluriennali di 760 riviste scientifiche italiane e straniere; il suo archivio storico, nonché l’arredo, gli schedari, le librerie e i tavoli in legno massello. Una richiesta di questo genere o la si fa senza aver nemmeno preso in considerazione il problema o non avendo neppure un’idea vaga di cosa comporti ricollocare anche solo i 1.000 libri di una biblioteca di casa.
Non vogliamo essere passatisti incalliti e produrci nel pur giusto lamento sul livello culturale medio della classe politica, evocando impietosamente il confronto con quella passata e trapassata, perché   su quella strada saremmo comunque spacciati, ma almeno due conti sui costi e un diagramma di flusso delle attività conseguenti alle decisioni ce li potremmo aspettare? 

(Pubblicato su Occidentale il 24-11-20)




venerdì 20 novembre 2020

Se la cultura è un gadget: i tre indizi che fanno una prova

L’istruzione, la ricerca e la cultura hanno un posto limitato nell’agenda di governo, quanto a investimenti, mentre ne hanno uno enorme quanto a proclami e declamazioni a costo zero. Questa non è certo una novità. Ma, come è capitato per molti altri ambiti, l’emergenza Covid ha reso più evidenti le carenze strutturali, mostrando impietosamente i frutti di decenni di cattiva politica. Se poi guardiamo più al dettaglio dentro gli schieramenti politici, sintetizzando una riflessione scomoda suggerita da Luca Nannipieri possiamo aggiungere che – a parità di sostanziale disinteresse – mentre la sinistra ha creato/colonizzato giornali, case editrici, università, televisioni, cda di enti museali, fondazioni liriche, centri di sperimentazione, divenendone di fatto l'emblema, assumendo in qualche modo forma e forza di potere, la destra in genere ha pensato bene di lasciare la cultura al livello di gadget, di aperitivo o di supplemento quasi clandestino a qualche quotidiano di famiglia; cosicché  è vero che il risultato è davanti agli occhi di tutti e le colpe sono trasversali, ma c'è una parte che ha vissuto con l'idea che meno se ne parlava, meno si perdeva tempo... Che poi sarebbe la “nostra”, ma questa è davvero un’altra storia.

Torniamo ai tre indizi, e cominciamo dalla scuola, quella che per ovvie ragioni ha più spazio sui media.
Preparazione al rientro, bocciata: sappiamo tutto dei banchi a rotelle e dei trasporti-sardina, e quindi andiamo oltre.
Avvio, faticoso, con molta buona volontà e dedizione di una parte del corpo insegnante e dei dirigenti scolastici. Con la macchinosità e il guazzabuglio dei tamponi si manifesta una prima crisi, ma nonostante tutto materne, elementari e medie inferiori vanno avanti a macchia di leopardo. Alle superiori ci si organizza con turni e DAD (didattica a distanza) mista a presenza, in percentuali variabili.

Appena cresce l’allarme contagi, ecco che subito fa capolino la differenza italiana. Sarebbe stato troppo aspettarsi la tenacia francese e tedesca, o il messaggio del governo inglese fatto contestualmente all’annuncio di un pesante lockdown “Essere a scuola è vitale per l’istruzione dei bambini e per il loro benessere. Il tempo trascorso fuori dalla scuola è dannoso per lo sviluppo cognitivo e accademico dei bambini, in particolare per i bambini svantaggiati”? Evidentemente sì, era troppo, se a fronte delle difficoltà logistiche la prima preoccupazione, a destra e a sinistra, è stata quella di tagliare quel poco di presenza rimasta nelle superiori. Piani per trasporti, alternanze, turnazioni, anche a medio termine? Giammai, semmai si vedrà, a emergenza finita. Poi, a raffica, a partire dalla Campania di Vincenzo De Luca, il capostipite, ordinanze di chiusura delle scuole di ogni ordine e grado anche in Puglia e in Basilicata. “E noi stiamo ancora a chiederci perché il Mezzogiorno è sottosviluppato???”, posta Alessandro Sansoni su Facebook.

Per materne, elementari e tutto sommato anche per le medie inferiori il disastro educativo e formativo è evidente, e la surroga della didattica a distanza non si può considerare neppure un palliativo. Ma nelle superiori un’intera generazione di adolescenti, nella fascia critica e delicatissima dai 14 ai 19 anni, è stata massicciamente consegnata alla cosiddetta DAD. Quando va bene, perché molti non riescono ad usufruire neppure di quella in modo decente, per le pregresse carenze infrastrutturali e tecnologiche, perché non tutti gli insegnanti sono preparati a farla né hanno a disposizione le attrezzature necessarie, perché le famiglie non hanno i computer necessari in qualche caso per più ragazzi, perché non sempre i collegamenti Internet sono efficienti (soprattutto in certe zone interne, e qui si torna daccapo al problema irrisolto dell’Italia divisa e sulla necessità di un grande piano strutturale su cui in questo giornale non sono certo mancati gli interventi). Insomma, i più “fortunati”, per così dire, sono quelli che passano davanti al computer cinque ore di lezione al mattino e due-tre di pomeriggio per i compiti, con quali conseguenze relazionali e psicologiche a medio termine non è difficile immaginare.
Alcune università hanno tentato parziali riaperture “in presenza” di lauree, esami e lezioni selezionate, e in genere stanno assicurando laboratori e biblioteche. Per la DAD, che sta ridiventando dominante, hanno strutture tecnologiche e reti più efficienti, ma a casa docenti e studenti convivono con le stesse problematiche. E, anche se gli studenti sono più grandi e forse meno “deprimibili”, resta che la rimozione dei rapporti diretti con gli insegnanti e i colleghi anche nella loro fascia di età alla lunga non è sostenibile sul piano formativo.
Bisogna prendere atto che le poche voci che si sono levate da subito a denunciare questa situazione da qualche giorno non sono più tanto deboli ed isolate, e bisogna riconoscere che la ministra Azzolina non ha mai smesso di chiedere che le scuole rimangano aperte, al netto della discutibile gestione della preparazione alla riapertura che ha caratterizzato il suo ministero. Le voci autorevoli di Agostino Miozzo, coordinatore del CTS, e di Franco Locatelli, Presidente del Consiglio superiore di sanità spingerebbero verso un riesame della materia che possa portare almeno alle formule miste presenza/DAD di cui si è parlato a lungo e che ora sembrano scomparse dall’orizzonte. Purché non si riduca tutto al déjà-vu di pareri e di proclami senza frutto, a cui siamo purtroppo avvezzi.

Accenno al volo al secondo indizio di sottovalutazione congenita, che a prima vista ha un impatto minore, ma la dice lunga sull’approccio delle nostre classi dirigenti. Guardate come nei partiti e nelle amministrazioni (anche qui – si può dire? – forse soprattutto di destra) sono affidati troppe volte gli incarichi politici nel settore cultura: un’oscillazione perpetua tra il secchione imbarcato come lustro per il partito, l’esperto-fissato su un tema particolare che poi si occupa solo di quello o poco più, e il personaggio scadente a cui non si può fare a meno di dare un compito e si mette nel settore dove si suppone non possa fare troppi danni. Ovviamente ci sono state e ci sono belle e importanti eccezioni, che a volte ce la fanno perfino a durare per qualche tempo (per non far torto a nessun vivente ricordo solo l’eccellenza di Marzio Tremaglia assessore in Lombardia, venuto a mancare troppo prematuramente), ma la media diciamo che è deprimente.

Per il terzo indizio non si fa nessuna fatica a inserire distinguo e distinzioni: non ce ne sono, e fin da subito archivi, biblioteche, musei e perfino i pericolosissimi parchi archeologici (immensi spazi in genere visitati da rari appassionati, e comunque contingentabili) sono stati chiusi massicciamente e senza pensarci due volte. Qualcuno ha protestato, tentando di evidenziare l’incongruenza della misura rispetto al pericolo. Un’iniziativa collettiva per le biblioteche è stata lanciata in Toscana. Da ultimo (ma non certo ultimo), uno studioso del calibro di Salvatore Settis – tra l’altro uno che non si è mai sottratto anche all’impegno nell’agone pubblico, comunque si vogliano giudicare di volta in volta le sue prese di posizione – con una lettera aperta al Presidente del Consiglio Conte ha avanzato una proposta che va esattamente nella direzione opposta all’oscurantismo lockdownista: apriamo i musei, gratuitamente, e contingentiamo gli ingressi. Lo ascolteranno? Possiamo solo augurarci che anche su questo fronte la ragionevolezza riesca ad aprire qualche varco.

Quanto alla prova, con la convergenza dei tre indizi la possiamo considerare acquisita. E non ci stupiremo più di tanto se normalmente sentiamo tanti discorsi sul “ruolo strategico della scuola” e sulla“centralità della cultura”, soprattutto quando c’è da inaugurare mostre e vetrine, ma poi si presta poca attenzione alla meno appariscente attività di manutenzione e di miglioramento delle realtà strutturali?

(Articolo apparso sull 'Occidentale del 20-11-20 col titolo La scuola italiana? Bocciata! Se tre indizi fanno una prova)