venerdì 20 novembre 2020

Se la cultura è un gadget: i tre indizi che fanno una prova

L’istruzione, la ricerca e la cultura hanno un posto limitato nell’agenda di governo, quanto a investimenti, mentre ne hanno uno enorme quanto a proclami e declamazioni a costo zero. Questa non è certo una novità. Ma, come è capitato per molti altri ambiti, l’emergenza Covid ha reso più evidenti le carenze strutturali, mostrando impietosamente i frutti di decenni di cattiva politica. Se poi guardiamo più al dettaglio dentro gli schieramenti politici, sintetizzando una riflessione scomoda suggerita da Luca Nannipieri possiamo aggiungere che – a parità di sostanziale disinteresse – mentre la sinistra ha creato/colonizzato giornali, case editrici, università, televisioni, cda di enti museali, fondazioni liriche, centri di sperimentazione, divenendone di fatto l'emblema, assumendo in qualche modo forma e forza di potere, la destra in genere ha pensato bene di lasciare la cultura al livello di gadget, di aperitivo o di supplemento quasi clandestino a qualche quotidiano di famiglia; cosicché  è vero che il risultato è davanti agli occhi di tutti e le colpe sono trasversali, ma c'è una parte che ha vissuto con l'idea che meno se ne parlava, meno si perdeva tempo... Che poi sarebbe la “nostra”, ma questa è davvero un’altra storia.

Torniamo ai tre indizi, e cominciamo dalla scuola, quella che per ovvie ragioni ha più spazio sui media.
Preparazione al rientro, bocciata: sappiamo tutto dei banchi a rotelle e dei trasporti-sardina, e quindi andiamo oltre.
Avvio, faticoso, con molta buona volontà e dedizione di una parte del corpo insegnante e dei dirigenti scolastici. Con la macchinosità e il guazzabuglio dei tamponi si manifesta una prima crisi, ma nonostante tutto materne, elementari e medie inferiori vanno avanti a macchia di leopardo. Alle superiori ci si organizza con turni e DAD (didattica a distanza) mista a presenza, in percentuali variabili.

Appena cresce l’allarme contagi, ecco che subito fa capolino la differenza italiana. Sarebbe stato troppo aspettarsi la tenacia francese e tedesca, o il messaggio del governo inglese fatto contestualmente all’annuncio di un pesante lockdown “Essere a scuola è vitale per l’istruzione dei bambini e per il loro benessere. Il tempo trascorso fuori dalla scuola è dannoso per lo sviluppo cognitivo e accademico dei bambini, in particolare per i bambini svantaggiati”? Evidentemente sì, era troppo, se a fronte delle difficoltà logistiche la prima preoccupazione, a destra e a sinistra, è stata quella di tagliare quel poco di presenza rimasta nelle superiori. Piani per trasporti, alternanze, turnazioni, anche a medio termine? Giammai, semmai si vedrà, a emergenza finita. Poi, a raffica, a partire dalla Campania di Vincenzo De Luca, il capostipite, ordinanze di chiusura delle scuole di ogni ordine e grado anche in Puglia e in Basilicata. “E noi stiamo ancora a chiederci perché il Mezzogiorno è sottosviluppato???”, posta Alessandro Sansoni su Facebook.

Per materne, elementari e tutto sommato anche per le medie inferiori il disastro educativo e formativo è evidente, e la surroga della didattica a distanza non si può considerare neppure un palliativo. Ma nelle superiori un’intera generazione di adolescenti, nella fascia critica e delicatissima dai 14 ai 19 anni, è stata massicciamente consegnata alla cosiddetta DAD. Quando va bene, perché molti non riescono ad usufruire neppure di quella in modo decente, per le pregresse carenze infrastrutturali e tecnologiche, perché non tutti gli insegnanti sono preparati a farla né hanno a disposizione le attrezzature necessarie, perché le famiglie non hanno i computer necessari in qualche caso per più ragazzi, perché non sempre i collegamenti Internet sono efficienti (soprattutto in certe zone interne, e qui si torna daccapo al problema irrisolto dell’Italia divisa e sulla necessità di un grande piano strutturale su cui in questo giornale non sono certo mancati gli interventi). Insomma, i più “fortunati”, per così dire, sono quelli che passano davanti al computer cinque ore di lezione al mattino e due-tre di pomeriggio per i compiti, con quali conseguenze relazionali e psicologiche a medio termine non è difficile immaginare.
Alcune università hanno tentato parziali riaperture “in presenza” di lauree, esami e lezioni selezionate, e in genere stanno assicurando laboratori e biblioteche. Per la DAD, che sta ridiventando dominante, hanno strutture tecnologiche e reti più efficienti, ma a casa docenti e studenti convivono con le stesse problematiche. E, anche se gli studenti sono più grandi e forse meno “deprimibili”, resta che la rimozione dei rapporti diretti con gli insegnanti e i colleghi anche nella loro fascia di età alla lunga non è sostenibile sul piano formativo.
Bisogna prendere atto che le poche voci che si sono levate da subito a denunciare questa situazione da qualche giorno non sono più tanto deboli ed isolate, e bisogna riconoscere che la ministra Azzolina non ha mai smesso di chiedere che le scuole rimangano aperte, al netto della discutibile gestione della preparazione alla riapertura che ha caratterizzato il suo ministero. Le voci autorevoli di Agostino Miozzo, coordinatore del CTS, e di Franco Locatelli, Presidente del Consiglio superiore di sanità spingerebbero verso un riesame della materia che possa portare almeno alle formule miste presenza/DAD di cui si è parlato a lungo e che ora sembrano scomparse dall’orizzonte. Purché non si riduca tutto al déjà-vu di pareri e di proclami senza frutto, a cui siamo purtroppo avvezzi.

Accenno al volo al secondo indizio di sottovalutazione congenita, che a prima vista ha un impatto minore, ma la dice lunga sull’approccio delle nostre classi dirigenti. Guardate come nei partiti e nelle amministrazioni (anche qui – si può dire? – forse soprattutto di destra) sono affidati troppe volte gli incarichi politici nel settore cultura: un’oscillazione perpetua tra il secchione imbarcato come lustro per il partito, l’esperto-fissato su un tema particolare che poi si occupa solo di quello o poco più, e il personaggio scadente a cui non si può fare a meno di dare un compito e si mette nel settore dove si suppone non possa fare troppi danni. Ovviamente ci sono state e ci sono belle e importanti eccezioni, che a volte ce la fanno perfino a durare per qualche tempo (per non far torto a nessun vivente ricordo solo l’eccellenza di Marzio Tremaglia assessore in Lombardia, venuto a mancare troppo prematuramente), ma la media diciamo che è deprimente.

Per il terzo indizio non si fa nessuna fatica a inserire distinguo e distinzioni: non ce ne sono, e fin da subito archivi, biblioteche, musei e perfino i pericolosissimi parchi archeologici (immensi spazi in genere visitati da rari appassionati, e comunque contingentabili) sono stati chiusi massicciamente e senza pensarci due volte. Qualcuno ha protestato, tentando di evidenziare l’incongruenza della misura rispetto al pericolo. Un’iniziativa collettiva per le biblioteche è stata lanciata in Toscana. Da ultimo (ma non certo ultimo), uno studioso del calibro di Salvatore Settis – tra l’altro uno che non si è mai sottratto anche all’impegno nell’agone pubblico, comunque si vogliano giudicare di volta in volta le sue prese di posizione – con una lettera aperta al Presidente del Consiglio Conte ha avanzato una proposta che va esattamente nella direzione opposta all’oscurantismo lockdownista: apriamo i musei, gratuitamente, e contingentiamo gli ingressi. Lo ascolteranno? Possiamo solo augurarci che anche su questo fronte la ragionevolezza riesca ad aprire qualche varco.

Quanto alla prova, con la convergenza dei tre indizi la possiamo considerare acquisita. E non ci stupiremo più di tanto se normalmente sentiamo tanti discorsi sul “ruolo strategico della scuola” e sulla“centralità della cultura”, soprattutto quando c’è da inaugurare mostre e vetrine, ma poi si presta poca attenzione alla meno appariscente attività di manutenzione e di miglioramento delle realtà strutturali?

(Articolo apparso sull 'Occidentale del 20-11-20 col titolo La scuola italiana? Bocciata! Se tre indizi fanno una prova)



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