giovedì 11 novembre 2021

Le corna di San Martino

Tra la fine di ottobre e la festa di San Martino, molto tempo prima che nei nostri paesi arrivasse l’illuminazione elettrica, le zucche la facevano da padrone, con la bocca e gli occhi scavati e illuminate da candele, a rappresentare i morti, e anche a impedirne il ritorno nelle case. Le zucche, e attorno i bambini come messaggeri e interpreti dei morti, questo è il canovaccio standard.  In Abruzzo, Puglia, Calabria, Friuli, sono attestati cortei di bambini, muniti di una zucca svuotata e illuminata all'interno da una candela, che passavano per le case battendo alla porta, e alla domanda del padrone “ chi è?”, rispondevano una cosa come “le anime dei morti”, ricevendo in cambio dolci, monete o altro: facile riconoscere lo schema elementare di “scherzetto o dolcetto”.

Poi è arrivata la TV, e ancora dopo le zucche e le maschere di importazione americana: ma intanto era passato un bel po’ di tempo, pochi si ricordavano dei poveri riti del nostro folklore agricolo, e tutto l’ambaradan della "vigilia di tutti i santi" (all allows eve) sembrò una novità assoluta, e pure brutta, se non irriverente o addirittura satanica. Ma invece più che un’americanata pura era un ritorno di usanze che erano arrivate in America con i contadini europei: l’accento era un po’ cambiato, i vestiti pure, ma da qua venivano, come è successo per dire a San Nicola che ci è tornato indietro ingrassato e trasformato in Santa Claus, che poi come si sa è lo stesso nome; e perfino i vestiti rossi vengono da quelli del santo vescovo di Mira venerato a Bari.


Ma questo più o meno lo sanno tutti, anche i più riluttanti, quelli che invocano l’esorcista appena vedono profilarsi all'orizzonte uno vestito da fantasma.


 
Invece le credenze che ruotano attorno a San Martino di Tours rimangono più oscure, ed è come se due figure si fossero sovrapposte, una agiografica ed ecclesiastica, l'altra folkloristica e popolare. Sul santo esiste un'agiografia codificata, basata sulla Vita Martini, un testo del IV secolo attribuito Sulpicio Severo, e di lui si sa tutta la storia: il freddo, il povero, il mantello diviso, la vita da monaco, vescovo e santo. Resta però da spiegare soltanto un particolare curioso, molto radicato nelle narrazioni popolari: San Martino è comunemente definito cornuto, e quindi popolarmente anche protettore dei cornuti. Una qualificazione stranissima, a dirla così. Ma se facciamo un giretto tra le credenze che vanno e vengono, scopriamo che in certi paesi -sempre prima che la TV divenisse la compagna universale delle serate- c’era l’usanza di fare una processione parodistica di bambini con una zucca vuota forata negli occhi, nel naso e nella bocca e illuminata all'interno da una candela. Sulla fronte troneggiava una coppia di corna di capro, di toro o di montone. In molti casi la zucca era la testa di un pupazzo di paglia che alla fine della processione veniva bruciato in un bel falò.
Nel Napoletano e in Campania questa faccenda delle corna di San Martino è particolarmente viva, e proprio da quelle parti veniamo a scoprire un’altra tessera del mosaico: la curiosa storia della sorella “puttana”, che – non avendo egli moglie- spiegherebbe la cornutaggine del santo.
San Martino se purtava ‘a sora ncuollo... San Martino si portava sulle spalle la sorella, per evitare che desse seguito alle sue incontenibili voglie, ma invano, perché lei trovava sempre il modo per sfuggire alla sorveglianza. Su questa beffarda e poco agiografica narrazione a volte erano incentrate le processioni caricaturali, parodia delle processioni ufficiali, con tanto di soste e sermone. Da bambino ho assistito dal vivo a questa rappresentazione, con zucca e campanacci, organizzata, gestita e interpretata specialmente da ragazzi appartenenti a famiglie di pastori (che avevano la disponibilità dei campanacci), che detenevano anche il copione del rituale, con le soste e i sermoni irriverenti sulla vita caricaturale del santo, compresa la spiegazione della famosa "cornutaggine”, dovuta alla disinvolta sorella.
 
Ma solo un'ultimissima tessera ci spiega compiutamente il disegno del mosaico: molto probabilmente la storia della sorella puttana è nata per l’impossibilità di spiegare le corna, che non erano di San Martino di Tours, quello del mantello, quanto piuttosto di un dio precristiano, munito di corna (Cernunno?) di cui lui ha preso il posto e alcune funzioni. Insomma, dietro la festa e la figura di Martino era nascosto un altro dio, la cui forza, potenza e fecondità erano simbolizzate dalle corna.


 

In ogni caso gli elementi carnevaleschi e propri di una notte da "mondo alla rovescia", con i bambini protagonisti, sono chiarissimi in tutte le manifestazioni di questo periodo dell'anno. Periodo di pausa, di svina, di rinnovo di patti agricoli, e quindi contaminato con le credenze e le pratiche sulla fine del tempo vecchio e l'inizio del tempo nuovo, come il capodanno e il carnevale. Non è un certo un caso se in certi paesi d’Abruzzo la festa di San Martino si chiama Capetiempe.


sabato 3 luglio 2021

La lezione francese

I risultati del ballottaggio delle elezioni regionali in Francia sembrano confermare e consolidare una tendenza che si era già delineata al primo turno e che le agenzie sintetizzano così: flop per Le Pen e Macron, tornano gollisti e socialisti. O anche, come ha suggestivamente suggerito Le Monde, “la vendetta del vecchio mondo”.

Prima di andare a vedere i numeri credo sia utile premettere che il quadro politico francese abitualmente presenta molti motivi di interesse anche per l’Italia, sia  per la somiglianza degli schieramenti politici in generale sia, per quanto ci riguarda più direttamente, per il carattere quasi paradigmatico delle articolazioni della destra – come delineate fin dal 1963 da René Rémond ne “La destra in Francia” – con la classica tripartizione e sovrapposizione delle destre a partire dall’atteggiamento nei confronti della Rivoluzione del 1789: quelle peculiarità strutturali e ideologiche, rafforzate nel tempo dalla vicenda della Resistenza, con la dicotomia De Gaulle/Petain e poi dalla grande frattura sull’Algeria, nonostante le spinte fusionistiche che periodicamente tentano di farsi strada, di fatto continuano ad avere una persistenza di  lunga durata.

Il primo dato che balza agli occhi, ancora più importante del risultato dei partiti, è l’ampiezza dell’astensionismo, che ha coinvolto il 65% degli elettori, sintomo di una stanchezza diffusa che non trova sbocchi nel quadro dell’offerta politica standard. Il dato forse andrà un po’ ridimensionato, trattandosi di elezioni regionali, e non è detto che si replichi nella stessa misura in occasione delle Presidenziali, ma resta significativo e preoccupante per i partiti.
Il resto degli elettori si è distribuito negli schieramenti ormai classici, con una tendenza ad addensarsi verso quelli più vecchi e rassicuranti (gollisti e sinistra) e, in varia misura, a punire sia l’offerta tecno-progressista del partito République en marche! di Macron, che fa fatica ad allargarsi al centro e a destra, conquistando pochissimo anche a sinistra,  sia la destra di Marine Le Pen, benché arricchita con innesti di personaggi provenienti dall’area sarkozista e dedita a una revisione importante dei temi e dei toni, riscontrabile anche nel cambiamento di nome (Rassemblement National ha sostituito da tempo la denominazione Front National che risaliva al suo fondatore  Jean-Marie) (1)

Venendo ai numeri, il primo elemento da sottolineare è che le regioni sono andate sette alla destra gollista e cinque alla sinistra (alleanza di socialisti e verdi), zero per Macron e Le Pen. Aggregando i risultati a livello nazionale, i Repubblicani (vulgo gollisti) col 38% – nonostante le vicissitudini attraversate e l’ancora non ben decifrato affondamento di François Fillon – si confermano il primo partito, seguiti dalle sinistre al 30%. Macron si ferma al 10%, e da nessuna parte va al secondo turno. I “nazionali” si attestano sul 20%.  Nelle sfide del secondo turno tra repubblicani e nazionali vincono i primi sia a Nord (Hautes-de-France) che a Sud (Provence-Alpes-Côte d'Azur). Marine Le Pen sottolinea che le alleanze “naturali” hanno come al solito ricompattato “il resto del mondo” contro di lei e il suo partito. Vero, ma non basta, perché i sondaggi della vigilia la davano largamente preponderante in molte situazioni, con la quasi certezza della conquista almeno della Provenza, laddove per averla vinta sul gollista Renald Muselier non è bastato un personaggio del calibro di Thierry Mariani, ex ministro di Sarkozy noto per la simpatia verso Putin e Assad, e la partita sembra finita a 53-55% contro 44-46%.
Ma il risultato forse di maggiore peso politico è quello della Hautes-de-France, col successo di Xavier Bertrand, che ha trionfato di nuovo nella regione (i primi dati parlano di 52,8, a fronte del 25.8% del candidato lepenista, col centrosinistra terzo), e che ora si candida come un serio rivale di Macron per la poltrona più alta dell'Eliseo, in vista delle presidenziali del prossimo anno. D’altra parte, la mancata vittoria di RN rallenta non poco lo slancio della sua candidata, Marine Le Pen, nella sua campagna per le elezioni presidenziali del prossimo anno. Oltre tutto alla sua destra, attorno ad Eric Zemmour si sta materializzando un’alternativa più radicale, che potrebbe insidiare anche quel 20% oggi al sicuro.

(1) Per la storia dell'estrema destra francese -dalla Rivoluzione a Marine Le Pen - resta imprescindibile il libro di Marco Gervasoni, La Francia in nero, Marsilio 2017

Articolo pubblicato sull'Occidentale del 28 giugno col titolo "Dalla Francia una lezione per la destra: vincere nei sondaggi non basta"


sabato 26 giugno 2021

Gianni Cipriano, intellettuale precoce

Da quando avevo dieci anni ho cambiato scuola, compagni, ambiente (e due collegi) ad ogni svolta: ho fatto le elementari a Settefrati, le medie ad Anagni, il ginnasio-liceo a Frascati, l’università a Pisa.

Forse per questo non mi sono mai rassegnato a perdere totalmente i contatti con le persone che via via ho conosciuto: è un'impresa titanica, anche se negli ultimi anni facilitata dal Web e dai social, ma ogni tanto qualcuno riesco a scovarlo. Un mio amico carissimo, uno dei pochissimi esistente e resistente 'da sempre' dice che faccio "l'archeologo del nostro passato", scherzando sulla mia ansia - a volte veramente compulsiva -  di sapere che fine ha fatto Tizia oppure Caio. Non sempre è  una bella sorpresa: di Gianni Cipriano, originario di Pozzuoli, mio importante compagno in quinta ginnasio a Villa Sora, non avevo trovato mai un cenno. Poco più di un mese fa, in una rituale ricerca Google, mi sono imbattuto nell'articolo del blog I campi Flegrei di Giuseppe Peluso. E così ho scoperto che era morto, nel 2018. E dire che io mi accanisco a cercare perché, come ho ripetuto mille volte, detesto la prospettiva di rivedere le persone… nel giorno del giudizio. Ma tant’è, Gianni era passato direttamente dall’altra parte senza mai aver avuto la possibilità di rievocare con lui un periodo così intenso. Ho messo una nota sul blog di Peluso, e lui mi ha pregato di mandargli qualche ricordo, qualche aneddoto di quel periodo, con cui integrare il suo articolo: cosa che puntualmente ha fatto. Così ho frugato un po’ nella memoria e in qualche cartaccia che viaggia con me da mezzo secolo.

Ecco qua

 



Gruppo di interni di Quinta nel cortile del ginnasio: Cipriano è il terzo della prima fila, io sono quello alla sua sinistra

Sono stato compagno di Gianni Cipriano in quinta ginnasio, sezione B, nel collegio salesiano di Villa Sora a Frascati. Correva l'anno scolastico 1964-65
Fu un anno un po’ turbolento, suggestioni e curiosità “intellettuali” si affacciarono con forza nella nostra vita. Eravamo interessati a tutto ciò che percepivamo muoversi all’orizzonte: musica, cinema, letteratura. Come capita sempre nei film, e qualche volta anche nella vita reale, avevamo un insegnante di lettere coltissimo e di mentalità aperta (cosa che non gli impediva di essere più che severo quanto alla coniugazione dei verbi greci e altre simili atrocità) che ci sollecitava e ci apriva scenari inusuali nel grigio tran tran dell’istituzione collegiale, don Fulvio De Rossi, che anche dopo la scelta dello stato laicale, sopravvenuta qualche anno dopo, ha continuato per molto tempo ad insegnare egregiamente in un liceo romano. Prendevamo tutto molto sul serio. Ci passavamo con entusiasmo I nuovi aristocratici di Michel de Saint-Pierre, un romanzo ambientato in una classe di ginnasiali molto “in crisi”: questo era il contesto, soprattutto per alcuni di noi, e Gianni, col suo impermeabile beige (o bianco?) col bavero rigorosamente all’insù, era una delle punte degli “intellettuali” problematici e critici. Ricordo che in quel periodo iniziò la pubblicazione della collana Oscar Mondadori (350 lire a uscita): noi andavamo religiosamente ad accaparrarcela in una libreria sotto la galleria di Frascati, e nella nostra mente sedimentavano prospettive nuove, portate dagli autori francesi, americani, spagnoli che andavamo incontrando: eravamo decisamente, anche se ingenuamente,  fuori della cultura del canone scolastico, c’era già quasi un’aria da pre-sessantotto, che si riverberava anche nel rapporto con i superiori, animati com'eravamo da un sentimento spesso border line e comunque abbastanza ostile.
Gianni, oltre che di musica, era appassionatissimo di cinema: ne ho rintracciato le prove anche in qualche pezzo scritto quell’anno per il giornalino ciclostilato, La Lanterna di Diogene, che - benché autorizzato e sorvegliato dall’istituzione- noi curavamo manco fosse un samizdat della primavera di Praga. Gianni durante la ricreazione amava appartarsi ad ascoltare i suoi adorati cantautori: ne ho trovato una traccia in un ritratto scherzoso, ma sicuramente affettuoso e solidale, che gli dedicammo con due pseudonimi Sistilio Montorfano ed io, coppia giornalistica che durò purtroppo molto poco.
Alla ripresa del primo liceo Gianni non c’era:  rientrò a Pozzuoli, dove fece il liceo, all'università studiò  a Napoli, laureandosi con Aurelio Lepre.  Poi è stato un apprezzato professore insegnante di filosofia e storia nei licei di Desenzano e Sirmione. Fino a un mese fa, come ho già scritto, non avevo saputo più nulla di lui: in fondo la non esistenza dei social per lunghi anni non è stato sempre un vantaggio.








venerdì 16 aprile 2021

Giovanni Gentile, il filosofo cancellato

Il 15 aprile 1944 a Firenze fu assassinato Giovanni Gentile, ad opera di un gruppo partigiano aderente ai GAP, comandato da Bruno Fanciullacci, che fu anche autore dell’esecuzione in prima persona. Forse in questi nostri giorni sempre più refrattari alle sfumature è di qualche utilità ricordare che l'azione non fu unanimemente approvata nell'ambito del CLN toscano [1]: Gentile era abbastanza anziano, da tempo fuori della vita politica in senso stretto, anche se la sua adesione alla Repubblica Sociale e l'accettazione della carica di Presidente dell'Accademia d'Italia, la cui sede era stata spostata a Firenze, gli aveva attirato varie chiamate in correo e qualche minaccia di morte. Ma era detestato anche negli ambienti più radicali del fascismo repubblicano e su di lui gravava da tempo un vecchio sospetto di terzietà o comunque di tiepidezza. Che poi potesse essere "complice" delle efferatezze del maggiore Mario Carità forse non arrivavano a pensarlo neppure i suoi sicari, benché lo affermassero. Ma questa è la fine. 


Prima c'è il Gentile esponente di primo piano dell'idealismo italiano, riformatore della Scuola, organizzatore dell'Enciclopedia Italiana, maestro di generazioni di studiosi protetti e aiutati indipendentemente dal loro credo politico e, da un certo punto in avanti, anche della loro appartenenza razziale. Certo, c'è pure il Gentile che scrive a quattro mani con Mussolini la voce "Fascismo" per l'Enciclopedia Italiana, il Gentile estensore e capofila del Manifesto degli intellettuali fascisti, che vede nel fascismo il compimento del Risorgimento, c'è il Gentile studioso epocale di Marx e del marxismo (aspetti su cui tanto si è soffermato Augusto Del Noce [2]): insomma un personaggio complesso e talvolta contraddittorio, a tutto riconducibile fuorché alla banalizzazione faziosa, l’uomo che – come ebbe a dire una volta se non sbaglio Massimo Cacciari con la vis polemica e sarcastica che lo contraddistingue – se fosse nato a Heidelberg in Germania e non a Castelvetrano in Sicilia sarebbe considerato uno dei più grandi filosofi europei del Novecento, se non il maggiore.

E però da un certo punto in avanti, dopo la sua esperienza di Ministro, Gentile fu soprattutto un accademico e un maestro, sostanzialmente un uomo di università. Da qui il suo legame fortissimo con Pisa, della cui Università fu Rettore e della cui Scuola Normale Direttore. In questa veste gli è unanimemente riconosciuto il merito della trasformazione della Scuola Normale da mero collegio per coadiuvare gli studenti meritevoli negli studi universitari in centro di eccellenza e vivaio per le migliori intelligenze dell'Italia futura, sempre nella prospettiva del fascismo come compimento del Risorgimento, elemento costitutivo del suo orizzonte politico-culturale: un modello che egli immaginava di estendere come affiancamento ad altri atenei italiani, per la coltivazione di competenze e di eccellenze diffuse, non certo come "parassitazione" dell'istituzione pisana, come purtroppo è stato inteso qualche volta negli ultimi anni. A Pisa comunque egli operò con larghezza di vedute, favorendo notoriamente anche studiosi in difficoltà per il loro antifascismo o per la loro appartenenza alla razza ebraica: basti ricordare il caso del tedesco Kristeller, tenuto il più possibile nella Scuola onde evitargli il rientro in Germania. A Pisa ebbe discepoli e prosecutori più o meno critici del suo pensiero, anche dopo la sua morte. Molti di loro confluirono nel robusto filone di intellettuali che si andava posizionando attorno al PC togliattiano, altri, come Armando Carlini, alimentarono una ripresa del pensiero cattolico rivisitato attraverso l’idealismo. Ma il suo nome fu silenziato, rimosso dai pubblici ricordi, e l’interdizione, vigente per moltissimi anni, possiamo dire che oggi conserva ancora intatto tutto il suo potere. 

 Mentre gli studiosi andavano riscoprendo criticamente lo spessore del pensatore e dell’organizzatore culturale, in pieni anni Ottanta il suo nome, per un pesante intervento di "vigilanza antifascista" fu cancellato da un'epigrafe che in modo del tutto avalutativo riportava l'elenco dei docenti, membri del personale tecnico e studenti morti a causa degli eventi bellici [3]. Neppure il nome... un'operazione che sembra ambientata più nella Mosca anni Trenta che non nella Pisa del 1984. Né sorte migliore incontra nel 1999 il tentativo di porre rimedio all'abrasione barbarica mediante un'epigrafe ad personam. La decisione, per la quale a un Rettore equanime sembrano maturi i tempi (“E' maturo il tempo per superare un comprensibile atteggiamento emotivo nei confronti di Gentile, ben consapevoli delle difficoltà dell'operazione che tocca dolorosamente la memoria sociale", sostiene il Rettore Modica) viene approvata dal Senato Accademico. Ma immediatamente si alza un gran polverone con dure prese di posizione di ambienti di sinistra, a cui il Rettore replica: "Nonostante le colpe storiche Gentile ha avuto un ruolo strategico nell'organizzazione delle istituzioni scolastiche ed educative del Novecento, creando in particolare un ambiente scientifico liberale, fino al punto di aiutare docenti ebrei, proprio nel momento in cui venivano emanate le leggi razziali, da lui stesso pubblicamente approvate''.  Iniziano tentativi di trovare una quadra sul testo da incidere: di modifica in modifica, di proposta conciliativa in proposta conciliativa, si giunge a configurare un ircocervo che pretende di mettere insieme il ricordo del grande filosofo con l'accusa (adombrata ma non troppo) di essere stato complice attivo delle persecuzioni razziali.
Insomma un tentativo di mediazione francamente insostenibile, che diventa immediatamente un caso nazionale: intervengono Montanelli, Cappelletti, Canfora, e da ultimo il nipote Giovanni Gentile, editore, minaccia di denunciare l'università nel caso che la formulazione definitiva rimanga quella. Il Senato accademico, preso tra due fuochi, "con rammarico" delibera di rinunciare all'apposizione della lapide. E così ancora oggi né una strada cittadina, né un'epigrafe, né un'aula e diciamo neppure un banco ne ricorda l'operato.
Chissà che alla fine non sia un bene, in questi tempi così propensi ad abbattere le statue e ad imbrattare le lapidi? In fondo al visitatore non distratto, se percorre il cortile della storica Sapienza pisana è ancora riservata una scoperta sorprendente: nella grande epigrafe che ricorda i morti per gli eventi bellici il nome di Giovanni Gentile, abraso, emerge tenacemente sotto il nome che lo ha rimpiazzato, come un fantasma innominabile e scomodo. 


[1] Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che Gentile doveva morire, in Corriere della Sera, 6 agosto 2004, p. 29.
«L'omicidio di Gentile, anziano e inerme, suscitò una forte impressione e fu disapprovato dal Cln toscano, con l'astensione dei comunisti. Tristano Codignola, esponente del Partito d'Azione, scrisse un articolo per dissociarsi».

[2] Penso al Suicidio della Rivoluzione del 1978 e  al  postumo Giovanni Gentile del 1990 

"Alla radice filosofica dell’idea di inveramento del marxismo Del Noce incontrò la figura di Giovanni Gentile. Rimasto estraneo all’attualismo negli anni del maggior successo di questa filosofia, Del Noce ne riscoprì il significato storico nel momento della sua massima svalutazione. Centrale per la sua rilettura è la valorizzazione del saggio giovanile su La filosofia di Marx, nel quale Gentile coglierebbe l’originalità filosofica del marxismo come filosofia della prassi, che occorre però portare alla coerenza liberandola dal materialismo. L’attualismo viene quindi letto in questo senso da Del Noce come filosofia della prassi ritrascritta in chiave idealista. Nel tentativo di questa filosofia di raggiungere la realtà politica si disegna per Del Noce il necessario incontro con Mussolini. E il destino parallelo di attualismo e fascismo è misurato dal comune atteggiamento di 'solipsismo vissuto', espresso in un attivismo costretto a usare i valori cui si appella come strumenti per l’azione, e che pertanto finisce con l’avere carattere dissolutivo.Il ruolo centrale assunto da Gentile nell’interpretazione del pensiero e della storia contemporanei trovò sbocco nel volume postumo Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea (1990), dove Gentile appare come colui che ha cercato di unificare, in chiave di radicale immanentismo, le due linee individuate da Del Noce nella modernità, quella della filosofia classica tedesca culminante in Marx e quella franco-italiana. Lo scacco del suo tentativo investirebbe tutta la visione del moderno come processo verso l’immanenza". (Stefano Di Bella, in Dizionario biografico degli italiani, s.v.).

[3] Tutta la tormentata vicenda è ricostruibile mediante la documentazione pubblicata nell'Archivio dell'Università di Pisa e raccolta nel fascicolo "1984 - L'Università di Pisa e la Seconda guerra mondiale" dell'archivio fotografico (materiale consultato in rete il 16-4-21)




lunedì 22 febbraio 2021

La caduta dei virologi?

 

Il punto di massima intensità, o – detto più prosaicamente – il momento in cui l’hanno fatta fuori dal vaso, deve essere stato quando Walter Ricciardi, consulente del Ministro della Salute, ha pubblicamente auspicato un lockdown severamente rosso per alcune settimane sull’intero territorio nazionale. E mentre il grosso di noialtri popolo semplice, oscillando tra terrore e incazzatura si affrettava a compiere riti scaramantici, qualcuno più fine ha tentato anche di indagare sulle ragioni di un’uscita così intempestiva, a governo non ancora perfezionato col voto di fiducia. Gesto solitario e crisi di nervi per qualche aspettativa di incarico non soddisfatta? Possibile, ma il seguito immediato delle due decisioni allucinanti sul pranzo di San Valentino negato e sulle piste di sci bloccate a poche ore dalla prevista e già deliberata apertura lascia pensare che ci sia anche dell’altro, meno personale. Forse marcare il territorio all’interno della nuova compagine, dopo i nuovi innesti politici e le (possibili) conseguenti incertezze di linea, forse una provocazione preventiva volta a mettere zizzania tra le forze di centrodestra appena affacciatesi nel governo di salvezza nazionale e la loro base sociale di riferimento, forse la volontà di sondare qualcosa di non perfettamente conosciuto, ossia la posizione del nuovo presidente del consiglio. Ci sta tutto, ma è chiaro che il tentativo eventuale di forzare la mano ha provocato un rigetto, sicuramente nell’opinione pubblica, ma probabilmente anche ai piani più alti della politica.

C’è un’espressione popolare toscana che descrive benissimo l’errore di chi persegue un risultato ma per la fretta sbaglia ansiosamente i tempi: “voler togliere l’uovo dal culo della gallina”, senza aspettare che l’abbia depositato. Quello che è successo probabilmente rientra un po’ in questa peculiare casistica. Ma non basta: a pochissima distanza, sempre per patrocinare la definitiva chiusura del paese intero, un altro esperto ospite fisso di vari programmi TV, Massimo Galli, afferma che il suo ospedale è invaso da malati affetti dalla famosa variante inglese, l’ultimo spauracchio dei media chiusuristi. E niente, rimedia una figuretta non da poco, perché l’ospedale lo smentisce categoricamente.

Da quel momento comincia il fuoco di fila e il 17 febbraio anche uno degli organi più attivi del circolo chiusurista, il Corriere della sera, con un articolo di Fabrizio Roncone, rileva la continua e fastidiosa presenza dei “virologi” che danno pareri politici in TV.
Sul fronte politico li inchioda Giovanni Toti, che prima invoca il lockdown per Ricciardi, e poi denuncia senza mezzi termini il protagonismo degli “esperti che nutrono il proprio narcisismo col terrore altrui”. A sua volta Matteo Salvini ribadisce: “Non ho parole. Non se ne può più di 'esperti' che parlano ai giornali, seminando paure e insicurezze”.

Insomma, forse il ruolo della compagnia sarà ridimensionato e sarà sobriamente pregata di dare i propri consigli direttamente al governo, limitandosi per il resto a contribuire all’informazione scientifica senza la pretesa di sostituirsi alla politica, oltre tutto spesso con proposte contraddittorie.
Noi, che questo fenomeno mediatico abbiamo cominciato a detestarlo si può dire fin dall’inizio, non potremmo che trarre sollievo da questa liberazione: una liberazione che forse dovremo attribuire al benefico Zeitgeist comunicativo dell’era Draghi e alla fine dell’epoca casaliniana, tutta post e dirette Facebook. Intendiamoci, qualcuno c’era già arrivato: in Francia, a quanto riportano vari organi di stampa, fra cui Il Giornale, è già qualche settimana che Macron ha posto fine a questo teatrino. Dopo che il presidente del Comitato scientifico Delfraissy aveva esternato la necessità di un confinement molto duro, ha imposto agli scienziati consulenti della politica questa linea: unità, concentrazione totale sugli obiettivi e zero protagonismi o allarmismi.

Ma sti francesi, si sa, sono sempre un pezzo avanti a noi.

(Pubblicato sull'Occidentale del 21-2-21 col titolo "Il crepuscolo dei virologi" con lo pseudonimo Cominius)



giovedì 28 gennaio 2021

La resistenza dei montanari: la Bergamasca nella morsa del COVID-19



È passato quasi un anno da quel 23 febbraio in cui ebbe inizio la catastrofe della Bergamasca e della Val Seriana. Due positivi al Coronavirus identificati nell’ospedale di Alzano, e poi una corsa veloce verso il precipizio, i morti, le bare portate via dai camion: una successione di eventi che ci ci lasciò sgomenti per settimane.
Poi è venuto il resto, l’estate, la ripresa del virus stavolta in modo più diffuso nel territorio nazionale, i colori delle zone, le polemiche sanitarie e politiche, e insieme il rischio di dimenticare la violenta tragedia, allora circoscritta a poche zone del Paese.
Certamente ad aiutare la nostra memoria ci sono i filmati, i documenti, le voci dei protagonisti, tutto disponibile, tutto consultabile… volendo. Ma forse niente più di questo libro essenziale – 150 pagine serrate – ci può restituire il clima e gli eventi di quei giorni.
Prima di tutto la terra: la Bergamasca operosa, solidale e radicata nei suoi valori (una identità di valori e una capacità muscolare, montana, di resistenza alle intemperie, come dice nell’introduzione Vittorio Feltri, bergamasco doc). Un libro in cui non son presenti scoop e rivelazioni, ma le testimonianze di “una geografia umana…fatta di collegamenti, di ogni uomo e donna e mestiere agganciato ad anello con gli altri delle strade accanto… e soprattutto della continuità e dell’impegno comune, quando le campane hanno suonato a raccolta, del dispiegamento dei valori che già fondavano e animavano la valle”. È questa la chiave di lettura, anzi il leitmotiv che percorre il reportage di Alberto Luppichini – giovane giornalista al suo primo libro – che ha composto sostanzialmente una specie di spartito in quattro tempi. Nel primo troviamo le avvisaglie, la chiusura e la riapertura dell’ospedale di Alzano, la mancata sanificazione, la zona rossa annunciata e mai costituita, con la testimonianza puntuale di Gessica Costanzo, direttrice di Valseriananews.it, un portale locale di notizie: l’assenza di quarantena e la mancata sanificazione – diversamente da quanto era accaduto a Codogno – furono le cause principali della deflagrazione del virus che colpì la città di Bergamo e le valli.  Il secondo tempo raccoglie le voci della valle: Nembro, Clusone, Fiorano al Serio, Valbondione con le loro storie di malattia, di dolore e di morte, di rabbia e frustrazione, ma anche di solidarietà e di speranza di rinascita. Il terzo tempo racconta delle voci della fede: il potente “argine contro la disperazione” rappresentato dalle chiese, le omelie dei preti di campagna, la loro dedizione, il loro pesante contributo in termini di malati e di vittime, la vicinanza alle persone più fragili e più sole dell’associazionismo cattolico, tradizionalmente molto presente in quella provincia. L’ultima parte è dedicata alle testimonianze degli operatori sanitari, i medici di base, i farmacisti, gli infermieri impegnati in “una corsa disperata contro il tempo”, veri e propri “medici in prima linea” (tra tutti Ariela Benigni, dell’Istituto Mario Negri, menzionata anche nei ringraziamenti finali), col racconto della scoperta dei sintomi, i tamponi, i ricoveri, le situazioni più critiche ma anche gli esiti positivi.

Adesso che la tempesta sembra passata e che la Bergamasca sembra quasi immunizzata dal virus, e comunque epidemiologicamente molto al di sotto di altri territori lombardi, la riconquista di una qualche forma normalità non dovrebbe andare a discapito della memoria, non per cercare vendetta, bensì esclusivamente chiarezza, conclude Luppichini, esprimendo anche in questa clausola lo spirito autentico di una popolazione orgogliosamente fiera e umilmente cristiana.

L’urlo di dolore: la Val Seriana nell’epidemia da Covid-19: le storie da non dimenticare, di Alberto Luppichini; prefazione di Vittorio Feltri.  Milano, Guerini e Associati, 2020. 150 p.


mercoledì 20 gennaio 2021

La saggezza del contadino: a vent'anni dalla morte di Gustave Thibon

 

A leggere i suoi aforismi, anche dopo vent’anni dalla morte, di Gustave Thibon si apprezza soprattutto l’attualità: benché una lettura superficiale della biografia indurrebbe a immaginarlo come un conservatore imbevuto di nostalgia per il buon tempo antico della civiltà contadina, in realtà tutto il suo pensiero sorprendentemente ruota attorno al confronto con la liquidità e le contraddizioni del postmoderno. Non si tratta di un confronto sistematico e tanto meno rigidamente dottrinario. Piuttosto, collocandosi nel filone della tradizione aforistica e “moralista” così feconda in Francia, offre continui spunti di riflessione e apre prospettive divenute inconsuete, misurandosi dialogicamente con le certezze e i pregiudizi della nostra epoca, in molti casi riuscendo a metterli efficacemente in discussione, e perfino a terremotarli. Ma anche una lettura strettamente politica del suo pensiero sarebbe limitante. Certamente Thibon è ascrivibile al grande filone culturale della destra francese: in alcuni passaggi si può intravedere anche la suggestione del Maurras comtiano apologeta del dato di realtà; si aggiunga che durante la seconda guerra mondiale la sua posizione, ostile agli occupanti, ma abbastanza benevola nei riguardi di Vichy e di Pétain, nel dopoguerra è stata anche oggetto di polemiche. Ma per unanime riconoscimento il suo contributo più importante è nella zona pre-politica delle tendenze e dell’atteggiamento di fondo di fronte alla realtà.

Radicamento contro evasione, realismo contro utopia e fantasticheria, senso dei legami orizzontali e verticali contro nichilismo e relativismo assoluto: queste sono le parole chiave che ci aprono al significato complessivo del suo pensiero.


D’altronde la sua vicenda umana, tranne una breve parentesi giovanile, si aprì (2 settembre 1903) e si chiuse (19 gennaio 2001) in un villaggio della Provenza, Saint-Marcel-d’Ardèche. Nel suo villaggio continuò per tutta la vita a leggere, studiare e scrivere, non smettendo mai di coltivare la terra. Il rapporto concreto con la terra e con la fatica del contadino, che non fu mai vagheggiamento letterario, rappresenta emblematicamente la metafora centrale del suo realismo. Non è un caso che le sue opere più note siano Diagnosi. Saggi di fisiologia sociale (con la prefazione di Gabriel Marcel) e Ritorno al reale, ambedue pubblicati più volte anche in italiano. Non è un caso che l’appellativo che più frequentemente gli è stato riservato, quasi abusato ma sempre suggestivo, sia quello di “filosofo contadino” o, più argutamente, l’Alce nero della Provenza, come ebbe a definirlo Giovanni Cantoni, il fondatore di Alleanza Cattolica, nel riproporne la lettura agli inizi degli anni 70  – anche con finalità formative – così evidenziando l’importanza del recupero intelligente della tradizione vivente e vicina, senza vagheggiare fughe fantastiche dalla modernità rivoluzionaria verso approdi esotici: una “tentazione” molto diffusa e anche molto seducente, in quella stagione di incipiente “riflusso” e di delusione per i parossismi seguiti al Sessantotto.


A coltivare la vigna di Thibon arrivò un giorno dell'estate 1941 anche Simone Weil, che soggiornò presso di lui su indicazione del domenicano padre Perrin. La Weil, dopo l’esperienza del lavoro in fabbrica, e prima del suo tentativo di arruolamento nella Resistenza, volle provare anche il lavoro contadino, ma il soggiorno non si limitò certo a questo: conversazioni intense, approfondimenti di riflessioni religiose e di suggestioni mistiche furono pane quotidiano dell’incontro tra i due. Lasciando Saint-Marcel Simone affidò al suo ospite alcuni quaderni di appunti, di cui Thibon curò la pubblicazione postuma nel 1947 col titolo La Pesanteur et la Grâce.
 
 
 
Nel 1964 gli fu assegnato, per l’insieme della sua opera, il prestigiosissimo Gran Premio di Letteratura dell’Accademia di Francia. Ma il contadino di Provenza – che nella formazione ebbe anche qualche debito nei confronti di un altro paysan, il Jacques Maritain contadino della Garonna (1) che lo aveva spinto a pubblicare il suo primo saggio nel 1931 – ovviamente non amava i convegni, le passerelle, la mondanità dei circoli letterari. Tanto più dobbiamo essere orgogliosi della sua trasferta romana in occasione della presentazione dell’edizione italiana di Ritorno al reale (1972), tradotta da Italo De Giorgi. 
Il volume è dedicato ai giovani pisani che ne avevano caldeggiato la pubblicazione presso l’editore Giovanni Volpe e che andarono ad incontrarlo a Roma. Evidentemente il saggio contadino Thibon non li considerò tipi da passerella. 

(1) Le paysan de la Garonne è il  titolo del libro che Maritain scrisse nel 1966 in piena stagione postconciliare, in cui ribadiva polemicamente la necessità di un ritorno al pensiero di Tommaso d'Aquino.
 
Pubblicato, con lievi differenze e meno riferimenti ipertestuali, su L'Occidentale del 19-1-21 (Gustave Thibon, ovvero la saggezza del contadino)


mercoledì 6 gennaio 2021

Quanti maschi ci sono in un amen

Non molto tempo fa, quando avevamo una presidente della Camera molto sensibile alle battaglie femministe, si usava celiare su “presidenta”, come se lei stessa avesse rivendicato questa (errata) femminilizzazione per designare il suo ruolo istituzionale. In realtà non lo aveva mai richiesto, trattandosi oltre tutto di una parola in cui la distinzione di genere si opera comodamente (e regolarmente) con la semplice variazione dell’articolo. Ma il fake, che più di qualcuno ha scambiato a lungo per una notizia vera, era finalizzato a irridere l’eccesso di correttezza politica nelle faccende grammaticali, che molti giudicano tedioso o forzato. Donde continue polemiche sulla sindaca, sull’assessora, sull'ingegnera. Per non dire delle ironie sulle misure dell'architetta.
 

Però nessuno, per scherzo o per davvero, era mai arrivato fino al vertice del pastore Emanuel Cleaver, deputato democratico eletto alla Camera dei Rappresentanti per lo Stato del Missouri: in apertura dei lavori del Congresso, in conclusione della preghiera invece di "amen" ha detto "amen and awoman", con un gioco di parole che aveva come scopo quello di sottolineare l’obbligo etico di distinguere il genere grammaticale.

Prescindiamo pure dal fatto che la binarietà maschio/femmina anche in grammatica è sempre più insidiata dall’avanzata del neutro indistinto (asterischi e compagnia bella) e mettiamo pure che forse il pastore non è aggiornatissimo circa le ultime conquiste della parità e sia un progressista benintenzionato benché démodé, resta comunque che delle due l’una: o le lingue, compresa la propria, non le conoscono tanto neppure i deputati degli States, arrivando al punto di credere che nella parola “amen” si nasconda un numero indefinito di maschi (un’altra prova scientifica del predominio patriarcale) e riconducendone la formazione e l’etimo all’inglese; o più probabilmente al pastore, che da persona “del ramo” immaginiamo ben consapevole dell’origine ebraica della parola, è scappata una battuta come dire “da sacrestia”, e ha deprezzato il suo ruolo di deputato e il suo status di pastore con un omaggio un po' penoso alla politically correctness.

Ipotesi ambedue preoccupanti, ma la seconda direi di più.

 

[Pubblicato su Occidentale del 4-1-2021]