Gli animali non sono soltanto prede di caccia dai
primordi della nostra apparizione sulla Terra, e neppure esclusivamente i partner delle nostre attività agricole e pastorali, come capita almeno dal Neolitico. La
loro presenza non è nemmeno esauribile nell'arco delle sensibilità che oggi ci
sono così familiari: la compagnia, l'accudimento diretto, la protezione
ambientale delle specie minacciate.
Prima di trasformarsi perfino in simpatici (e/o inquietanti?) cartoni parlanti e umanoidi alla maniera di Disney, la loro esistenza ha assunto significati simbolici e si è caricata di metafore e di figure.
E'
una costante del pensiero umano, e non c'è bisogno di ricorrere alle teorie
dell'interpretazione per sapere -se solo ci osserviamo un po'- che
moltissime volte siamo interessati, più che alle cose in sé, al significato che
assumono per noi e per gli altri.
Sui nostri vicini più vicini tra gli abitanti
della Terra si sono addensati significati totemici, araldici, morali. Nella
zona più remota della storia dell'homo sapiens antenati e totem
primordiali in sembianze animali non li hanno avuti solo gli Indiani d'America
o altri "selvaggi" incontrati via via dal civile e illuminato uomo
europeo: anche i nostri progenitori
italici prendevano il nome da animali che li guidavano nelle migrazioni: il
picchio e il lupo diedero nome ai Piceni, agli Irpini, e così via. Senza dimenticare che nel mito fondante della storia romana - e perciò di gran parte di ciò che chiamiamo Occidente- Romolo e Remo furono
allattati da una lupa. I medievali coltivarono nei Bestiari una vera e propria
scienza del valore simbolico, mistico e morale, degli animali. E infatti non è casuale che Il re leone delle Cronache di Narnia sia interpretabile come figura del Cristo, dal momento che l'autore, C.S. Lewis, da filologo e da scrittore era molto addentro a questo tipo di saperi.
Se pensiamo ai valori
"morali" tipizzati, basta ricordare la fedeltà del cane, la furbizia della
volpe, l'ambiguità del gatto, la regalità del leone, la mitezza della pecora e
dell'agnello, la lussuria prorompente dell'asino, la cupidigia ingorda del
maiale, che ci accompagnano da Esopo,
Fedro e Apuleio fino ai favolisti
moderni e a Collodi,
il cui Pinocchio può essere considerato una reinterpretazione moderna
dell'Asino d'oro di Apuleio.
Ma se ci domandano a quale tipo di immagini morali rimanda
l’orso, che tra gli animali ci è sempre stato vicinissimo, non abbiamo una risposta
immediata. Tanto grandi sono la sua fraternità e la “comparanza” con gli umani
che lo spettro delle somiglianze e delle complicità è veramente enorme e più
che altro contraddittorio. Il viaggio attraverso le variazioni che il nostro
rapporto con l’orso ha conosciuto nel tempo è veramente affascinante. E lo
possiamo fare in una buona parte con la guida di un autorevole storico
medievista, esperto di simboli e di araldica, Michel Pastoureau, che ha scritto
un libro proprio su questa vicenda (L’orso:
storia di un re decaduto. Torino, Einaudi, 2008).
Che cosa accomuna l'uomo neanderthaliano di 80.000 anni fa
che nella grotta del Regourdou condivide il suo riposo eterno sotto la stessa
lastra tombale con un orso bruno, con la bambina che si addormenta abbracciata al
suo Teddy di pelouche? A prima vista, poco. Ma nei meandri della storia dei
simboli emerge con assoluta chiarezza innanzi tutto la particolare fraternità degli
uomini con questo animale. Pastoureau ci mostra come nel remoto passato l'orso
era un vero Re primordiale, una divinità, che con l'avvento del Cristianesimo
un po' venne combattuta, un po' venne inglobata, come sempre. Capi germanici
discendenti di orsi, rampolli di stirpi che nel loro stemma si sono fregiate
araldicamente dell'orso ci sfilano davanti solenni e spaventosi, come l'eroe Beowulf, che non solo ha un nome che probabilmente significa "nemico delle api" (che era
uno dei soprannomi dell'orso per i Germani), ma che era figlio di un orso e di
una donna, circostanza da cui gli veniva una forza invincibile. Tra l’altro la
vicinanza dell'orso con gli uomini era rafforzata dall'idea - che è scomparsa
molto tardi- che gli orsi si accoppiassero abbracciandosi frontalmente, e non
come gli altri animali.
Un'altra lunga storia - ricca di sorprese- è
quella dei santi "orsi", o dei santi che sottomettono gli orsi, da
Sant'Orso a San Romedio, di cui c'è traccia anche nello stemma
di Benedetto XVI, per via della storia di San Corbiniano,
vescovo di Frisinga. Queste vicende di "addomesticamento"
costituiscono un passaggio rilevante nel significato dell'animale, ma anche in
questo contesto l'orso conserva una grande aura di solenne sacralità, benché
"subordinata" al nuovo potere spirituale. Parallelamente continua la
sua fortuna araldica e la sua vicinanza con gli aspetti guerrieri e regali del
Medioevo europeo.
Ma proprio la
"vicinanza" e la "fraternità" con gli umani saranno il
veicolo con il quale l'ormai ex re e dio si andrà colorando sempre più di aspetti
istrioneschi e ambigui. Durante le feste di carnevale mascherarsi da
orso, fare il verso all'orso diventa molto comune. La pratica non è esente da
scurrilità di vario tipo, e ci sono testimonianze di proibizioni e reprimende
delle autorità ecclesiastiche nei confronti di queste usanze. La goffa
somiglianza con l'uomo porta l'orso verso lo spettacolo circense, fino a
ballare incatenato con zampognari e suonatori girovaghi. Questa usanza è molto
ben documentata nell'Appennino Parmense (a Compiano c'è anche un Museo degli Orsanti) e nella Valle di Comino, a
cavallo fra Lazio, Molise e Abruzzo.
PS Oltre che nel libro di Pastoureau, il tema si può approfondire sul web qui
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