lunedì 6 maggio 2013

Scandalosa Hannah, almeno tre volte scandalosa








In questi giorni Hannah Arendt è uscita dalla riserva indiana degli studi politologici, ed è venuta a trovarci nelle sale cinematografiche. E forse ad animare qualche discussione da dopo-cinema sull'olocausto e sui processi ai nazisti, rispetto ai quali la sue posizioni provocarono un grande scandalo nella comunità ebraica.
Un film di Margarethe von Trotta racconta la vicenda del processo Eichmann a Gerusalemme, nel 1961, a cui la Arendt assistette in aula, e che relazionò in 5 articoli pubblicati sul New Yorker nel 1963, poi raccolti in libro col titolo Eichmann a Gerusalemme: rapporto sulla banalità del male. In sostanza la Arendt non riuscì a vedere nel gerarca nazista la personificazione di una tremenda "forza del male", ma la sconcertante banalità del burocrate che attiva una macchina di morte come una qualsiasi procedura voluta dal regime.
Questa tesi le costò l'ostilità di gran parte dell'ebraismo americano, fino alla perdita dell'amicizia di Hans Jonas.
Il film sarà una buona occasione per riflettere sulle sue tesi acute e provocatorie. E forse -si può sperare -  per dare un'occhiata anche ad altri aspetti della produzione di una studiosa di teoria politica molto citata, formalmente venerata, ma non tanto conosciuta. E sorattutto poco condivisa.
Già, perché lo scandalo "teorico" di Hannah Arendt non si ferma all'olocausto. Ce ne sono almeno altri due, che potrebbero stimolare la ginnastica cerebrale sulle idee fatte e confezionate, anche a distanza di tanto tempo.


Proveniente da una famiglia ebraica, fu allieva di Martin Heidegger, con cui ebbe anche una relazione sentimentale. Le posizioni del maestro-amante sul nazismo costituirono una dura prova, da cui fu segnata anche dopo la fuga dalla Germania, durante l'esilio negli Stati Uniti: nonostante la divaricazione esistenziale e filosofica, il suo legame intellettuale e affettivo con Heidegger in qualche modo non venne mai meno.
Negli USA la riflessione teorica sull'esperienza dei totalitarismi novecenteschi portò nel 1951 alla pubblicazione della sua opera più famosa e più citata, Le origini del totalitarimo. La tesi centrale del libro, ossia che il fenomeno totalitario avesse una radice comune di cui nazismo e comunismo costituivano due aspetti profondamente simili e connessi, non ebbe buona stampa nella sinistra intellettuale europea, fortemente legata all'idea che il nazismo rappresentasse il male assoluto, di natura radicalmente diversa dal comunismo, ideale buono sottoposto semmai ad alcune degenerazioni e deviazioni. L'idea del caratteri comuni del totalitarismo è rimasta minoritaria nella cultura politica occidentale: ha qualche parentela in studiosi come Talmon, Voegelin, Aron, o in Italia Del Noce, Settembrini e pochi altri. Nella cultura dei media non è entrata neppure di straforo, e ancora oggi -se conosciuta- suonerebbe abbastanza scandalosa e provocatoria.


Il terzo scandalo - e forse quello più in controtendenza - del pensiero di Hannah Arendt riguarda la valutazione delle tre rivoluzioni moderne: americana, francese e russa. Su questo punto la sua riflessione in qualche modo si avvicina al pensiero conservatore anglo-americano, quello che affonda le sue radici in Edmund Burke
Nell'opera Sulla rivoluzione  -del 1963 - confluiscono i motivi fondamentali della sua ricerca e appare in tutto il suo significato l'idea alla quale è rimasta fedele tutta la vita, secondo cui la sola ragion d'essere della politica è la libertà, e suo compito è produrre situazioni che ne allarghino gli spazi, cioè produrre istituzioni e corpi politici  "che garantiscano lo spazio entro cui la libertà può manifestarsi" (Fusaro).
Al sostanziale fallimento e all'esito liberticida della rivoluzione giacobina e della rivoluzione russa - prettamente ideologiche- si contrappone la riuscita della rivoluzione americana, protesa a conquistare i diritti concreti propri della  "libertà degli inglesi".



Anche questa sua radicale rivendicazione degli spazi delle libertà concrete contro le pretese ideologiche di "rifare gli uomini", proprie dei progetti totalitari, può essere ancora una bella sorpresa e un bel motivo di dibattito. Oltre che un indubbio omaggio al paese dove trovò ospitalità e dove potè sviluppare tutto il suo potenziale di studiosa di teoria politica, come amava definirsi, contrapponendo sobriamente la definizione della materia insegnata all'aureola ingombrante di "filosofa" che la circondava.

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