sabato 11 maggio 2019

L'orologio di Greta segna mezzanotte meno cinque, ma da più di un secolo

Greta Thunberg

La mobilitazione per il fenomeno Greta non si è ancora del tutto esaurita e i suoi slogan sono sostenuti da molti settori di opinione pubblica, in prima fila giornalisti e politici. 
Ne ha parlato sull'Occidentale Federica Ciampa, e varie altre voci fuori dal coro, come quella di Riccardo Ruggeri, hanno sottolineato come apparato mediatico e marketing ben studiato stiano “pompando” la diffusione del personaggio e del suo messaggio: quindi, benché minoritarie, non sono mancate le prese di distanza, le ironie e per la verità neppure qualche tono fuori misura. 
Andando più nel merito degli argomenti, ci sono scienziati -come il climatologo Franco Prodi e il fisico Carlo Rubbia, per non dire del combattivo Franco Battaglia-  che hanno contestato anche giornalisticamente l’assunto fondamentale dei movimenti ecologisti estremi, e cioè che il cambiamento del clima sia determinato in modo significativo dall'azione umana e dall'inquinamento.
Piuttosto – è stato rilevato- le posizioni apocalittiche espresse all'insegna dei fridays for future rischiano di liquidare sommariamente un problema (quello dell’inquinamento) che necessita di interventi strutturali e di politiche energetiche e industriali non recessive. L’approccio pragmatico non si sottrae alla preoccupazione per la cura dell’ambiente e anche l’approccio culturale dei conservatori riflessivi è tutt'altro che contraddistinto da una superficiale sottovalutazione del problema: basta rileggere il bel capitolo del Manifesto dei conservatori di Roger Scruton dal titolo “Conservare la natura” (ed.it. Raffaello Cortina, 2007).

Il fatto è che molte affermazioni ecologistiche estreme hanno a che fare più con la filosofia o, se vogliamo addentrarci ancora più in profondità, con un pensiero di tipo religioso. Michael Novak ha parlato di “segni caratteristici della religione gnostica, con Madre Natura assunta a idolo” e, al fondo delle formulazioni più radicali, si percepisce l’ostilità alla presenza umana nel pianeta, l’idea dell’uomo come grande parassita. Lo ha messo bene in evidenza, con ricchezza di riferimenti, anche Eugenio Capozzi nel suo Politicamente corretto (Marsilio, 2018), che articola attorno a questo tema  uno dei quattro blocchi su cui si sviluppa la riflessione del volume.
Il misticismo panteistico e la tipologia apocalittica dell’annuncio in realtà coesistono con la componente “religiosa” dell’ambientalismo fin dalle origini. Ad ogni svolta, la fine del mondo industrializzato e inquinato viene annunciata come imminente: non c’è tempo, manca poco alla catastrofe!

La storia del Rapporto del Club di Roma sui limiti dello sviluppo, diffuso più di mezzo secolo fa è abbastanza nota, compresa la nota previsione (errata) della fine delle risorse petrolifere entro il secolo.  L’acme delle previsioni catastrofiste fu raggiunto forse durante la Giornata della Terra del 1970, e curiosamente comprendeva anche un’apocalisse non causata come ora dal riscaldamento globale, ma da un raffreddamento da “nuova era glaciale”.  Sempre entro il 2000.


Gruppo di Wandervogel

Ma se andiamo ancora indietro nel tempo, all'inizio del 900, ci imbattiamo in una singolare anticipazione di quasi tutti i timori con cui abbiamo appreso a convivere, con le analoghe modalità apocalittiche della loro enunciazione, e col sottofondo religioso gnostico o panteista che alcuni studiosi hanno rilevato.  Solo che, un po’ perché è più vecchia, un po’per ragioni legate all'esito di una parte di questi movimenti, la vicenda non è conosciuta come la storia della cultura ecologista del dopoguerra.

Ludwig Klages
Parliamo del libro L’uomo e la terra di Ludwig Klages (1872-1956) - un intellettuale vicino a Stefan George e a Johann Jakob Bachofen-  e di tutto l’ambiente che fa capo  al movimento giovanile dei Wandervögel. Questo movimento in parte anticipò molte tematiche hippie con prevalenza del filone “emancipazionista” e liberatorio, ma in una parte non trascurabile, tramite il culto romantico dei boschi e della natura incontaminata dall'industrialismo, confluì nel nazionalsocialismo, in cui peraltro Klages – benché intellettuale molto conservatore e con venature antisemite-  rimase sempre in qualche modo appartato e non organico.
All'inizio il movimento si presentava come un contenitore che mescolava “neo-romanticismo, filosofie orientali, misticismo della natura, ostilità alla ragione e un forte impulso comune verso una confusa ma non meno ardente ricerca di rapporti sociali autentici e non alienati. La loro enfasi sul ritorno alla terra spronò una appassionata sensibilità verso il mondo naturale e i danni che soffriva”. Insomma possiamo dire che a quel punto le ragazze acqua e sapone nei boschi nordici erano già un’immagine consolidata.


Il simbolo dell’assemblea sull’Hoher Meißner. 
Nel 1913, in occasione del grande raduno dell'Hoher Meissner (una specie di Woodstock di inizio secolo) uscì il libro di Klages, ristampato più e più volte, e ancora oggi considerato un caposaldo dell’ecologismo (ed. it. Edizioni Mimesis, 1998).
L’uomo e la Terra anticipava quasi tutti i temi del movimento ecologista contemporaneo. Denunciava l’accelerata estinzione delle specie, la rottura dell’equilibrio del sistema ecologico globale, la deforestazione, la distruzione dei popoli aborigeni e dei loro habitat, l’allargamento delle città e l’aumentata alienazione della gente dalla natura. In termini enfatici condannava il cristianesimo, il capitalismo, l’utilitarismo economico, l’iperconsumo e l’ideologia del “progresso”. Condannava anche la distruttività ambientale del turismo rampante e il massacro delle balene e mostrava una chiara cognizione del pianeta come una totalità ecologica”. Il tutto come estremamente imminente.
Insomma già nel 1913 l’orologio dell’apocalisse segnava le 23:55!

(Pubblicato col titolo Ambiente, Greta & Co. si svegliano tardi: l'orologio segna le 23.55 dal 1913! sull' Occidentale del 1-5-19)


Jean Vanier, un moderno "pazzo di Dio"

Quando i giornali di tutto il mondo  hanno riferito che il 7 maggio, a  90 anni, era morto Jean Vanier (1928-2019) e che papa Francesco aveva espresso il suo cordoglio - come capita con le persone importanti-  molti si saranno chiesti chi fosse, perché ai più probabilmente risultava un nome praticamente sconosciuto: Vanier infatti era una di quelle figure straordinarie di cui magari non si parla per anni, ma che nella loro esistenza hanno costruito realtà solide e intessuto reti di relazioni dense di bene. E che la momento della morte “bucano” la superficialità della nostra “infosfera”, prevalentemente costruita su notorietà effimere e destinate a veloci obsolescenze.
Io l’avevo per così dire ‘incontrato’ qualche anno fa, in un libro di Emmanuel Carrère (Il Regno) che ritengo bello anche se complesso -non fosse altro per il difficile percorso dell'autore, sostanzialmente non credente (che poi è una definizione molto stretta in ogni caso, ma nel suo caso è davvero strettissima) in un tema come la vita di Gesù vista attraverso i suoi testimoni, in particolare Luca e la sue fonti e San Paolo - e che ha un finale stupefacente, costruito proprio sull'incontro dell’autore con Jean Vanier e con una delle sue comunità dell’Arca.
Più di cinquant'anni fa – racconta Carrère- un canadese che aveva fatto la guerra nella marina inglese, poi era stato ufficiale nella marina canadese, all'improvviso si era messo a studiare filosofia e stava cercando la sua strada. Nel Vangelo, è ancora Carrère che parla, c’è un brano o una frase per ognuno di noi: quella di Vanier si trova in Luca, ed è quella sul banchetto al quale Gesù consiglia di non invitare gli amici ricchi, né quelli del proprio giro, ma i mendicanti, gli storpi, i minorati che arrancano per strada, quelli che la gente evita e che nessuno naturalmente invita mai. 

Quale fosse esattamente la sua strada, come ha ricordato su Tempi Leone Grotti, “non lo sapeva ancora quando acquistò nel 1963 una catapecchia senza elettricità e acqua corrente a Trosly-Breuil, qualche decina di chilometri a nord di Parigi. Ma lo capì quando un vecchio amico di famiglia, il sacerdote domenicano Thomas Philippe, che viveva nella cittadina, lo invitò a visitare un istituto che curava i malati mentali. Era il 1964.
Non era esattamente un posto terapeutico, ma piuttosto un vero e proprio parcheggio per gli incurabili, quelli che sbavano e urlano a squarciagola, per capirci. 
E la sua strada Vanier non la voleva cercare con una soluzione tiepida, sia pure da buon samaritano dei nostri tempi, uno interessato a fare piccole belle cose per i più piccoli: voleva “seguire Gesù” ed essere “eccessivo”, a costo di sembrare “un po’ pazzo.  Affermava che nel messaggio del Vangelo c’è qualcosa di semplice ed di eccessivo: Gesù faceva tutto in eccesso. A Cana, trasformò l’acqua in una quantità eccessiva di vino. Moltiplicò una quantità eccessiva di pane e amare i propri nemici è un eccesso di amore. Tutto è eccessivo perché l’amore non può che essere eccessivo.
Rimasi molto toccato dalla visita al “manicomio”, ricordava nel 2002 a 73 anni, in un’intervista al Catholic Herald. “Ho scoperto un intero mondo di dolore e debolezza”. Dopo quella visita, fece un’altra “pazzia”: invitò due disabili, Raphael Simi e Philippe Seux, a vivere in casa sua per “condividere tutto”. “Queste persone non erano viste come esseri umani con un valore. Io invece ho scoperto in loro il Vangelo: io parlavo delle Beatitudini e dei valori del Vangelo, loro invece li incarnavano in modo profondo”. I due ospiti cominciarono a vivere con lui come in una famiglia: era la prima comunità dell’Arca. Ne seguiranno altre, basate sullo stesso modello di condivisione di vita, come una famiglia.
Oggi il lascito di Vanier è di 154 comunità in 38 paesi dei cinque continenti e un’organizzazione, Fede e luce fondata nel 1971), che riunisce ogni mese decine di migliaia di persone con handicap, le loro famiglie e i loro amici in 83 paesi in tutto il mondo.
Ispirate alla sua esperienza e alla sua vocazione sono anche numerosissime pubblicazioni, anche a carattere teorico, perfino una riflessione sulla felicità basata sull'etica aristotelica. Ha avuto anche incarichi ecclesiali importanti: è stato membro del Pontificio consiglio per i laici e ha ricevuto nel 2015 il Premio Templeton, uno dei massimi riconoscimenti mondiali che ogni anno viene attribuito a personalità del mondo religioso. Nel 1983 pronunciò il discorso di apertura dell’Assemblea generale del Consiglio ecumenico della Chiesa, a Vancouver, e nel 1987 su invito di san Giovanni Paolo II partecipò al Sinodo sulla laicità a Roma. 
Ma la cifra profonda del suo insegnamento, tutto incentrato sulla concretezza dell’esperienza cristiana, la possiamo cogliere nell'evocazione della lavanda dei piedi, praticata nelle sue comunità, per la quale non posso che rimandare allo straordinario racconto di Carrère, un evento "liturgico" e comunitario incardinato in una sua famosa riflessione: “Vivere è molto più difficile che morire. Ci sono molte persone che vivono ma sono tristi come la morte. Bisogna vivere l’oggi e ringraziare per ciò che siamo. La gente pensa che dovrebbe fare qualcosa di buono per i poveri, ma in pochi sanno che i poveri possono farci molto bene, possono cambiarci”.

(Con lievi differenze il testo è stato pubblicato col titolo Jean Vanier, la pazzia di seguire Gesù  su L'Occidentale dell'8-5-19)