mercoledì 30 dicembre 2020

Un sondaggio IPSOS certifica il disagio degli italiani.


Il sondaggio IPSOS di Nando Pagnoncelli apparso sul Corriere della Sera il 20 dicembre avrebbe certamente meritato più attenzione di quella che è emersa nei media e nell’opinione pubblica. In realtà è rimasto abbastanza in ombra, coperto dal Natale imminente e dall’assembramento di notizie e commenti sui colori del giorni di festa, sugli spostamenti leciti e quelli proibiti, sulle attività aperte e quelle chiuse. Invece i suoi risultati sono un po’ sorprendenti, e fanno scoprire uno stato d’animo dell’opinione pubblica in controtendenza, anche rispetto a quello che molti di noi potrebbero dedurre dal proprio punto di osservazione, irrimediabilmente parziale.

Dopo mesi di provvedimenti, di bollettini sanitari, di annunci di chiusure e riaperture, si scopre che gli italiani, almeno stando al sondaggio, mentre non hanno smesso di essere timorosi per le conseguenze sanitarie della diffusione del COVID19, cominciano ad essere preoccupati – molto preoccupati – delle conseguenze economiche delle lunghe interruzioni di attività e di servizi. Ma vediamo qualche dato.
Richiesti di esprimersi circa i tre punti ritenuti più preoccupanti per l’avvenire del paese, al primo posto (78%) troviamo economia e occupazione, un valore alto anche negli anni passati. Il 57% indica la sanità, un valore importante e in linea con le aspettative. Assai più in basso si collocano la preoccupazione per il funzionamento delle istituzioni (33%), l’immigrazione (20%) e la sicurezza (11%), temi meno presenti nel dibattito politico e nell’eco mediatica.
Molto pessimistica la valutazione sulla crisi economica in atto, che per il 59% degli intervistati è più grave di quella iniziata nel 2008 con la vicenda dei mutui subprime. Il giudizio sulla situazione economica è negativo per l’84%, e più del 60% si aspetta un peggioramento nei prossimi mesi, anche in riferimento alla propria situazione personale.

Passando allo specifico della gestione dell’emergenza COVID ancora oggi il 44% delle persone ritiene molto o abbastanza elevata la minaccia di poter essere contagiato e il 58% teme la possibilità di contagio della propria comunità, considerando anche che il 59% del campione considera la seconda ondata grave come la prima. Ma rispetto alla prima ondata aumentano le difficoltà di accettazione della situazione: si palesano preoccupazione (34%), rabbia (26%), disorientamento (22%), intolleranza (20%), tristezza (19%), senso di solitudine (9%). Inoltre il 60% è stanco di limitare la propria vita sociale, il 50% di non potersi spostare in Italia, il 47% di portare la mascherina e il 30% di rispettare le distanze.


Un sondaggio non può dar contro della complessità dei sentimenti e delle aspettative del corpo sociale, ma di sicuro è in grado di misurarne la temperatura: l’ “andrà tutto bene” dei primi mesi è stato largamente sommerso dalla sfiducia, dal pessimismo e dalle contrapposizioni. Il paese febbricitante sembra attendere una guida più autorevole, più sicura e meno improvvisata. Questo disagio interpella la responsabilità di tutte le forze politiche e delle autorità diffuse nel corpo sociale, ma soprattutto interpella la capacità dell’opposizione di centrodestra di attrezzarsi meglio, con una classe dirigente adeguata e con proposte concrete, così da presentarsi in modo convincente agli appuntamenti e alle svolte dei prossimi mesi, che non saranno sicuramente facili. E questa volta non potrà permettersi davvero di prescindere da una riflessione culturale adeguata, come ha suggerito giusto ieri Corrado Ocone: “È in questa dimensione perciò che chi ha a cuore la libertà, il “liberale”, ha ora necessità di muoversi. È un lavoro in lato senso “culturale” quello che va fatto, non per opporre semplicemente narrazione a narrazione, ripetendo all’infinito uno schema dicotomico a somma zero. Ma per provare a tenere aperto quanto più possibile il campo della divergenza, o meglio dell’eccedenza: sia all’interno del terreno di gioco, aumentando il numero delle interpretazioni in campo, sia anche all’esterno, ove gli stessi perimetri di gioco vengono a delinearsi”.

(pubblicato sull'Occidentale del 28.12.20)

mercoledì 16 dicembre 2020

Pierre de Villiers, ancora un generale per la Francia?

Non è certo il primo generale che compare all’orizzonte della storia francese, ma è ancora presto capire se la stella di Pierre de Villiers alla fine si rivelerà un’apparizione effimera o se si insedierà stabilmente nello scenario della politica d’oltralpe. Obbligato il riferimento al precedente più alto, a Charles De Gaulle e al suo ruolo centrale dalla Resistenza alla trasformazione della Francia in repubblica presidenziale (1); ma anche al finale insuccesso di Boulanger; e poi giù giù con i precedenti, dal Maresciallo Pétain fino al capostipite dei generali in politica, il Bonaparte.


 

Occasionalmente i media francesi se ne erano già occupati, soprattutto per la prestigiosa carriera militare: dal comando della brigata Leclerc in Kosovo nel quadro dell’operazione KFOR nel 1999, al coordinamento di importanti operazioni militari nel Sahel, in Centrafrica e in Siria, fino alla nomina a capo di stato maggiore dell’esercito nel 2014. 


Ed è in questa veste che la sua traiettoria si incrocia con la politica. Nel luglio 2017, di fronte all’annuncio di una diminuzione del budget per la difesa (un taglio di 850 milioni di Euro) da parte del ministro dei conti pubblici Gérald Darmarin, della compagine governativa di Macron, de Villiers esprime energicamente il suo dissenso davanti alla Commissione difesa dell’Assemblea nazionale con un icastico e registrato “Non mi farò fottere in questo modo”, reso pubblico da Le Monde, completato a detta del Figaro da un inequivoco “Non posso più guardare i miei ragazzi negli occhi se riduciamo ulteriormente i nostri mezzi”. La polemica va avanti per qualche giorno, ancora il 14 de Villiers assiste alla parata accanto al Presidente, il 15 posta su Facebook una critica al taglio e il 16 Macron, definendone "indegno" il comportamento, lo sostituisce col generale François Lecointre: un atto a quel punto probabilmente inevitabile, tanto più che Macron era allora una specie di giovane dio all’inizio del suo fulgore. Ma un evento così traumatico per le istituzioni francesi non si verificava dal 1958 e, soprattutto, da parte del Presidente forse non si valutò abbastanza che de Villiers godeva ampiamente di una buona reputazione pubblica.



Di fatto da quel momento il Generale non entra nel cono d’ombra dei dimissionati, anzi rilancia intensificando la sua presenza pubblica. Presentazioni di libri (ne ha scritti tre: Servir, Qu’est-ce que c’est un chef, e, da poco in libreria, L’équilibre est un courage) e prese di posizione a 360 gradi, ben al di là del tema “difesa”: la finanza globale opposta all’economia, la scuola come cardine della rinascita, la necessità di farsi capire dalla Francia popolare e profonda; e su tutto il grande sfondo dell’amour per la Francia e le sue tradizioni. Se ci si aggiungono gli interventi più occasionali, ma non meno significativi, come quello seguito allo sgozzamento del professore Samuel Paty (“è un attacco all'esistenza stessa della nostra nazione, della nostra civiltà”), si può quasi intravedere il disegno di una piattaforma articolata e coerente per la destra che dovrà sfidare Macron nel 2022.

È una prospettiva verosimile? I giornali hanno dato conto di un sondaggio IFOP abbastanza clamoroso – che ha fatto passare alla fama del Generale anche il confine italiano con una corrispondenza di Cesare Martinetti su Huffpost – secondo il quale il 20% dei francesi si direbbe pronto a votare per il generale de Villiers in caso di candidatura da parte sua nel 2022. “Lo studio IFOP – commenta Agora Vox nell’ambito di una analisi molto accurata del sondaggio –   ci dice che il 42% degli intervistati, compresa buona parte degli ex elettori di Marine Le Pen (38%), dichiara di non sapere ancora chi sia il generale de Villiers; il che significa che il famoso “soffitto di vetro” è ben lungi dall'essere raggiunto e quindi che il 20% …può essere facilmente superato. Un altro punto importante nel sondaggio: l'origine elettorale in relazione al voto nel 2017 di coloro che si dicono pronti a votare per Pierre de Villiers. Reclutando la maggioranza delle sue truppe tra gli ex elettori di François Fillon (41%) e Marine Le Pen (29%), sembrerebbe che il generale sia l'uomo provvidenziale ... dell'unione delle destre, e anche un poco oltre”. E difatti il sondaggio registra un certo interesse verso la sua figura anche da parte di elettori di sinistra e almeno di una quota dei gilet gialli. Qualche commentatore già si sbilancia e preconizza lo scontro tra lui e Macron come lo scenario che potrebbe superare lo stallo della destra, bloccata dalla vittoria ‘impossibile’ dell’estrema Le Pen, dopo la sfortunata – e forse abbastanza pilotata – uscita di scena di un personaggio come Fillon, un gollista con la sua piattaforma cattolico-conservatrice molto marcata. Tutto è ancora molto prematuro, ma intanto si registra un certo sommovimento, ovviamente non sempre entusiasta, da parte di personaggi della destra mediaticamente robusti, come Éric Zemmour, che forse avrebbe più di una chance di partecipare alla gara di persona.

 Molto dipende dalla capacità “fusionista” che de Villiers potrà avere.  Difatti quando si parla di politica francese non bisogna mai dimenticare che la destra qui più che altrove esprime in modo paradigmatico la sua natura composita, in qualche modo a strati, secondo la classica tripartizione di René Rémond. Per i lettori dell’Occidentale non c’è bisogno di insistere troppo su questo passaggio fondamentale, che è stato richiamato anche di recente in un commento di Pietro Scuri in occasione della morte di Giscard.  Per sensibilità, formazione e soprattutto per le origini familiari de Villiers apparterrebbe in pieno alla prima destra, cattolica e controrivoluzionaria, connotata da un’antica e mai dimenticata ostilità alla Rivoluzione dell’89 e ai suoi sviluppi del 92, che la sua terra, la Vandea, patì in modalità “genocidio”, e a cui rispose con un’aspra guerriglia controrivoluzionaria.


 

Pierre François Marie Jolis de Villiers de Santignon, nato a Boulogne 64 anni fa, rampollo di una famiglia aristocratica radicata in Vandea almeno dal XVI secolo, altri non è che il fratello minore di Philippe, che col suo “Movimento per la Francia” si era presentato alle presidenziali nel 1994 e nel 2007, con risultati elettoralmente scarsi. Il Movimento di Philippe era molto caratterizzato in senso cattolico tradizionale. Sulle sue terre aveva organizzato il Puy du fou, un grande parco storico a tema sulla storia della Vandea, che ha avuto milioni di visitatori. Rispetto al fratello, Pierre, pur affondando le radici nello stesso terreno culturale, si presenta in modo più trasversale, cita filosofi e scrittori contemporanei e pare rifuggire anche dagli eccessivi accenti filoputiniani a cui Philippe talora inclina in nome dei valori cristiani da tutelare in opposizione all’americanismo globalizzante. Il Generale accentua la sua immagine di contemporaneità anche con elementi di dettaglio, come il conclamato utilizzo della metropolitana e dello smartphone.

Stando ai primi sondaggi, il Generale ha le carte in regola per piacere abbondantemente al di sopra di quel 4% che conquistò il fratello. Insomma, sarà un vandeano smart, aperto al mondo contemporaneo e capace di farsi intendere da tutti gli strati sociali che farà il miracolo di rianimare la Destra, e magari darle qualche prospettiva di vittoria, facendo prima di tutto da collante per le tre destre e allargando l’area del consenso oltre il recinto? 

(1) Sul tema è ineludibile almeno il De Gaulle di Gaetano Quagliariello, Soveria Mannelli : Rubbettino, 2012

Questo articolo con piccole differenze di editing è apparso sull'Occidentale del 16-12-20 

mercoledì 25 novembre 2020

Ocone e la chiave per interpretare il Novecento


Questo post ha un antefatto biografico-culturale, che vi devo raccontare.  Con una compagnia di ventura “di fatto”  abbastanza avventata ma ormai consolidata, composta da Massimo, Antonio, Gualtiero, Federico ed io – avevamo pensato di dedicare al libro di Ocone un pomeriggio – col soccorso di un paio di menti accademiche, tra cui di sicuro l’ a noi carissimo Eugenio,  e la conduzione di Eleonora e Stefano (i cognomi non li posso spoilerare, saranno la sorpresa dell’evento in presenza) –  per sviscerarlo nei suoi temi portanti, squisitamente filosofici e filosofico-politici, ma anche con l’ambizione di suggerire almeno qualche spunto per la comprensione d’insieme di un secolo per molti aspetti ancora vivissimo.  Quello che avevamo in mente però si sarebbe prestato poco alla trasformazione in presentazione on line. Perciò abbiamo preferito aspettare tempi migliori e pandemicamente rassicuranti, sperando nella possibilità di organizzare qualche cauto e vigilato “assembramento”.

E così intanto mi anticipo con qualche riflessione e qualche domanda, quelle che avrei probabilmente fatto in pubblico. Premetto che “Interpretazioni del Novecento” è un sottotitolo troppo attraente, e di suo indurrebbe nella pericolosa tentazione di utilizzare la “chiave” per curiosare in più di un cassetto. Certamente il secolo si porta dietro quella connotazione di brevità, che gli ha attribuito Hobsbawm in contrapposizione al “lungo” Ottocento: se questo è vero sul piano delle scansioni degli eventi e se è corretto delimitarne i confini tra la scoppio della prima guerra mondiale e la caduta del blocco comunista sovietico, non si può ignorare che sul piano della storia delle idee ci siamo ancora pienamente dentro, nonostante le novità introdotte dalla crisi della globalizzazione triumphans a partire dagli anni 10. Non ci è dato ancora sapere se l’assetto post-covid porterà altri mutamenti, e quanto profondi. Di fatto la narrazione della storia ha bisogno di scansioni e di ritmi, ma le idee viaggiano in uno strato più profondo, in un magma dove le brusche soluzioni di continuità sono invisibili, se non proprio inesistenti. Non è una novità, se solo pensiamo a quello che da qualche secolo ci rappresentiamo come il paradigma di tutte le fratture, la cosiddetta caduta dell’Impero romano, e ai lunghi secoli in cui novità e persistenze si intrecciarono così fortemente da farci arrivare perfino a mettere in crisi l’idea stessa di Medioevo come tempo intermedio tra l’antichità e la modernità.  
Una lunghezza soprattutto filosofica, che Ocone consapevolmente esplicita fin dalle prime pagine:” la metodologia filosofica è valida in generale, probabilmente, ma lo è di più e a maggior ragione per un secolo, che forse tanto “breve” non è stato (e le cui propaggini in realtà arrivano fino a noi), ma che sicuramente è stato il secolo delle ideologie di massa, delle idee e della filosofia che hanno inteso farsi potere”
 

I saggi che compongono il volume sono prima di tutto un vero excursus attraverso gli snodi del pensiero, ma non se ne stanno certo lì ad aleggiare nell’empireo delle idee. Tutto è argomentato, e l’autore non si discosta mai da uno stile accademico e sobrio. Potremmo dire che non alza mai la voce. Ma in più di un punto rovescia con pacato vigore le tesi dominanti, sia riguardo alle figure di Nolte e Del Noce e alla loro interpretazione del Novecento, oggetto del primo capitolo, sia – soprattutto – riguardo alla lettura del Sessantotto come “apocalisse dell’ideologia italiana”, un capitolo particolarmente contromano, che direi centrale per il nesso filosofia-ideologia-politica-attualità.   Ma non c’è ambito in cui non si possa ricavare un arricchimento e una prospettiva per interpretare la nostra contemporaneità, che si parli di Derrida o di Heidegger, o ancora del liberalismo, di Croce e De Ruggiero o – infine – della genesi, della proponibilità e del rilievo dell’Italian theory, dove si confronta con un lavoro di Roberto Esposito, filosofo di scuola pisana.
In tutti i saggi, anche quelli più ‘tecnici’ e strettamente legati alla storia della filosofia, si può vedere in filigrana quanto dichiarato nel risvolto di copertina, ossia la preoccupazione e la cura che animano la domanda di fondo:  se oltre la crisi evidente c’è un futuro possibile per la civiltà occidentale e per il liberalismo che ne è stata la cifra essenziale e più originale.

A proposito di  La chiave del secolo: interpretazioni del Novecento,  di Corrado Ocone, Rubbettino, 2019, post pubblicato con lievi differenze nel blog della Libreria Pellegrini di Pisa, Contrappunto il 25-11-20



La sindaca Raggi sfratta il Medioevo

 

Con una comunicazione del 9/11/2020, pervenuta 16/11/2020, il Comune di Roma ha chiesto all’Istituto Storico Italiano per il Medioevo (ISIME) di “rilasciare bonariamente i locali, liberi da persone e cose, entro 90 giorni dal ricevimento della presente…”. Si minaccia la “riacquisizione forzosa del bene” e si dice – falsamente secondo l’Istituto – che il Comune ha un credito di 24.437,88 euro. I locali sono stati richiesti per le necessità di spazi dell’Archivio storico capitolino, collocato nello stesso complesso dell'Oratorio dei Filippini: esigenza apparentemente inspiegabile, dal momento che nel 2006 il Campidoglio ha curato il restauro di grandi spazi al secondo e al terzo piano dello stesso complesso, destinati proprio all’Archivio, e ancora inutilizzati.

Fondato nel 1883 per dare "unità e sistema alla pubblicazione de' Fonti di storia nazionale", assunse il titolo di Istituto Storico Italiano per il Medio Evo nel 1934 e ha al suo attivo ricerche, borse di studio, convegni, molte pubblicazioni di alto livello scientifico (una delle sue “glorie” maggiori è la direzione scientifica della riedizione dei 28 volumi  dei Rerum Italicarum Scriptores, la raccolta di documenti e fonti per la storia italiana dal VI al XIV secolo a cui Ludovico Antonio Muratori dedicò gran parte della sua esistenza, pubblicandoli a cui e tra il 1723 e il 1752). Alla storia dell’ISIME sono legati personaggi come Giovanni Gentile, che nel 1923 vi istituì la Scuola Storica Nazionale, e Pietro Fedele, che inaugurò la nuova sede. E poi la serie degli storici medievisti come Giorgio Falco, Raffaello Morghen, Gina Fasoli, Arsenio Frugoni, Girolamo Arnaldi, Ovidio Capitani. La sua dotatissima biblioteca è un punto di riferimento imprescindibile per gli studiosi.

Ma se conoscere la storia non è sempre da tutti, se la sindaca Raggi del medioevo conoscesse solo l’aggettivo che viene utilizzato dagli ignoranti e dai media scadenti per connotare ogni nefandezza e ogni arretratezza – come ha argutamente ipotizzato la medievista pisana Alessandra Veronese – almeno valutare gli aspetti logistici e l’impatto organizzativo di una decisione dovrebbe essere pane quotidiano per un’amministrazione rispettabile o solo decente. 

Ebbene in 90 giorni, per motivazioni comunque non chiare e con una procedura indifendibile, l’Istituto dovrebbe rimuovere, trasferire e collocare nella nuova sede circa 100.000 libri di una biblioteca aperta al pubblico; le serie pluriennali di 760 riviste scientifiche italiane e straniere; il suo archivio storico, nonché l’arredo, gli schedari, le librerie e i tavoli in legno massello. Una richiesta di questo genere o la si fa senza aver nemmeno preso in considerazione il problema o non avendo neppure un’idea vaga di cosa comporti ricollocare anche solo i 1.000 libri di una biblioteca di casa.
Non vogliamo essere passatisti incalliti e produrci nel pur giusto lamento sul livello culturale medio della classe politica, evocando impietosamente il confronto con quella passata e trapassata, perché   su quella strada saremmo comunque spacciati, ma almeno due conti sui costi e un diagramma di flusso delle attività conseguenti alle decisioni ce li potremmo aspettare? 

(Pubblicato su Occidentale il 24-11-20)




venerdì 20 novembre 2020

Se la cultura è un gadget: i tre indizi che fanno una prova

L’istruzione, la ricerca e la cultura hanno un posto limitato nell’agenda di governo, quanto a investimenti, mentre ne hanno uno enorme quanto a proclami e declamazioni a costo zero. Questa non è certo una novità. Ma, come è capitato per molti altri ambiti, l’emergenza Covid ha reso più evidenti le carenze strutturali, mostrando impietosamente i frutti di decenni di cattiva politica. Se poi guardiamo più al dettaglio dentro gli schieramenti politici, sintetizzando una riflessione scomoda suggerita da Luca Nannipieri possiamo aggiungere che – a parità di sostanziale disinteresse – mentre la sinistra ha creato/colonizzato giornali, case editrici, università, televisioni, cda di enti museali, fondazioni liriche, centri di sperimentazione, divenendone di fatto l'emblema, assumendo in qualche modo forma e forza di potere, la destra in genere ha pensato bene di lasciare la cultura al livello di gadget, di aperitivo o di supplemento quasi clandestino a qualche quotidiano di famiglia; cosicché  è vero che il risultato è davanti agli occhi di tutti e le colpe sono trasversali, ma c'è una parte che ha vissuto con l'idea che meno se ne parlava, meno si perdeva tempo... Che poi sarebbe la “nostra”, ma questa è davvero un’altra storia.

Torniamo ai tre indizi, e cominciamo dalla scuola, quella che per ovvie ragioni ha più spazio sui media.
Preparazione al rientro, bocciata: sappiamo tutto dei banchi a rotelle e dei trasporti-sardina, e quindi andiamo oltre.
Avvio, faticoso, con molta buona volontà e dedizione di una parte del corpo insegnante e dei dirigenti scolastici. Con la macchinosità e il guazzabuglio dei tamponi si manifesta una prima crisi, ma nonostante tutto materne, elementari e medie inferiori vanno avanti a macchia di leopardo. Alle superiori ci si organizza con turni e DAD (didattica a distanza) mista a presenza, in percentuali variabili.

Appena cresce l’allarme contagi, ecco che subito fa capolino la differenza italiana. Sarebbe stato troppo aspettarsi la tenacia francese e tedesca, o il messaggio del governo inglese fatto contestualmente all’annuncio di un pesante lockdown “Essere a scuola è vitale per l’istruzione dei bambini e per il loro benessere. Il tempo trascorso fuori dalla scuola è dannoso per lo sviluppo cognitivo e accademico dei bambini, in particolare per i bambini svantaggiati”? Evidentemente sì, era troppo, se a fronte delle difficoltà logistiche la prima preoccupazione, a destra e a sinistra, è stata quella di tagliare quel poco di presenza rimasta nelle superiori. Piani per trasporti, alternanze, turnazioni, anche a medio termine? Giammai, semmai si vedrà, a emergenza finita. Poi, a raffica, a partire dalla Campania di Vincenzo De Luca, il capostipite, ordinanze di chiusura delle scuole di ogni ordine e grado anche in Puglia e in Basilicata. “E noi stiamo ancora a chiederci perché il Mezzogiorno è sottosviluppato???”, posta Alessandro Sansoni su Facebook.

Per materne, elementari e tutto sommato anche per le medie inferiori il disastro educativo e formativo è evidente, e la surroga della didattica a distanza non si può considerare neppure un palliativo. Ma nelle superiori un’intera generazione di adolescenti, nella fascia critica e delicatissima dai 14 ai 19 anni, è stata massicciamente consegnata alla cosiddetta DAD. Quando va bene, perché molti non riescono ad usufruire neppure di quella in modo decente, per le pregresse carenze infrastrutturali e tecnologiche, perché non tutti gli insegnanti sono preparati a farla né hanno a disposizione le attrezzature necessarie, perché le famiglie non hanno i computer necessari in qualche caso per più ragazzi, perché non sempre i collegamenti Internet sono efficienti (soprattutto in certe zone interne, e qui si torna daccapo al problema irrisolto dell’Italia divisa e sulla necessità di un grande piano strutturale su cui in questo giornale non sono certo mancati gli interventi). Insomma, i più “fortunati”, per così dire, sono quelli che passano davanti al computer cinque ore di lezione al mattino e due-tre di pomeriggio per i compiti, con quali conseguenze relazionali e psicologiche a medio termine non è difficile immaginare.
Alcune università hanno tentato parziali riaperture “in presenza” di lauree, esami e lezioni selezionate, e in genere stanno assicurando laboratori e biblioteche. Per la DAD, che sta ridiventando dominante, hanno strutture tecnologiche e reti più efficienti, ma a casa docenti e studenti convivono con le stesse problematiche. E, anche se gli studenti sono più grandi e forse meno “deprimibili”, resta che la rimozione dei rapporti diretti con gli insegnanti e i colleghi anche nella loro fascia di età alla lunga non è sostenibile sul piano formativo.
Bisogna prendere atto che le poche voci che si sono levate da subito a denunciare questa situazione da qualche giorno non sono più tanto deboli ed isolate, e bisogna riconoscere che la ministra Azzolina non ha mai smesso di chiedere che le scuole rimangano aperte, al netto della discutibile gestione della preparazione alla riapertura che ha caratterizzato il suo ministero. Le voci autorevoli di Agostino Miozzo, coordinatore del CTS, e di Franco Locatelli, Presidente del Consiglio superiore di sanità spingerebbero verso un riesame della materia che possa portare almeno alle formule miste presenza/DAD di cui si è parlato a lungo e che ora sembrano scomparse dall’orizzonte. Purché non si riduca tutto al déjà-vu di pareri e di proclami senza frutto, a cui siamo purtroppo avvezzi.

Accenno al volo al secondo indizio di sottovalutazione congenita, che a prima vista ha un impatto minore, ma la dice lunga sull’approccio delle nostre classi dirigenti. Guardate come nei partiti e nelle amministrazioni (anche qui – si può dire? – forse soprattutto di destra) sono affidati troppe volte gli incarichi politici nel settore cultura: un’oscillazione perpetua tra il secchione imbarcato come lustro per il partito, l’esperto-fissato su un tema particolare che poi si occupa solo di quello o poco più, e il personaggio scadente a cui non si può fare a meno di dare un compito e si mette nel settore dove si suppone non possa fare troppi danni. Ovviamente ci sono state e ci sono belle e importanti eccezioni, che a volte ce la fanno perfino a durare per qualche tempo (per non far torto a nessun vivente ricordo solo l’eccellenza di Marzio Tremaglia assessore in Lombardia, venuto a mancare troppo prematuramente), ma la media diciamo che è deprimente.

Per il terzo indizio non si fa nessuna fatica a inserire distinguo e distinzioni: non ce ne sono, e fin da subito archivi, biblioteche, musei e perfino i pericolosissimi parchi archeologici (immensi spazi in genere visitati da rari appassionati, e comunque contingentabili) sono stati chiusi massicciamente e senza pensarci due volte. Qualcuno ha protestato, tentando di evidenziare l’incongruenza della misura rispetto al pericolo. Un’iniziativa collettiva per le biblioteche è stata lanciata in Toscana. Da ultimo (ma non certo ultimo), uno studioso del calibro di Salvatore Settis – tra l’altro uno che non si è mai sottratto anche all’impegno nell’agone pubblico, comunque si vogliano giudicare di volta in volta le sue prese di posizione – con una lettera aperta al Presidente del Consiglio Conte ha avanzato una proposta che va esattamente nella direzione opposta all’oscurantismo lockdownista: apriamo i musei, gratuitamente, e contingentiamo gli ingressi. Lo ascolteranno? Possiamo solo augurarci che anche su questo fronte la ragionevolezza riesca ad aprire qualche varco.

Quanto alla prova, con la convergenza dei tre indizi la possiamo considerare acquisita. E non ci stupiremo più di tanto se normalmente sentiamo tanti discorsi sul “ruolo strategico della scuola” e sulla“centralità della cultura”, soprattutto quando c’è da inaugurare mostre e vetrine, ma poi si presta poca attenzione alla meno appariscente attività di manutenzione e di miglioramento delle realtà strutturali?

(Articolo apparso sull 'Occidentale del 20-11-20 col titolo La scuola italiana? Bocciata! Se tre indizi fanno una prova)



sabato 3 ottobre 2020

Risalire i tornanti, per arrivare al centro del mondo


Questo libro è nostro, mi sono detto appena cinque minuti dopo che lo avevo aperto. Nostro nel senso di quella tribù di disadattati di montagna, che alle radici non vorrebbe mai rinunciare, ma dignitosamente, con l’impegno a non avvolgerle nella melassa idilliaca del buon tempo che fu. Perché buonissimo non fu mai, se così in tanti dovettero andarsene per trovare lavoro, sicurezza e speranze per il futuro: “Chi mantiene un sempre più vago e sfilacciato legame con il paese di origine rende merito alla propria doverosa scelta di andarsene. Chi evoca con sguardo tradizionalista il passato lo arricchisce d’aura bio/romantica, naturalmente buona, di un tempo che fu senza essere mai stato. Nel tempo che fu era ben evidente che questa è una valle di lacrime, oltremodo coinvolgente”.


Giovanni Lindo Ferretti – sulle spalle il sacco della sua importante attività di musicista – è risalito nel suo paese di origine e si è messo a fare l’allevatore/pastore/contadino, il mestiere che i suoi antenati hanno praticato per secoli. Lo sfondo è quello tipico dell’Italia a sud del Po: “Una dorsale di montagne protese su un piccolo mare. Se…siete abitanti delle città, del piano, delle coste, prendetevi un giorno di libertà, non d’agosto né durante le festività ma un giorno qualunque meteorologicamente variabile, e risalite le montagne che comunque delimitano, incombenti o all’orizzonte, il vostro sguardo...Quando si comincia salire e i rettilinei lasciano spazi ai tornanti… è come oltrepassare una frontiera a cui segue lo spopolamento, la disintegrazione del tessuto geologico, sociale, umano”. E sì, perché il paese di Ferretti (Cerreto, in provincia di Reggio Emilia), è un archetipo che vale per il 90% dei paesi appenninici e potete chiamarlo tranquillamente col nome del vostro, se la sorte ve ne ha regalato uno nei meandri della biografia. Qua la stagione della normalità è quella di una casa aperta e dieci chiuse, in attesa del popolo dei weekend, più o meno numeroso (“se le previsioni meteo sono favorevoli”) o di quello agostano, quasi sempre abbondante. La stagione della normalità è quella della messa per cinque persone, e tre che si fumano insieme una sigaretta all’uscita, parlando del più e del meno. Insomma un mondo dove “si sta tra l’agonia e un trapasso già avvenuto ma non comunicato”. Al netto dei ricorrenti progetti di riqualificazione turistica e ambientale, a cui tutti auguriamo successo, ci mancherebbe, purché escano una buona volta dal limbo delle chiacchiere, dei magheggi e delle furbizie.

Alla fin fine le speranze concrete di Ferretti su una possibile inversione di tendenza sono a dir poco scarse: la sua è soprattutto una testimonianza di fedeltà radicata nell’impossibilità di vivere fuori dall’orizzonte della sua casa, della sua chiesa, del suo cimitero; e nella riscoperta delle radici cristiane e “romaniche” della civiltà dell’Appennino.
Abitiamo una linea di frontiera del tempo che era lo spazio di una civiltà. Le nostre piccole patrie. Facciamo argine all’abbandono puntellando qua e là le esigenze dell’abitare, inventando economie marginali, di sussistenza. Sopravvivere è già un risultato dignitoso, non scontato”.
E se pure noi della tribù appenninica dobbiamo sperare in qualcosa di più (e magari lavorare per ottenerlo) questo libro lo terremo sul tavolo di lavoro o sul comodino, ben in evidenza, per aprirlo ogni tanto, e farci raccontare del vecchio Fiore o di tradizioni viventi come la Perdonanza tra Cerreto e Sassalbo. Per respirare aria buona e mantenerci ancorati al principio di realtà, senza troppe fughe sulle mongolfiere dei sogni impossibili.

In margine a Non invano, di Giovanni Lindo Ferretti. Milano, Mondadori, 2020. 114 pagine.

 

(Articolo apparso il 1 ottobre sul blog Contrappunto)


Mathieu, quell’intellettuale dimenticato (anche a destra)

 


Quando la notizia della morte di Vittorio Mathieu è arrivata nelle redazioni dei giornali e delle TV, non è difficile immaginare la fatica per mettere a fuoco il personaggio e le ragioni della sua rilevanza in cronaca. Ma oggi in rete si fa presto a trovare coccodrilli, e male che vada per fortuna c’è Wikipedia; così nel giro di mezza giornata l’articolo lo hanno fatto quasi tutti, non solo La Stampa di Torino, la città dove Mathieu aveva insegnato e studiato per tanti anni, e Il Giornale, a cui aveva collaborato sistematicamente per decenni, dove Carlo Lottieri ha tracciato un bel profilo, mettendo opportunamente in luce tutti gli aspetti della sua personalità.


La qualità dello studioso – e la varietà dei suoi interessi – sono testimoniati da mezzo secolo di pubblicazioni (dal Bergson del 1954 al Goethe del 2015): un contributo originale e profondo in molti campi, dalla filosofia della scienza alla filosofia morale, dalla storia della filosofia all’estetica. Fu allievo di un filosofo della statura di Augusto Guzzo, ma non si deve mai dimenticare che un accademico si dovrebbe valutare anche dalla qualità dei suoi allievi: non ho la lista completa, posso solo ricordare che nella sua “covata” ci fu quel geniale e metodico elaboratore di idee e di prospettive che fu Emanuele Samek Lodovici, che un brutto incidente stradale strappò alla cultura italiana a soli 38 anni, quando era già precocemente salito alla cattedra di filosofia morale.
Mathieu è stato un ricercatore e uno studioso di prima grandezza, ma alieno da ogni sovraesposizione mediatica, da vero piemontese dedito al nascondimento, per educazione e per scelta. Lo stile mai urlato e la presenza mai esibita riguardavano anche la sua vita personale e la sua biografia, al punto che la vicenda dei suoi genitori uccisi dai partigiani durante la guerra civile del 1943-45 fu conosciuta al pubblico solo tardivamente e quasi per caso.

Nei necrologi non sono mancati accenni al suo impegno politico e civile, ma spesso un po’ frettolosi, tanto da sembrare pigramente trasmigrati da un articolo all’altro: “fu tra i fondatori di Forza Italia”, e poco più.
Giustamente Carlo Lottieri, Marco Taradash e Alessandro Campi hanno sottolineato che nel caso di Mathieu non si trattò tanto di una generica “partecipazione alla fondazione”, quanto di un impegno civile, politico e culturale che si manifestò principalmente in due momenti-chiave della storia del centro destra (e, diciamolo, anche della storia delle sue occasioni mancate o rovinate). Il primo fu la sua convinta adesione alla Convenzione per la Riforma Liberale, nata nel 1995, e la partecipazione alle elezioni che nel 1996 videro entrare in parlamento Lucio Colletti, Piero Melograni, Giorgio Rebuffa, Marcello Pera, Saverio Vertone, Renato Brunetta: una stagione veramente unica, e irripetuta, nel rapporto tra cultura e centrodestra. Mathieu non entrò, ma anche qui per una scelta “piemontese” di signorile understatement. Preferì un collegio assai più difficile, ma in cui era più radicato.
Il secondo momento, lo ha sottolineato Campi, lo vide partecipe di quell’autentica avventura del pensiero di destra che fu la rivista Ideazione, fondata da Mimmo Mennitti nel 1994. La rivista, a cui collaborarono tra gli altri Antiseri, Buttafuoco, Del Debbio, Roccella, Quagliariello, Urbani, sembrò poter diventare un punto di riferimento per quelli che credevano che anche nel centrodestra fosse possibile l’esistenza di una “politica delle idee”, destinati a rimanere ben presto delusi dalla fine di quell’esperienza. Non ci vuole tanto per constatare che oggi, se non ci fosse il meritorio lavoro della Fondazione Magna Carta, del Centro Studi Livatino e di altre iniziative (senza far torto a nessuno cito come esempio fattivo Nazione Futura e Centro Machiavelli) che fiancheggiano, ma non sono sussunte responsabilmente dai vertici politici, la desertificazione dell’area sarebbe completa.

Studioso severo, liberale a tutto tondo, cattolico discreto: in fin dei conti, se vogliamo dare una valutazione d’insieme, Vittorio Mathieu è stato un uomo di un’altra stagione, assolutamente fuori posto nel panorama degli slogan banalizzanti che oggi prevalgono dappertutto. Forse anche per questo era finito immeritatamente in una specie di cono d’ombra, anche a destra. 


(Articolo apparso sull'Occidentale del 2 ottobre 2020)




venerdì 11 settembre 2020

La Toscana è in bilico? Susanna Ceccardi a un passo dalla vittoria

Roberto D’Alimonte
sull’Huffington post ha descritto le elezioni regionali toscane come una linea Maginot per il PD. In effetti uno dopo l’altro i sondaggi autorizzano a pensare non solo che l’evento esplosivo possa accadere davvero, ma che sia addirittura probabile. È vero che i sondaggi, stando a una formidabile battuta attribuita a Simon Peres, sono come i profumi: li devi sì annusare, ma mai bere. Fatto sta che l’odore è buonissimo e il rischio che il 22 settembre la Toscana rossa si svegli cambiata di segno è molto alto. Anche il clima di entusiasmo cauto che si respira attorno agli eventi del centrodestra lo lascerebbe presagire. In ogni caso, al di là dei risultati finali, che presumibilmente saranno determinati da un pugno di voti, la linea Maginot è già stata sicuramente sfondata in più punti.
 

Non c’è soltanto il fatto che per il centrodestra è diventata reale la contendibilità della vittoria, che dai tempi del 40% di Altero Matteoli non si era mai più profilata.
Il mutamento profondo, quello già avvenuto, è testimoniato dalla qualità, dalla quantità e dal radicamento della nuova classe dirigente. Qualche sera fa il sindaco di Pisa Michele Conti ha schierato – per un dibattito serio, pacato e argomentato a sostegno della candidatura di Susanna Ceccardi – una bella rappresentanza di sindaci. La foto di gruppo dice più di mille sondaggi: la presenza di capoluoghi come Pisa, Siena, Massa, Pistoia (più Arezzo e Grosseto collegati) e centri strategici per grandezza o per interesse turistico come Montecatini, Piombino e Abetone è la prova che il centrodestra non è più marginale ed estraneo ai processi decisionali dei territori, ma ha tutti i titoli, politici e sociologici, per aspirare a governare l’insieme della regione.
 
La seconda grossa falla nella linea è rappresentata dalla campagna di Susanna Ceccardi, tutta incentrata su tematiche importanti e concrete: l’asse tirrenico incompiuto, i collegamenti interni fermi da decenni, la marginalità della Toscana periferica, l’elefantiasi dell’organizzazione delle tre grandi ASL, la necessità di rivitalizzare la rete di artigianato e di piccole imprese che sono il vanto di questa terra; ma anche l’ambiente e la gestione dei rifiuti, dove la sinistra paga le sue divisioni e non è riuscita a programmare una rete di termo valorizzatori di nuova generazione, condannando il territorio alla crescita delle discariche. Nella narrazione della “leonessa” non mancano certo i richiami alla storia, all’identità e ai valori concreti della tradizione. 
 
Ne abbiamo avuto un esempio nelle parole pronunziate al meeting di Toscana Civica per il Cambiamento, la quarta lista a suo sostegno, tenutosi non a caso in un borgo bellissimo al centro della Toscana, Casole d’Elsa: qui è sembrato che aleggiasse la sottoscrizione di un patto tra le radici di una regione unica al mondo – profondamente conficcate nella storia – e i bisogni sempre più impellenti di territori trascurati e “periferizzati” dalle politiche degli ultimi decenni. 

La maturità di questa campagna è stata sottolineata in un articolo molto accurato di David Allegranti sul Foglio del 20 agosto, dal titolo “Toscana anno zero”. La sintesi l’aveva fatta in un post su Facebook di due giorni prima: “In questi giorni sto seguendo la campagna elettorale in Toscana. La leghista Susanna Ceccardi non è Lucia Borgonzoni e Matteo Salvini non si è sostituto alla candidata come in Emilia-Romagna. Ceccardi parla di temi. Trasporti, infrastrutture. Il centrosinistra sta cazzeggiando”. Già, perché anche questa è una chiave, il segno sicuro di una terza falla: a una campagna tutta cose e fatti la sinistra sta rispondendo con i riflessi condizionati dell’emergenza antifascista e del pericolo del ribaltamento di un modello di organismo sociale che – replica Ceccardi – non è frutto delle politiche della sinistra, ma del carattere, dell’ingegno e della intraprendenza dei toscani. Viceversa, la sinistra lo ha per lo più mortificato con politiche centraliste e ostili all’impresa.

 Al di fuori dell’emergenza antifascista non si vedono grandi repliche. Anzi, dopo un primo dibattito in cui il candidato del PD Eugenio Giani a giudizio quasi unanime risultò perdente, i successivi faccia a faccia sono stati accuratamente evitati. Ma in compenso sono arrivate le Sardine che in una piazza di Cascina (l’epicentro del terremoto Ceccardi, il comune dove la “ragazzetta” si conquistò i galloni di sindaco a meno di 30 anni) si dispongono a recitare il copione un po’ stanco dell’antileghismo preconcetto.

I toscani si lasceranno convincere che il problema della regione non sono i trasporti, le infrastrutture, i termovalorizzatori, la lontananza dei presidi sanitari dalle zone periferiche dell’interno, ma cose ridicole come il tormentone sulla purezza antifascista di una bella azienda casearia del Pisano visitata dalla candidata presidente accompagnata da Salvini? È possibile, ma forse (sperabilmente) improbabile.
 

 


(Articolo apparso sull'Occidentale del 10-9-20col titolo In Toscana Susanna Ceccardi vede il traguardo, Pd al capolinea?)

sabato 1 agosto 2020

In Valcomino il passato si nasconde tra gli ulivi

La Valcomino non è il centro del mondo: ne abbiamo preso atto perfino noi della tribus cominensis, smodatamente attaccati ai nostri paesi, tutti più o meno in declino. Ma di sicuro è un crocevia importante tra Lazio, Abruzzo, Molise e Campania, se vogliamo una specie di Terra di mezzo. Si vede nella lingua, nelle abitudini alimentari, negli scambi commerciali e soprattutto nei pellegrinaggi, dalla Madonna di Canneto, frequentata dai devoti di quattro regioni, allo straordinario legame di Scanno col santuario di San Gerardo a Gallinaro e l'Acqua Santa di Santa Felicita a Pietrafitta, su cui in questo blog abbiamo riportato un bel contributo di Aldo Venturini.
Dappertutto nella valle ci si imbatte in memorie ancora ben visibili, ma molte altre si possono leggere solo in filigrana, e guardando con attenzione sotto lo strato più superficiale, quello della modernità novecentesca: sono le memorie che riemergono grazie ai nomi dei luoghi, agli avanzi dei muri, alle carte degli archivi.

A me capita spesso di percorrere (e una volta ci ho pure rimediato l’unico morso di cane pastore della mia vita) il territorio compreso tra Settefrati e San Donato, tutto dominato dalla presenza dell'ulivo, e in particolare della sua varietà Marina, una rara cultivar da cui si ricava un olio di grande pregio, “pizzicoso” e sapido. Da qualche decennio una strada asfaltata, molto comoda per le attività agricole, unisce con poco dislivello i due paesi, rendendo superflua la canonica discesa al bivio di Vico, nel fondo valle. Oltre alle auto e ai mezzi agricoli la percorrono anche camminatori e runner, a gruppetti o, più spesso, in solitaria. Di notte non è raro imbattersi in cinghiali, istrici e perfino grossi cervi, che magari si arrestano stupefatti davanti ai fari accesi. Più raramente, ma al mattino presto, è dato incontrare addirittura l’orso marsicano, che nella tarda stagione estiva si aggira in cerca di frutta e accumula grasso preparandosi al letargo.
Diciamo che qui  è già tutto molto bello e sicuramente fruibile in ogni stagione.

Ma in pochi sanno che più su, a qualche centinaio di metri dalla strada asfaltata, sta come in letargo lo strato profondo dei lunghi secoli e della lunga durata, incentrato sul percorso  della “via antica”, quella che attraverso Marzara e Santa Croce andava da Settefrati a San Donato. Ora è praticamente abbandonata e a tratti ostruita dai rovi e da altri cespugli, mentre i bellissimi muri a secco mostrano qua e là rigonfiamenti (popolarmente si dice che "le macere figliano")  e spesso hanno anche ceduto, danneggiando la sede stradale.


È un vero peccato, non solo perché, bordata di querce com'è, sarebbe sicuramente più confortevole per i camminatori che patiscono sull’asfalto arroventato, ma anche perché per secoli è stata una via di comunicazione di discreta importanza nel reticolo viario che dal nord della Val di Comino raggiungeva il valico di Forca d'Acero e la Valle del Sangro attraverso la via Marsicana.
La via era segnata dalla presenza di due monasteri: di uno, San Paolo, rimane solo il nome della località, mentre dell’altro, Santa Croce, sopravvivono anche i resti della chiesa e di un edificio adiacente, ora adibito a stalla. L'ospedale (portarile) di San Paolo è documentato fin dal 1012 come il più antico dell'intera diocesi di Sora: nella donazione di Oderisio, conte dei Marsi, all'abate di Montecassino è indicato già come portarile vetere (da notare l'esistenza del toponimo Portarino proprio nella zona di San Paolo). La "Casa di Santa Croce" è menzionata, per una donazione, in un documento del 1032 (il più antico atto notarile rogato a Settefrati) ed è attestata come “ospedale” per pellegrini e viandanti dalla prima metà XIV secolo (1). Ancora nel 1632 la ricorda il Castrucci nella sua Descrizione del Ducato di Alvito, notando che il monastero era andato in ruvina, ma la chiesa era ancora integra. D’altronde a memoria di racconti orali possiamo affermare che probabilmente la chiesa era occasionalmente officiata non più tardi di un secolo fa.


Oggi le condizioni dei resti della chiesa e di tutto il reticolo viario sono disastrose, ma la questione sembra non interessare né alle autorità di tutela, né ai privati che ne sono proprietari, e evidentemente neppure tantissimo agli abitanti del paese. I resti di Santa Croce, di anno in anno sempre più malridotta, sono avvinti dai potenti abbracci dell'edera, amante insidiosa, come si sa, e ormai ci prende anche il dubbio che disboscando e tagliando potrebbe venire tutta giù in un'immane rovina scarupata.

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In definitiva in un'area di pochi chilometri quadrati  è archiviata la storia più remota del triangolo San Donato-Settefrati-Pietrafitta,  dal momento che proprio nei paraggi di Santa Croce viene ad intersecarsi un'altra strada importante (lo dimostrano la larghezza e i resti di lastricato) che sale da Pietrafitta. Nella zona  denominata significativamente Cappella sorgeva la chiesa di San Giorgio, menzionata fin dal 977 (2).

Purtroppo anche questo racconto suggestivo di vie, di chiese e di fonti dai nomi evocativi sembra la puntata di una serie a finale fisso, la conferma di un rapporto difficile tra il paese e i suoi pochi monumenti storici. La chiesa della Madonna delle Grazie che fu salvata in extremis  dopo decenni di incuria e di danni irreversibili: rovina dei cassettoni interni e danneggiamento dell’affresco del Giudizio Universale, sottrazione di quadri e perfino della statua della Vergine sull’altare principale. La torre medievale smezzata dopo il terremoto del 1915, a cui era sopravvissuta, poi ricostruita in parte e inaugurata qualche anno fa e mai più aperta alle visite. Il tempio di Mefiti trovato a Canneto in località Capodacqua nel 1958 e subito abbuiato, pare per gli interessi idrici concorrenti sul sito.
Dei beni archivistici e librari - le cui carte talora hanno alimentato qualche camino durante i lunghi inverni -preferisco proprio non parlare, sopraffatto dai macigni forse secolari di irresponsabilità e di trascuratezza.
Ce n'è abbastanza per rinunciare alla parte dei grilli parlanti e accettare di calare le braccia e piegare le ginocchia?

Ho approfondito la localizzazione dei siti e delle strade grazie a utilissime conversazioni "al volo" con don Dionigi Antonelli, Peppina Morga, Graziella Colarossi e, ovviamente, Aldo Venturini, che a suo tempo ha ispezionato e documentato fotograficamente la Fonte di San Giorgio. 
La carta topografica è tratta dal volume sugli ospedali parrocchiali di D.Antonelli (vedi nota 1)

(1) Sui due monasteri-ospedali si trova un'ampia documentazione nelle pubblicazioni di Dionigi Antonelli, in particolare nell'opera Gi ospedali delle parrocchie e degli ordini religiosi...dal sec.XI al sec.XIX, Sora, 2009, alle pagine 391-414.
(2) Per la localizzazione di San Giorgio e per tutta la vicenda dell'incastellamento di Settefrati si deve fare riferimento al volume Settefrati nel Medioevo  di Val Comino, di Dionigi Antonelli, Castelliri 1994.

English Abstract

Along the old pedestrian road that from Settefrati led to San Donato in the Middle Ages there were two monasteries / hospitals (Santa Croce and San Paolo) of which only remains of buidings and archive documents exist today. At the crossroads of Santa Croce it intersected with the road coming from Pietrafitta and directed to Abruzzo through the pass of Forca d’Acero (via Marsicana). In the neighborhood (Cappella area) there was also the little church of San Giorgio, the oldest documented in Settefrati. The whole area is rich in fine olive groves, mainly of ‘Marina’ quality.

Résumé français


Le long de l'ancienne route piétonne qui de Settefrati conduisait à San Donato au Moyen Âge, il y avait deux monastères / hôpitaux (Santa Croce et San Paolo) dont seuls les vestiges de bâtiments et de documents d'archives existent aujourd'hui. Au carrefour de Santa Croce, elle croise la route venant de Pietrafitta et se dirige vers les Abruzzes par le col de Forca d’Acero (via Marsicana). Dans le quartier (zone de Cappella), il y avait aussi la petite église de San Giorgio, la plus ancienne documentée à Settefrati. Toute la région est riche en oliveraies fines, principalement de qualité «Marina».