Esce in questi giorni un libro di Enrico Testa - docente
di storia della lingua italiana nell'Università di Genova - che ripercorre la storia
dell’italiano “nascosto”, ossia della lingua di comunicazione usata in tutta
Italia tra il Cinquecento e l’inizio del Novecento, prima della scolarizzazione
spinta e della grande diffusione della conoscenza del nuovo italiano comune
tramite la radio e la televisione.
E’ un libro che ci può aiutare a
riflettere ancora sul racconto dominante della storia d’Italia e
contribuire a rivedere qualche idea consolidata.
E’ risaputo - o meglio, abbastanza
risaputo- che la storia dell'unità d'Italia è stata gravata da una lunga serie
di luoghi comuni, e che una certa parte di essi è dovuta alla confusione fra
unificazione dello stato, che si è determinata in seguito al Risorgimento, e
esistenza della nazione italiana, con le sue caratteristiche secolarmente
depositate.
In occasione del 150. anniversario
dell’unità, ma anche nei decenni precedenti, la confusione è stata in parte
chiarita: le iniziative di taglio “nostalgico”, decisamente
anti-risorgimentale, o anche solo “revisionistico”, hanno fatto percepire a un
pubblico più largo quello che gli storici di professione sanno da un bel po', e
cioè che la nazione italiana esisteva prima dell’unità statale.
Anch'io in questo blog avevo fatto qualche
osservazione sul fatto
che parlando di Italia bisogna risalire- ma davvero e non come artificio
retorico - almeno all'organizzazione voluta dall'imperatore Augusto, vero e e proprio pater patriae
Italiae. E non si trattò solo di organizzazione, ma anche di
"ideologia": è nel contesto politico dell'impero di Augusto che
matura tutto l'epos virgiliano delle
origini di Roma, con la contestuale celebrazione dell'Italia, l'umile Italia di
Camilla, di cui parla Dante.
D'altronde l'idea di Italia come
nazione unica dentro confini che poi grosso modo sono quelli augustei, era
chiarissima a Dante, che la incardinava sia nella dimensione geografica che in
quella linguistica, e poi via via a tutti quegli autori di cui a scuola ci
hanno insegnato lamenti e aspirazioni (per dirne solo due che credo siano
toccati a tutti, Petrarca e Leopardi). Ma fin qui stiamo parlando di scrittori,
poeti, intellettuali. La vulgata dice che viceversa prima dell'unità statuale
la gran massa era estranea ad ogni idea di italianità, come appartenenza
culturale, come identità sociologica, come strumentazione linguistica.
E però, man mano che gli studi si fanno
più analitici e circostanziati, si scoprono aspetti impensati, che
rovesciano alcune vecchie certezze: per esempio gli studi di storia militare
hanno evidenziato che nell'Italia degli stati pre-unitari esisteva una robusta
attività di “uomini in arme” - e non solo di pochi condottieri di rango
internazionale, come si è sempre saputo - ma di una vera e propria rete diffusa
di migliaia di "ufficiali" intermedi, che all'estero erano
considerati come “italiani” e così inquadrati ad esempio negli eserciti
imperiali, da qualunque stato provenissero. Virgilio Ilari, che ha dedicato molti
studi a questo argomento, ha parlato di “virtù militare degli italiani”, contro
un antico pregiudizio che va “da Erasmo da Rotterdam al film Mediterraneo” e Eleonora Lollini ha intitolato "Il genio
bellicoso degli Italiani" una tesi di laurea
specialistica molto circostanziata sulla consistenza e sull'organizzazione dei
militari italiani negli stati preunitari.
Insomma la narrazione dell'Italia pre-unitaria
si sta facendo sempre più complessa e la frase attribuita al marchese d’Azeglio
morente (l’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani) che abbiamo più o meno tutti appreso sui banchi delle elementari e che tanto ha pesato
sulla nostra rappresentazione della vicenda storico-politica nazionale, si è un
po' dissolta alla luce della doppia constatazione che l’Italia c'era già prima
che fosse uno stato unitario, e che gli italiani non fossero esattamente un
popolo da “fare” con forzose pedagogie rieducative e protesi ortopediche, per
usare l'acuta formulazione di Giovanni Orsina
nel volume sul berlusconismo e sul suo legame con la contrapposizione
irrisolta fra élite e popolo nella storia d'Italia.
Anche per quanto riguarda la lingua - e
torniamo al libro di Testa - il racconto standard comprende un
capitolo arcinoto. Lo schema, semplificato al massimo, è questo: prima
dell’unità la padronanza della lingua italiana era patrimonio di poche élite
colte, mentre la stragrande maggioranza era confinata in una dialettalità
incapace di comunicare non solo da una regione all'altra, ma al limite anche da
una vallata all'altra.
Questo schema tutto in bianco e nero non è
totalmente falso, ma si sta via via arricchendo di tante sfumature di grigio.
Da tempo gli storici della lingua hanno prestato attenzione alle situazioni
intermedie, che sono molte. E oggi, anche grazie al libro di
Testa, sappiamo meglio che è sempre esistita una lingua italiana
comune, indubbiamente ricca di varietà locali e di incertezze
grammaticali, ma senz'altro in grado di estendere la comprensione vicendevole
ben oltre la sfera dialettale. Questa lingua non era usata solo dall'alto verso
il basso, cioè dai colti per farsi capire dagli incolti, ma anche viceversa:
esiste una buona documentazione scritta, che lascia ragionevolmente pensare che
in certe situazioni i parlanti più modesti la usassero anche nelle espressioni
orali. Ci sono testimonianze certe che servisse diffusamente anche per
rivolgersi ai viaggiatori stranieri. Addirittura una lingua franca italiana è
stata utilizzata a lungo in tutto il Mediterraneo per comunicare fra l’area
turco-araba e quella europea, romanza, germanica e slava.
Il libro mostra come nella costruzione di
questo italiano “basico” sia stato rilevante il ruolo della giustizia, della
burocrazia e delle attività legate alla sfera religiosa.
Non si tratta certamente di una scoperta
totale, quanto piuttosto di un riesame attento di una realtà che era stata
nascosta nello schema semplificato élite/lingua contro
popolo/dialetto.
Basta rileggere le considerazioni - che
potrebbero parere strabilianti se rimanessimo troppo ancorati allo schema
bipolare lingua/dialetto- di Ludovico Antonio Muratori, che nel 1706 si sofferma "sul comune parlare italiano, da Torino sino a
Napoli, in ogni provincia, città e luogo d’Italia inteso ancor dalle genti più
idiote” che“ è uno solo per tutta l’Italia”. Ancora Ugo Foscolo sottolinea
l’esistenza di una lingua comune, un po’ letteraria, ma in qualche modo plebea,
“con la quale gli abitatori di una provincia intendevano quei dell’altra”.
Nella vita religiosa un aspetto credo
sconosciuto al grande pubblico riguarda le esperienze spirituali e mistiche dei
conventi femminili, che venivano comunicate e trascritte proprio in italiano
popolare comune. Un esempio di straordinario interesse di questo tipo di
letteratura è l’Autobiografia della terziaria domenicana Caterina Paluzzi , la
"mistica contadina" di Morlupo.
Più facilmente immaginabile anche dai non
addetti ai lavori è il ruolo di primo piano che occupano gli scritti contenenti
istruzioni ai predicatori, soprattutto in seguito al Concilio di Trento. Nell’Arte
di predicar bene del 1611 il teatino Paolo Aresi raccomanda ad
esempio di non usare la nativa lingua (ossia il dialetto) e il fiorentino,
considerato troppo colto, ma di attenersi a un linguaggio mediano comprensibile
anche agli incolti, ed espressamente individua come soluzione migliore
“favellar il predicatore con la lingua italiana comune”, ossia quella che
privata delle condizioni particolari dei singoli luoghi “se ne rimarrà col nome
d’italiana”.
Impossibile parlare di questo intenso
rapporto fra “scrittori e popolo” nella sfera religiosa senza fare almeno un
accenno alla figura di Sant’Alfonso de’ Liguori
-a cui Testa dedica molta attenzione- instancabile organizzatore di pietà
popolare, autore di testi italiani universalmente conosciuti come Tu scendi
dalle stelle e di tutto un ricchissimo repertorio di canzoncine devote che
hanno accompagnato la pratica religiosa italiana praticamente fino a oggi.
Il filo di questa vicenda, magari troppo
specialistica per molti, ma forse anche appassionante per qualcuno, è la
riprova di come sia faticosa la ricostruzione del passato e di come in generale
il racconto della storia sia fatto anche di aggiustamenti e di salutari
revisioni: come ci ricorda Enrico Testa, citando un lavoro di Francesco Bruni,
"sul piano strettamente linguistico non si tratta di “sostituire all'idea
dell’italiano lingua morta l’immagine, altrettanto illusoria, di un’italofonia
già trionfante: tra il nero e il bianco, temo che sia il grigio il tono
dominante della realtà, anche linguistica” .... e “la drastica polarizzazione
di dialetto arcaico e italiano comune conosceva già allora molti registri
intermedi, come risulta del resto da un accostamento non pregiudizialmente
intonato all'idea di una tenebra assoluta che dominerebbe l’Italia preunitaria,
eccezion fatta per un’esile strato di dirigenti e di letterati più o meno
perduti dietro bambineggiamenti arcaici: a questo quadro di maniera... va
sostituita un’immagine più articolata”.
Insomma, citando un po' a memoria un
aforisma di Nicola Gomez Davila,
nella storia - e aggiungerei, con qualche approssimazione, anche nella vita-
tutto quello che non è complesso è falso.
Nota: il 3 febbraio sul Sole24ore il volume di Testa è stato recensito da Giuseppe Antonelli
Nota: il 3 febbraio sul Sole24ore il volume di Testa è stato recensito da Giuseppe Antonelli