La notizia in sé magari non è di quelle che manda le agenzie in fibrillazione, ma il quasi generale silenzio stampa che la avvolge francamente è un po’ sospetto. Se si eccettuano Left e il Manifesto, nessuno sembra essersi accorto che venerdì 27 maggio si sono dimessi quattro componenti importanti del Comitato tecnico scientifico nazionale per le biblioteche: Mauro Guerrini, ordinario di biblioteconomia a Firenze, Luca Bellingeri, direttore della Biblioteca nazionale di Firenze, Paolo Matthiae, archeologo orientalista tra i maggiori in Italia (è considerato, tra l’altro, lo scopritore di Ebla) e Gino Roncaglia, docente all’Università della Tuscia, forse il maggiore esperto italiano di informatica e new media nel settore dell’editoria e delle biblioteche.
Quasi in contemporanea Giovanni Solimine, ordinario in Sapienza e autore di numerosi saggi sulla situazione della lettura in Italia, si è dimesso dal Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici. Sommessamente e tra parentesi: se un gesto così clamoroso fosse stato compiuto durante la gestione del MIBACT di Urbani o di Biondi, come minimo un paio di girotondi ci sarebbero stati, e i giornali ora silenti avrebbero doviziosamente stigmatizzato l’ignoranza della classe dirigente di centrodestra. Ma tant’è, lo ricordiamo fuggevolmente per i posteri e entriamo un po’ nel merito.
All’origine della decisione dei cinque esperti c’è un radicale dissenso verso la politica del MIBACT nei riguardi delle istituzioni bibliotecarie del paese, sia per il provvedimento che ha disposto un improbabile accorpamento della tutela dei beni librari nelle sovrintendenze archivistiche, dimostrando palesemente una visione arretrata, centralistica e burocratica della tutela, sia – e questa è la goccia che ha fatto traboccare il vaso – per la beffa dei numeri nel reclutamento di professionisti bibliotecari.
In un settore in cui le grandi istituzioni librarie, come le Nazionali di Firenze e Roma, soffrono da anni di una cronica carenza di ricambio; in cui un ente come l’ICCU (Istituto centrale per il catalogo unico) – che per anni ha guidato la strategia di lungo periodo nell’informatizzazione del patrimonio librario italiano, attivando quelServizio bibliotecario nazionale (SBN) che, sia pure tra luci e ombre, costituisce un esempio virtuoso anche all’estero – oggi è ridotto a poche unità di personale, spesso non professionalizzate; insomma in un contesto veramente molto critico il bando delMIBACT che doveva – c’è bisogno di dirlo? – “cambiare verso” anche alle biblioteche, ha previsto l’assunzione di 25 professionisti bibliotecari su 500 totali.
Questo il merito, che smentisce clamorosamente tutta la narrazione renziana (ma non solo) della cultura come “tesoro” da valorizzare: si tratta di istituzioni librarie, si sa e si dice che dovrebbero svolgere un compito fondamentale per la conservazione e la trasmissione delpatrimonio culturale della nazione (e lo fanno in condizioni ormai proibitive), ma evidentemente non si prestano tanto all’hashtag facile o al tweet di tendenza come altri manufatti culturali più visibili e mostrabili.
Qui si vede con chiarezza come la cifra fondamentale del renzismo sia la comunicazione a effetto, un giorno dietro l’altro, con un contestuale disinteresse per le attività di “lunga durata” che non comportino echi mediatici immediati. Certo, questo è un antico vizio (o limite) della politica, che vive di consenso, di apparenza e di voti, ma le modalità operative e comunicative di Matteo Renzi stanno portando questo limite al parossismo. E questa è la prima lezione della vicenda.
La seconda lezione è un po’ tra le pieghe, ma forse è ancor più interessante: nel comunicato di Giovanni Solimine si legge: “Da tempo avvertivamo un certo disagio, dovuto al fatto che agli organi consultivi del Ministero non è stata data l'occasione per esprimersi sulle scelte di fondo e sulle principali questioni che nel recente passato hanno toccato il settore delle biblioteche”.
Anche qui, è vizio antico della politica nominare esperti di cui fare un po’ un uso “vetrina”, ma nel meraviglioso mondo di Renzi e dei suoi ministri sta crescendo sempre più l’abitudine a non far discutere nessuno, a decidere tutto nelle cerchie di un qualche “giglio magico”, per poi dare mandato agli ex decisori di eseguire: i parlamentari col ricatto della fiducia votano leggi in blocco, senza nemmeno discutere gli emendamenti, e gli esperti non sono ascoltati neppure proforma negli argomenti per cui sarebbero stati nominati.
Nell’insieme assistiamo alla realizzazione di un progetto apparentemente “decisionista”, ma sostanzialmente volto a eliminare ogni livello intermedio, ogni momento di riflessione e di confronto ordinario, per sostituirli con ricette precucinate in riva all’Arno e annunciate ogni volta con grande enfasi come l’inizio della palingenesi d’Italia. Si tratta di un metodo spregiudicato e arrembante, riscontrabile ormai anche negli episodi “minori”, che ci deve far tenere alta la guardia sul progetto di concentrazione di potere che si sta preparando mediante la combinazione perversa tra legge elettorale e riforma costituzionale.
(pubblicato su L'Occidentale del 31 maggio 2016)