Da due secoli le categorie destra e sinistra
sono la chiave di lettura più importante della politica e, benché la linea di
divisione in 200 anni non sia rimasta sempre immobile, nel complesso ancora
godono di buona salute nella mentalità, nella sociologia e quindi nella scienza
politica.
Ogni
tanto ne viene annunciato il superamento, sull'onda di fatti che magari
dovrebbero essere guardati in modo più approfondito.
Partiamo dalla Francia, sempre in qualche misura paradigmatica per molte delle le nostre interpretazioni della lotta politica, almeno dalla Rivoluzione dell'89 in poi.
La
vittoria di Macron nelle
presidenziali francesi, è stata letta da più parti con questo
schema; e però non si è tenuto conto a sufficienza di alcuni elementi non
proprio secondari. E’ verissimo che il
profilo di Macron non è riconducibile alle destre e alle sinistre classiche tradizionalmente presenti nel panorama politico francese:
questa voluta – potremmo dire anche costruita -
indeterminazione gli ha giovato enormemente, nel momento in cui da un
lato una serie di eventi sfavorevoli ha colpito la candidatura Fillon, e
dall'altro la candidatura Le Pen, nonostante la forte crescita di consenso, al
secondo turno non è riuscita a sfondare nel serbatoio della destra gollista. Semplificando,
più che a un reale superamento “ideologico” della divisione destra/sinistra, la
sua vittoria è dovuta in primo luogo all’irriducibilità
delle due destre francesi, separate traumaticamente non solo dalle scelte
compiute durante la Resistenza, ma ancora di più dalla vicenda dell’Algeria e
dai postumi della lotta dell’OAS e del revanchismo pieds-noir contro il generale De Gaulle. A questo dato
storico-ideologico si sono sicuramente aggiunti altri elementi fattuali, come
la diffidenza del ceto medio moderato verso la radicalizzazione no-euro oppure
la relativa freddezza della Le Pen -e soprattutto del suo vice Philippot- verso i temi cari ai cattolici conservatori:
non si dimentichi che il nerbo della organizzazione di Fillon, quella che lo
aveva spinto fortemente nelle primarie, era costituito da militanti vicini alla
Manif pour tous.
C’è
poi un secondo e importante elemento di natura squisitamente ideologica e
politica che è andato a vantaggio di Macron: il fatto che in Francia una profondissima
linea di faglia ancora divide la destra
dalla sinistra: nonostante che la cultura politica francese sia forse
quella storicamente più incline al mescolamento, nonostante una lunga vicenda
di intrecci e suggestioni anche forti (basta ricordare la linea che unisce
Boulanger e Barrès, fino a Drieu La Rochelle e al “fascismo immenso e rosso” di
Brasillach[1] ), la
persistenza della linea divisoria nella mentalità e nella sociologia di fatto
ha ostacolato la ricongiunzione di antieuropeismo e antiglobalismo di destra e
di sinistra, che in termini numerici sarebbe stata assai probabilmente
maggioritaria.
Se
dalla Francia, in cui il terreno della contaminazione pure è notoriamente
fecondo, ci spostiamo verso altri paesi, che non hanno conosciuto il
nazionalismo giacobino e il suo afflato quasi fisico verso la Patrie, la linea di demarcazione appare
ancora più chiara.
Infatti
i paesi che hanno ereditato la “libertà degli inglesi” sono caratterizzati da
una divisione destra/sinistra ancora più radicata: la linea non è certo immobile,
ma è sempre riconoscibile.
Così
capita in Gran Bretagna -dove la lotta politica tra conservatori e laburisti è
sempre centrale e solo occasionalmente dà spazio a “terze vie”, come si vede
anche oggi nella competizione tra May e Corbyn; negli Stati Uniti all’interno
del Partito Repubblicano, nonostante le peculiarità del fenomeno Trump, la
destra della right nation è stata
sempre presente in varie gradazioni, fino a diventare emblematica con Goldwater
e poi maggioritaria ed egemone da Reagan in poi.
Ma
la chiarezza della linea è ben visibile soprattutto nei paesi “minori” dell’Anglosfera, le cui vicende politiche al
dettaglio abitualmente non attirano l’attenzione dei nostri media: Australia,
Nuova Zelanda, Canada.
Non
so se altri osservatori, oltre a Marco Faraci su Strade,
hanno notato che pochi giorni fa, il 27 maggio, al termine di un lungo processo
di “primarie” ad eliminazione, dopo 13 ballottaggi, Andrew Scheer, di 38 anni, è stato incoronato leader del Partito
Conservatore. Gli aspiranti erano tanti, con profili più o meno liberisti, più
o meno aperti sul tema dei nuovi diritti, ma alla fine di un percorso durato
quasi un anno ha prevalso la linea di Scheer, conservatore sui temi etici e
sociali e liberale in economia, sconfiggendo l’ultraliberista Bernier, piuttosto
libertario sui temi etici, mentre la candidata più “trumpiana”, Kellie Leitch, è rimasta molto al di sotto delle
aspettative.
Nell’accettare la nomina Scheer ha ribadito che il partito
conservatore sarà sempre il “partito della prosperità e non
dell’invidia”, il “partito dei contribuenti e non degli insider” e ha ribadito
come fondamento dell’azione politica il concetto che la società viene prima dello Stato; ha promesso di intervenire sulle università che impediscono il
dibattito e di operare contro la censura del “politicamente
corretto”.
Come conclusione mi pare di non poterne fare una
migliore di quella di Marco Faraci: “Contrariamente a chi ritiene che ormai la
politica ruoti attorno ad altre polarità e che quindi serva farsi bastare anche
dei Trudeau, dei Macron e, ça va sans
dire, dei Renzi, i risultati economici ottenuti negli ultimi anni
dai paesi anglofoni dimostrano che l’unica ricetta politica in grado di
produrre crescita di lungo periodo e non solamente di gestire il declino è
quella della “destra liberista” classica. Altro che “third way” o
“liberalsocialismo”. Back to the
basics: qui servono dei Reagan e delle Thatcher e in certi paesi,
per fortuna, ancora se ne trovano”
(Articolo apparso sull' Occidentale del 5 giugno, con lievi differenze e col titolo Canada: la nuova leadership dei conservatori insegna che destra e sinistra esistono ancora)
[1]“I bimbi che un giorno saranno ragazzi di 20
anni apprenderanno con oscura meraviglia dell’esistenza di questa esaltazione
di milioni di uomini, i campeggi della gioventù, la gloria del passato, le
sfilate, le cattedrali di luce, gli eroi caduti in combattimento, l’amicizia
tra i giovani di tutte le nazioni rinate. Josè Antonio, il fascismo immenso e
rosso. E io so che il comunismo ha, anch’esso, una sua grandezza del pari
esaltante. Può addirittura essere che, tra mille anni, si confondano le due
rivoluzioni del XX secolo”. (Robert Brasillach, Lettera a un soldato della classe
’40). La suggestiva espressione di Brasillach fu usata come titolo di un
famoso libro di Giano Accame, deciso sostenitore di una versione italiana del
“fascismo di sinistra”.