L’addensamento di anniversari in rapida successione a volte ci confonde un po’ le idee, mescolando eventi eterogenei, svolte storiche, e poi singoli eventi su cui magari non c’è neppure piena luce documentale. Abbiamo superato - e non del tutto senza danni, se mettiamo nel conto finale un po’di riflessioni di qualche peso e una certa abbondanza di esaltazioni acritiche - il centenario della rivoluzione russa e del colpo di stato leninista del ‘17. Quest’anno tocca al cinquantenario di quel variegato insieme di pulsioni, eventi e idee che va sotto il nome di ’68. Per ora sembrano prevalere i toni apologetici, i rimpianti dei reduci e il bilancio delle aspettative, in parte deluse in parte realizzate, del “mondo nuovo” della libertà sessuale, della vanificazione dell’autorità parentale e scolastica, e in generale della spinta verso un società incentrata sui diritti e sulla felicità individuale. Per la verità questo aspetto importante, sintetizzabile come “rivoluzione liquida” dei costumi e delle mentalità (definita icasticamente anche “quarta rivoluzione”) (*1) ha suscitato anche la risposta dell’area politica e culturale conservatrice, propensa a vedervi una tappa decisiva del “Tramonto dell’Occidente”.
Purtroppo le posizioni critiche non sono state mediaticamente rilevanti, forse anche per una loro oggettiva debolezza argomentativa: per dirla in breve, oltre alla consolidata scarsissima praticabilità nei media del mainstream, al campo conservatore sono mancati i grossi calibri filosofici, quelli alla Augusto Del Noce per capirci, mentre è stata più ricca la riflessione storico-politica. E qui bisognerebbe aprire una riflessione sugli strumenti culturali che il mondo liberalconservatore dovrebbe mettere in campo o rafforzare, anche considerando la contingenza politico-culturale che la nostra società sta attraversando: discorso lungo (o vaste programme?), e palla immediatamente rilanciata nel campo dell’Occidentale, della Fondazione Magna Carta e della rete, consistente ma non ben collegata, di iniziative e attività culturali di area.
Ma gli anni ‘70 non furono caratterizzati solo dall’espansione della rivoluzione liquida. In contrasto col filone anarco-individualista - ma qualche volta all’interno o collateralmente ad organizzazioni che erano nate con un’impronta più libertaria- maturò un’esperienza neoleninista che postulava la necessità della lotta armata da parte dell’avanguardia rivoluzionaria, a causa del fallimento delle politiche riformiste e della contestuale crescita inarrestabile dello “stato imperialista delle multinazionali”. Si trattava di una riflessione teorica e organizzativa tutta all’interno della storia del comunismo e del comunismo italiano, comprensiva di un passaggio di testimone - ben rappresentato dal ruolo fondante di una figura come Alberto Franceschini con il suo background familiare e politico a Reggio Emilia - dagli ambienti del vecchio PCI e della Resistenza legati a Pietro Secchia, che avevano subito ma non metabolizzato la svolta togliattiana.
A questa connotazione di disputa in famiglia va aggiunto il solido legame che l’organizzazione armata ebbe con servizi e ambienti dell’Est comunista, probabilmente ostili alla strategia del compromesso storico berlingueriano, che era stata dedotta da una intelligente analisi del golpe cileno, collocandosi nel solco della lezione togliattiana sulla necessità di comprendere accuratamente i contesti storico-sociali, cercando le opportune alleanze, ed evitare colpi di testa insurrezionalistici: come dire, quasi un sequel del match Secchia/Togliatti. In un primo momento l’apparato propagandistico del PCI e della sinistra fiancheggiatrice tentò di tutelare il suo buon nome e attribuire la nascita dei gruppi armati ad una trama della provocazione reazionaria e ovviamente “amerikana”. L’uso dell’espressione “sedicenti Brigate Rosse” fu persistente e virale, almeno fino al famoso articolo di Rossana Rossanda che mise a nudo la realtà dell’“album di famiglia”.
Un recente anniversario puntuale ha fornito l’occasione di parlare delle vicende della lotta armata e dell’humus ideologico in cui maturò. E avrebbe fornito anche l’occasione per una riflessione di un certo respiro, che si spera non mancherà nelle prossime occasioni. Perché avrebbe? Vediamo. Il 16 marzo ricorreva il quarantesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro e dell’assassinio di 5 uomini di scorta ad opera delle Brigate Rosse, a cui seguì una lunga prigionia, con un processo farsesco, ma non per questo meno tragico, e finale assassinio, rappresentato come “esecuzione del prigioniero politico” nel linguaggio delirante dell’ideologia. C’è da premettere, doverosamente, che non tutto quello che accadde durante la prigionia di Moro è perfettamente chiaro e che, come è stato rilevato anche dal senatore Giovanardi, è ormai inaccettabile che ancora quegli eventi – e altri come ad esempio l’incidente di Ustica - siano coperti da segreti di Stato non comunicabili al pubblico.
Il 16 marzo Barbara Balzerani, esponente di primo piano delle BR e tra i protagonisti del rapimento di Aldo Moro, ospite del centro sociale CPA di Firenze, si è prodotta in una interpretazione pubblica della vicenda opponendola a quella di chi fa “il mestiere della vittima”. Le affermazioni della Balzerani hanno suscitato riprovazione e sconcerto, in primo luogo quello altissimo e indignato di Maria Fida Moro, hanno causato interrogazioni parlamentari e l’apertura di un fascicolo di indagine da parte della Procura della Repubblica di Firenze. Tutto secondo le regole, direi. Ma intanto scopriamo, o meglio riscopriamo, che ci sono ambienti più o meno consistenti in cui la “narrazione” della storia recente d’Italia è sostanzialmente quella delle Brigate Rosse, e questi ambienti si situano in quella galassia indefinita dove hanno casa certe sinistre alternative, militanti “antifà” estremi, centri sociali. Dallo stesso brodo di coltura provengono con tutta probabilità gli autori dell’oltraggio alla lapide che in via Fani ricorda l’assassinio degli uomini della scorta di Moro e delle scritte inneggianti all’assassinio di Marco Biagi a Modena.
Ma non è tutto. La 7, rete televisiva di grande rilievo nazionale, forse la più importante per l’informazione politica e di attualità, dedica al tema due puntate della trasmissione Atlantide, curata da Andrea Purgatori. La prima, di lunga durata, sui precedenti dal ‘68 in poi, la seconda, puntuale, sul rapimento di via Fani del 16 marzo 1978 fino all’assassinio di Moro e al ritrovamento del suo cadavere nel bagagliaio di una Renault il 9 maggio. La trasmissione ha ricevuto moltissime critiche perché, in sostanza, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Valerio Morucci e Mario Moretti, quattro leader del nucleo storico delle Brigate Rosse, tutti e quattro responsabili del delitto Moro, hanno potuto esporre le loro tesi senza contraddittorio, in uno status di apparente normalità, facendo passare come accettabili le analisi e i comportamenti del gruppo criminale. Una perla sofistica di uno dei protagonisti getta una luce su tutto il quadretto: le BR non erano un gruppo armato, erano un gruppo che faceva politica con le armi.
Tralascio - ma non perché meno importante, solo più complesso da scomporre articolatamente in tutte le sue sfumature - tutto il filone intermedio: sì furono le Brigate Rosse, ma per conto di altri (CIA, Destre ecc.). Alla fine della trasmissione una elencazione senza commenti delle attività benefiche in cui sono impegnati i reduci di quell’impresa li ha pure avvolti in un alone di bontà e di commovente altruismo. O almeno, questa è stata la mia impressione e anche quella dei più, a giudicare anche dai commenti sui social. Ovviamente anche in questo caso, che però è di rango e rilievo molto più alto dell’intervento di Balzerani in un centro sociale fiorentino, la trasmissione ha suscitato molte proteste, e da parte di persone di orientamento politico diverso.
Direi però che, per concludere la riflessione, bisogna fare un passo in più. Quello che rimane in ombra, e su cui ci dobbiamo porre domande politiche e culturali adeguate, è prima di tutto la consistenza della zona grigia di consenso(o semiconsenso, o almeno ammirata sospensione di giudizio) di cui quel mondo continua a beneficiare. Non è solo la mai sopita ideologia dei reduci, ma la simpatia o comprensione che le loro tesi hanno in un ambito più vasto, un universo sociale e mentale in cui il terrorista è sempre vittima di qualcosa a cui si ribella, magari con eccessi, l’assassinio è frutto di una trama oscura dei poteri forti, della CIA o della NATO. Un mondo dove anche la famosa equidistanza tra stato e BR si è pesantemente sbilanciata.
E’ come se certi episodi non fossero conclusi nel loro momentaneo fallimento, ma ci fosse un fiume carsico che, attraversando la storia della rivoluzione, ne conservasse in vita una modalità sempre possibile o almeno romanticamente vissuta come possibile. Senza complottismi e senza prefigurare congiurati incappucciati, fattualmente è come se ci fosse una scuola dei cattivi maestri che ha la missione di trasmettere attraverso le generazioni la praticabilità e il fascino di una modalità “hard” di perseguimento dell’utopia rivoluzionaria del mondo nuovo, quello dell’antica e prometeica tensione verso l’uguaglianza assoluta.
(Pubblicato su l'Occidentale del 27 marzo 2018)