Cinquanta anni fa "scoppiò" la rivoluzione del Sessantotto. Come tutti gli scoppi e gli eventi della storia considerati improvvisi - dalla cosiddetta caduta dell'Impero romano in poi - l'anno fatale in realtà fu preceduto da una discreta gestazione di idee, costumi, musiche, atmosfere e parole d'ordine, almeno a partire dal 1960.
E’ normale che oggi si
assista a tante rievocazioni e convegni, con un gran fiorire di tentativi di
lettura complessiva: quella data per molti segna simbolicamente uno spartiacque
tra il mondo delle norme dei padri e dei doveri e il mondo della libertà e delle
esigenze degli individui; salvo poi virare in parte verso l’estremismo
totalitario in abiti esotici, sudamericani o asiatici: ma questa è un’altra
storia ancora, che si interseca con la prima e ne va a determinare alcune
interpretazioni a posteriori.
Le letture del
Sessantotto sono per lo più di segno positivo, dal momento che l’onda lunga
della società basata sui diritti individuali sembra aver vinto
irreversibilmente, almeno nella nostra parte del mondo. E questo è considerato
da molti un bene assoluto, sia pure al netto di qualche recriminazione sulle
esagerazioni. Esistono letture di segno conservatore e anche decisamente
tradizionalista, e in sintesi potremmo dire che sono quelle che
mettono il segno negativo davanti agli stessi fatti, sottolineando il percorso
che dalle prime rivolte religiose del tardo medioevo porterebbe sequenzialmente
al tramonto dell’Occidente cristiano e comunitario e alla sua dissoluzione
nella modernità (e postmodernità) irreligiosa e individualistica. Si tratta,
come si sa, di due filosofie della storia che si fronteggiano in una guerra
plurisecolare.
In questa contesa sui
significati, più che legittima, si corre però il solito rischio che comporta
una visione della storia più come storia delle idee che come serie di eventi riguardanti
le persone concrete, il loro affetti, il loro modo di stare al mondo. Insomma,
si avverte un po’ la sensazione di essere sempre immersi in una specie di brodo
hegeliano, dove le idee contano più dei fatti, e gli schemi più delle
persone.
Se invece facciamo uno sforzo di memoria
e andiamo a rivedere le pulsioni e le suggestioni di quell'anno (e soprattutto
degli anni immediatamente precedenti) troviamo una diffusa voglia di libertà
individuale e di rifondazione autonoma dei valori, ma a fronte di una società
“dei padri” praticamente afasica e generalmente incapace di fornire il perché
delle sue norme e dei suoi divieti: questo è anche il 65-68 dei miei primi
ricordi di conflitti generazionali. Se non si fanno operazioni troppo
ideologiche non sarà difficile far riemergere lo stato comatoso di molte
agenzie deputate alla trasmissione dei valori -dalla Chiesa alla scuola, dalle
famiglie alle associazioni- la loro chiusura ad ogni interlocuzione che non
fosse la recriminazione sugli “sbandamenti dei giovani”. Direi insomma che la
molla principale e iniziale della rivolta giovanile fu psicologica: la ricerca
di libertà e di significato. Su ambedue i fronti il mondo dei padri non era
praticamente in grado di dare risposte.
Aggiungerei che inizialmente il cleavage non
fu affatto destra/sinistra: anzi, per quanto si trattasse di letture di
nicchia, esisteva una sensibilità individualistica “di destra” che percorreva
il mondo della rivolta beatnik, un po’ antimoderna, un po’ anarcoide, un po’
disgustata dalla mummificazione del mondo operata dal filisteismo borghese
(vogliamo parlare di Kerouac?)
Se poi facciamo un altro passo, diciamo geograficamente di lato, quello che ho tentato di descrivere diventa quasi di evidenza palmare.
Negli stessi mesi, nelle
capitali dell’Est le stesse generazioni, con la stessa aspirazione alla libertà
individuale e alla ri-comprensione dei valori, trovavano davanti a sé i “padri”
degli apparati ideologici comunisti, quei padri premurosi che si sarebbero
presto muniti di carri armati per arginare l’avventatezza anarcoide dei giovani.
Parlarne non significa
solo fare un’opera di restituzione di giustizia storica, o di anticomunismo
incorreggibile, ma capire meglio l’interezza del fenomeno Sessantotto.
Parlarne non dovrebbe
essere imbarazzante per nessuno, anche se certamente è un aspetto che mette un
po’ in crisi la linea Rivolta - Sessantotto - Comunismo
esotico -Totalitarismo - Terrorismo.
L'ineluttabilità di
questa linea è falsificata dall'esperienza dell’Est, in cui il
Sessantotto portò invece a una diffusa riscoperta dei valori di libertà e di
responsabilità: il ruolo di guide intellettuali assunto da figure come Patočka, Bělohradský e Havel, con tutto l’ambiente della Primavera di Praga, non è
separabile dal moto collettivo giovanile che si diffuse a Est e a Ovest della
cortina di ferro.
Un libro meritevole (Guido Crainz, Il
Sessantotto sequestrato: Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni.
Donzelli, 2018) ha spezzato le facililetture “a schema” e ha
mostrato come il fenomeno non fosse limitato alla Cecoslovacchia, ma
riguardasse anche la Polonia e la Jugoslavia. In questi luoghi l’esito del
Sessantotto non fu –come capitò almeno parzialmente da noi- una nuova utopia
comunista, esotica e ancor più oppressiva, ma la riscoperta della libertà
politica e dell’autonomia della società di fronte allo stato. E fu davvero la
spinta per una ri-comprensione dei valori in opposizione alla “lingua di legno” dei
padri.
Certamente da questa parte della cortina
non trovarono tanti tifosi. Per quale motivo – si domandano i curatori del
libro- “quegli studenti, quegli intellettuali, quei sostenitori di un ‘socialismo
dal volto umano non trovarono nei movimenti studenteschi dell’occidente quel
solidale sostegno che sarebbe stato necessario (né lo trovarono nei partiti
comunisti)?”.
Si pensi, per esempio, all'invasione della Cecoslovacchia. E “mentre i carri armati del Patto di Varsavia reprimevano brutalmente la Primavera di Praga, le stelle polari dei movimenti che protestavano nelle città italiane e francesi continuarono a essere i regimi comunisti di Cuba e Vietnam del nord, che quell'intervento sostennero a spada tratta. Nessuno si accorse, o volle accorgersi, di ciò che stava accadendo al di là della cortina di ferro, dove, da tempo, vari paesi erano attraversati da fermenti libertari che si preferì ignorare, se non, addirittura, condannare apertamente. La sordità del Partito comunista italiano fu pressoché totale, sino a diventare autentica complicità. Perfino ambienti della sinistra meno allineata, come quello che gravitava intorno alla rivista Quaderni Piacentini, non trovarono di meglio che accusare gli intellettuali che correvano gravi rischi tentando di alzare la voce contro l’oppressione comunista, di scimmiottare consunti modelli ideologici e politici dell’occidente. Crainz e gli altri autori svelano impietosamente la cecità dell’intellighenzia progressista e libertaria di casa nostra, che – dalle università alle case editrici – fu del tutto incapace di muovere un dito a favore di popoli vittime di dittature e repressioni. ”
Si pensi, per esempio, all'invasione della Cecoslovacchia. E “mentre i carri armati del Patto di Varsavia reprimevano brutalmente la Primavera di Praga, le stelle polari dei movimenti che protestavano nelle città italiane e francesi continuarono a essere i regimi comunisti di Cuba e Vietnam del nord, che quell'intervento sostennero a spada tratta. Nessuno si accorse, o volle accorgersi, di ciò che stava accadendo al di là della cortina di ferro, dove, da tempo, vari paesi erano attraversati da fermenti libertari che si preferì ignorare, se non, addirittura, condannare apertamente. La sordità del Partito comunista italiano fu pressoché totale, sino a diventare autentica complicità. Perfino ambienti della sinistra meno allineata, come quello che gravitava intorno alla rivista Quaderni Piacentini, non trovarono di meglio che accusare gli intellettuali che correvano gravi rischi tentando di alzare la voce contro l’oppressione comunista, di scimmiottare consunti modelli ideologici e politici dell’occidente. Crainz e gli altri autori svelano impietosamente la cecità dell’intellighenzia progressista e libertaria di casa nostra, che – dalle università alle case editrici – fu del tutto incapace di muovere un dito a favore di popoli vittime di dittature e repressioni. ”
E’ possibile almeno
oggi, a 50 anni di distanza, uscire dalla prigione degli opposti schematismi e
ridare un po’ voce alle ribellioni autentiche?
(Pubblicato sostanzialmente identico su L'Occidentale on line del 12 giugno 2018)