sabato 3 ottobre 2020

Risalire i tornanti, per arrivare al centro del mondo


Questo libro è nostro, mi sono detto appena cinque minuti dopo che lo avevo aperto. Nostro nel senso di quella tribù di disadattati di montagna, che alle radici non vorrebbe mai rinunciare, ma dignitosamente, con l’impegno a non avvolgerle nella melassa idilliaca del buon tempo che fu. Perché buonissimo non fu mai, se così in tanti dovettero andarsene per trovare lavoro, sicurezza e speranze per il futuro: “Chi mantiene un sempre più vago e sfilacciato legame con il paese di origine rende merito alla propria doverosa scelta di andarsene. Chi evoca con sguardo tradizionalista il passato lo arricchisce d’aura bio/romantica, naturalmente buona, di un tempo che fu senza essere mai stato. Nel tempo che fu era ben evidente che questa è una valle di lacrime, oltremodo coinvolgente”.


Giovanni Lindo Ferretti – sulle spalle il sacco della sua importante attività di musicista – è risalito nel suo paese di origine e si è messo a fare l’allevatore/pastore/contadino, il mestiere che i suoi antenati hanno praticato per secoli. Lo sfondo è quello tipico dell’Italia a sud del Po: “Una dorsale di montagne protese su un piccolo mare. Se…siete abitanti delle città, del piano, delle coste, prendetevi un giorno di libertà, non d’agosto né durante le festività ma un giorno qualunque meteorologicamente variabile, e risalite le montagne che comunque delimitano, incombenti o all’orizzonte, il vostro sguardo...Quando si comincia salire e i rettilinei lasciano spazi ai tornanti… è come oltrepassare una frontiera a cui segue lo spopolamento, la disintegrazione del tessuto geologico, sociale, umano”. E sì, perché il paese di Ferretti (Cerreto, in provincia di Reggio Emilia), è un archetipo che vale per il 90% dei paesi appenninici e potete chiamarlo tranquillamente col nome del vostro, se la sorte ve ne ha regalato uno nei meandri della biografia. Qua la stagione della normalità è quella di una casa aperta e dieci chiuse, in attesa del popolo dei weekend, più o meno numeroso (“se le previsioni meteo sono favorevoli”) o di quello agostano, quasi sempre abbondante. La stagione della normalità è quella della messa per cinque persone, e tre che si fumano insieme una sigaretta all’uscita, parlando del più e del meno. Insomma un mondo dove “si sta tra l’agonia e un trapasso già avvenuto ma non comunicato”. Al netto dei ricorrenti progetti di riqualificazione turistica e ambientale, a cui tutti auguriamo successo, ci mancherebbe, purché escano una buona volta dal limbo delle chiacchiere, dei magheggi e delle furbizie.

Alla fin fine le speranze concrete di Ferretti su una possibile inversione di tendenza sono a dir poco scarse: la sua è soprattutto una testimonianza di fedeltà radicata nell’impossibilità di vivere fuori dall’orizzonte della sua casa, della sua chiesa, del suo cimitero; e nella riscoperta delle radici cristiane e “romaniche” della civiltà dell’Appennino.
Abitiamo una linea di frontiera del tempo che era lo spazio di una civiltà. Le nostre piccole patrie. Facciamo argine all’abbandono puntellando qua e là le esigenze dell’abitare, inventando economie marginali, di sussistenza. Sopravvivere è già un risultato dignitoso, non scontato”.
E se pure noi della tribù appenninica dobbiamo sperare in qualcosa di più (e magari lavorare per ottenerlo) questo libro lo terremo sul tavolo di lavoro o sul comodino, ben in evidenza, per aprirlo ogni tanto, e farci raccontare del vecchio Fiore o di tradizioni viventi come la Perdonanza tra Cerreto e Sassalbo. Per respirare aria buona e mantenerci ancorati al principio di realtà, senza troppe fughe sulle mongolfiere dei sogni impossibili.

In margine a Non invano, di Giovanni Lindo Ferretti. Milano, Mondadori, 2020. 114 pagine.

 

(Articolo apparso il 1 ottobre sul blog Contrappunto)


Mathieu, quell’intellettuale dimenticato (anche a destra)

 


Quando la notizia della morte di Vittorio Mathieu è arrivata nelle redazioni dei giornali e delle TV, non è difficile immaginare la fatica per mettere a fuoco il personaggio e le ragioni della sua rilevanza in cronaca. Ma oggi in rete si fa presto a trovare coccodrilli, e male che vada per fortuna c’è Wikipedia; così nel giro di mezza giornata l’articolo lo hanno fatto quasi tutti, non solo La Stampa di Torino, la città dove Mathieu aveva insegnato e studiato per tanti anni, e Il Giornale, a cui aveva collaborato sistematicamente per decenni, dove Carlo Lottieri ha tracciato un bel profilo, mettendo opportunamente in luce tutti gli aspetti della sua personalità.


La qualità dello studioso – e la varietà dei suoi interessi – sono testimoniati da mezzo secolo di pubblicazioni (dal Bergson del 1954 al Goethe del 2015): un contributo originale e profondo in molti campi, dalla filosofia della scienza alla filosofia morale, dalla storia della filosofia all’estetica. Fu allievo di un filosofo della statura di Augusto Guzzo, ma non si deve mai dimenticare che un accademico si dovrebbe valutare anche dalla qualità dei suoi allievi: non ho la lista completa, posso solo ricordare che nella sua “covata” ci fu quel geniale e metodico elaboratore di idee e di prospettive che fu Emanuele Samek Lodovici, che un brutto incidente stradale strappò alla cultura italiana a soli 38 anni, quando era già precocemente salito alla cattedra di filosofia morale.
Mathieu è stato un ricercatore e uno studioso di prima grandezza, ma alieno da ogni sovraesposizione mediatica, da vero piemontese dedito al nascondimento, per educazione e per scelta. Lo stile mai urlato e la presenza mai esibita riguardavano anche la sua vita personale e la sua biografia, al punto che la vicenda dei suoi genitori uccisi dai partigiani durante la guerra civile del 1943-45 fu conosciuta al pubblico solo tardivamente e quasi per caso.

Nei necrologi non sono mancati accenni al suo impegno politico e civile, ma spesso un po’ frettolosi, tanto da sembrare pigramente trasmigrati da un articolo all’altro: “fu tra i fondatori di Forza Italia”, e poco più.
Giustamente Carlo Lottieri, Marco Taradash e Alessandro Campi hanno sottolineato che nel caso di Mathieu non si trattò tanto di una generica “partecipazione alla fondazione”, quanto di un impegno civile, politico e culturale che si manifestò principalmente in due momenti-chiave della storia del centro destra (e, diciamolo, anche della storia delle sue occasioni mancate o rovinate). Il primo fu la sua convinta adesione alla Convenzione per la Riforma Liberale, nata nel 1995, e la partecipazione alle elezioni che nel 1996 videro entrare in parlamento Lucio Colletti, Piero Melograni, Giorgio Rebuffa, Marcello Pera, Saverio Vertone, Renato Brunetta: una stagione veramente unica, e irripetuta, nel rapporto tra cultura e centrodestra. Mathieu non entrò, ma anche qui per una scelta “piemontese” di signorile understatement. Preferì un collegio assai più difficile, ma in cui era più radicato.
Il secondo momento, lo ha sottolineato Campi, lo vide partecipe di quell’autentica avventura del pensiero di destra che fu la rivista Ideazione, fondata da Mimmo Mennitti nel 1994. La rivista, a cui collaborarono tra gli altri Antiseri, Buttafuoco, Del Debbio, Roccella, Quagliariello, Urbani, sembrò poter diventare un punto di riferimento per quelli che credevano che anche nel centrodestra fosse possibile l’esistenza di una “politica delle idee”, destinati a rimanere ben presto delusi dalla fine di quell’esperienza. Non ci vuole tanto per constatare che oggi, se non ci fosse il meritorio lavoro della Fondazione Magna Carta, del Centro Studi Livatino e di altre iniziative (senza far torto a nessuno cito come esempio fattivo Nazione Futura e Centro Machiavelli) che fiancheggiano, ma non sono sussunte responsabilmente dai vertici politici, la desertificazione dell’area sarebbe completa.

Studioso severo, liberale a tutto tondo, cattolico discreto: in fin dei conti, se vogliamo dare una valutazione d’insieme, Vittorio Mathieu è stato un uomo di un’altra stagione, assolutamente fuori posto nel panorama degli slogan banalizzanti che oggi prevalgono dappertutto. Forse anche per questo era finito immeritatamente in una specie di cono d’ombra, anche a destra. 


(Articolo apparso sull'Occidentale del 2 ottobre 2020)