mercoledì 30 dicembre 2020

Un sondaggio IPSOS certifica il disagio degli italiani.


Il sondaggio IPSOS di Nando Pagnoncelli apparso sul Corriere della Sera il 20 dicembre avrebbe certamente meritato più attenzione di quella che è emersa nei media e nell’opinione pubblica. In realtà è rimasto abbastanza in ombra, coperto dal Natale imminente e dall’assembramento di notizie e commenti sui colori del giorni di festa, sugli spostamenti leciti e quelli proibiti, sulle attività aperte e quelle chiuse. Invece i suoi risultati sono un po’ sorprendenti, e fanno scoprire uno stato d’animo dell’opinione pubblica in controtendenza, anche rispetto a quello che molti di noi potrebbero dedurre dal proprio punto di osservazione, irrimediabilmente parziale.

Dopo mesi di provvedimenti, di bollettini sanitari, di annunci di chiusure e riaperture, si scopre che gli italiani, almeno stando al sondaggio, mentre non hanno smesso di essere timorosi per le conseguenze sanitarie della diffusione del COVID19, cominciano ad essere preoccupati – molto preoccupati – delle conseguenze economiche delle lunghe interruzioni di attività e di servizi. Ma vediamo qualche dato.
Richiesti di esprimersi circa i tre punti ritenuti più preoccupanti per l’avvenire del paese, al primo posto (78%) troviamo economia e occupazione, un valore alto anche negli anni passati. Il 57% indica la sanità, un valore importante e in linea con le aspettative. Assai più in basso si collocano la preoccupazione per il funzionamento delle istituzioni (33%), l’immigrazione (20%) e la sicurezza (11%), temi meno presenti nel dibattito politico e nell’eco mediatica.
Molto pessimistica la valutazione sulla crisi economica in atto, che per il 59% degli intervistati è più grave di quella iniziata nel 2008 con la vicenda dei mutui subprime. Il giudizio sulla situazione economica è negativo per l’84%, e più del 60% si aspetta un peggioramento nei prossimi mesi, anche in riferimento alla propria situazione personale.

Passando allo specifico della gestione dell’emergenza COVID ancora oggi il 44% delle persone ritiene molto o abbastanza elevata la minaccia di poter essere contagiato e il 58% teme la possibilità di contagio della propria comunità, considerando anche che il 59% del campione considera la seconda ondata grave come la prima. Ma rispetto alla prima ondata aumentano le difficoltà di accettazione della situazione: si palesano preoccupazione (34%), rabbia (26%), disorientamento (22%), intolleranza (20%), tristezza (19%), senso di solitudine (9%). Inoltre il 60% è stanco di limitare la propria vita sociale, il 50% di non potersi spostare in Italia, il 47% di portare la mascherina e il 30% di rispettare le distanze.


Un sondaggio non può dar contro della complessità dei sentimenti e delle aspettative del corpo sociale, ma di sicuro è in grado di misurarne la temperatura: l’ “andrà tutto bene” dei primi mesi è stato largamente sommerso dalla sfiducia, dal pessimismo e dalle contrapposizioni. Il paese febbricitante sembra attendere una guida più autorevole, più sicura e meno improvvisata. Questo disagio interpella la responsabilità di tutte le forze politiche e delle autorità diffuse nel corpo sociale, ma soprattutto interpella la capacità dell’opposizione di centrodestra di attrezzarsi meglio, con una classe dirigente adeguata e con proposte concrete, così da presentarsi in modo convincente agli appuntamenti e alle svolte dei prossimi mesi, che non saranno sicuramente facili. E questa volta non potrà permettersi davvero di prescindere da una riflessione culturale adeguata, come ha suggerito giusto ieri Corrado Ocone: “È in questa dimensione perciò che chi ha a cuore la libertà, il “liberale”, ha ora necessità di muoversi. È un lavoro in lato senso “culturale” quello che va fatto, non per opporre semplicemente narrazione a narrazione, ripetendo all’infinito uno schema dicotomico a somma zero. Ma per provare a tenere aperto quanto più possibile il campo della divergenza, o meglio dell’eccedenza: sia all’interno del terreno di gioco, aumentando il numero delle interpretazioni in campo, sia anche all’esterno, ove gli stessi perimetri di gioco vengono a delinearsi”.

(pubblicato sull'Occidentale del 28.12.20)

mercoledì 16 dicembre 2020

Pierre de Villiers, ancora un generale per la Francia?

Non è certo il primo generale che compare all’orizzonte della storia francese, ma è ancora presto capire se la stella di Pierre de Villiers alla fine si rivelerà un’apparizione effimera o se si insedierà stabilmente nello scenario della politica d’oltralpe. Obbligato il riferimento al precedente più alto, a Charles De Gaulle e al suo ruolo centrale dalla Resistenza alla trasformazione della Francia in repubblica presidenziale (1); ma anche al finale insuccesso di Boulanger; e poi giù giù con i precedenti, dal Maresciallo Pétain fino al capostipite dei generali in politica, il Bonaparte.


 

Occasionalmente i media francesi se ne erano già occupati, soprattutto per la prestigiosa carriera militare: dal comando della brigata Leclerc in Kosovo nel quadro dell’operazione KFOR nel 1999, al coordinamento di importanti operazioni militari nel Sahel, in Centrafrica e in Siria, fino alla nomina a capo di stato maggiore dell’esercito nel 2014. 


Ed è in questa veste che la sua traiettoria si incrocia con la politica. Nel luglio 2017, di fronte all’annuncio di una diminuzione del budget per la difesa (un taglio di 850 milioni di Euro) da parte del ministro dei conti pubblici Gérald Darmarin, della compagine governativa di Macron, de Villiers esprime energicamente il suo dissenso davanti alla Commissione difesa dell’Assemblea nazionale con un icastico e registrato “Non mi farò fottere in questo modo”, reso pubblico da Le Monde, completato a detta del Figaro da un inequivoco “Non posso più guardare i miei ragazzi negli occhi se riduciamo ulteriormente i nostri mezzi”. La polemica va avanti per qualche giorno, ancora il 14 de Villiers assiste alla parata accanto al Presidente, il 15 posta su Facebook una critica al taglio e il 16 Macron, definendone "indegno" il comportamento, lo sostituisce col generale François Lecointre: un atto a quel punto probabilmente inevitabile, tanto più che Macron era allora una specie di giovane dio all’inizio del suo fulgore. Ma un evento così traumatico per le istituzioni francesi non si verificava dal 1958 e, soprattutto, da parte del Presidente forse non si valutò abbastanza che de Villiers godeva ampiamente di una buona reputazione pubblica.



Di fatto da quel momento il Generale non entra nel cono d’ombra dei dimissionati, anzi rilancia intensificando la sua presenza pubblica. Presentazioni di libri (ne ha scritti tre: Servir, Qu’est-ce que c’est un chef, e, da poco in libreria, L’équilibre est un courage) e prese di posizione a 360 gradi, ben al di là del tema “difesa”: la finanza globale opposta all’economia, la scuola come cardine della rinascita, la necessità di farsi capire dalla Francia popolare e profonda; e su tutto il grande sfondo dell’amour per la Francia e le sue tradizioni. Se ci si aggiungono gli interventi più occasionali, ma non meno significativi, come quello seguito allo sgozzamento del professore Samuel Paty (“è un attacco all'esistenza stessa della nostra nazione, della nostra civiltà”), si può quasi intravedere il disegno di una piattaforma articolata e coerente per la destra che dovrà sfidare Macron nel 2022.

È una prospettiva verosimile? I giornali hanno dato conto di un sondaggio IFOP abbastanza clamoroso – che ha fatto passare alla fama del Generale anche il confine italiano con una corrispondenza di Cesare Martinetti su Huffpost – secondo il quale il 20% dei francesi si direbbe pronto a votare per il generale de Villiers in caso di candidatura da parte sua nel 2022. “Lo studio IFOP – commenta Agora Vox nell’ambito di una analisi molto accurata del sondaggio –   ci dice che il 42% degli intervistati, compresa buona parte degli ex elettori di Marine Le Pen (38%), dichiara di non sapere ancora chi sia il generale de Villiers; il che significa che il famoso “soffitto di vetro” è ben lungi dall'essere raggiunto e quindi che il 20% …può essere facilmente superato. Un altro punto importante nel sondaggio: l'origine elettorale in relazione al voto nel 2017 di coloro che si dicono pronti a votare per Pierre de Villiers. Reclutando la maggioranza delle sue truppe tra gli ex elettori di François Fillon (41%) e Marine Le Pen (29%), sembrerebbe che il generale sia l'uomo provvidenziale ... dell'unione delle destre, e anche un poco oltre”. E difatti il sondaggio registra un certo interesse verso la sua figura anche da parte di elettori di sinistra e almeno di una quota dei gilet gialli. Qualche commentatore già si sbilancia e preconizza lo scontro tra lui e Macron come lo scenario che potrebbe superare lo stallo della destra, bloccata dalla vittoria ‘impossibile’ dell’estrema Le Pen, dopo la sfortunata – e forse abbastanza pilotata – uscita di scena di un personaggio come Fillon, un gollista con la sua piattaforma cattolico-conservatrice molto marcata. Tutto è ancora molto prematuro, ma intanto si registra un certo sommovimento, ovviamente non sempre entusiasta, da parte di personaggi della destra mediaticamente robusti, come Éric Zemmour, che forse avrebbe più di una chance di partecipare alla gara di persona.

 Molto dipende dalla capacità “fusionista” che de Villiers potrà avere.  Difatti quando si parla di politica francese non bisogna mai dimenticare che la destra qui più che altrove esprime in modo paradigmatico la sua natura composita, in qualche modo a strati, secondo la classica tripartizione di René Rémond. Per i lettori dell’Occidentale non c’è bisogno di insistere troppo su questo passaggio fondamentale, che è stato richiamato anche di recente in un commento di Pietro Scuri in occasione della morte di Giscard.  Per sensibilità, formazione e soprattutto per le origini familiari de Villiers apparterrebbe in pieno alla prima destra, cattolica e controrivoluzionaria, connotata da un’antica e mai dimenticata ostilità alla Rivoluzione dell’89 e ai suoi sviluppi del 92, che la sua terra, la Vandea, patì in modalità “genocidio”, e a cui rispose con un’aspra guerriglia controrivoluzionaria.


 

Pierre François Marie Jolis de Villiers de Santignon, nato a Boulogne 64 anni fa, rampollo di una famiglia aristocratica radicata in Vandea almeno dal XVI secolo, altri non è che il fratello minore di Philippe, che col suo “Movimento per la Francia” si era presentato alle presidenziali nel 1994 e nel 2007, con risultati elettoralmente scarsi. Il Movimento di Philippe era molto caratterizzato in senso cattolico tradizionale. Sulle sue terre aveva organizzato il Puy du fou, un grande parco storico a tema sulla storia della Vandea, che ha avuto milioni di visitatori. Rispetto al fratello, Pierre, pur affondando le radici nello stesso terreno culturale, si presenta in modo più trasversale, cita filosofi e scrittori contemporanei e pare rifuggire anche dagli eccessivi accenti filoputiniani a cui Philippe talora inclina in nome dei valori cristiani da tutelare in opposizione all’americanismo globalizzante. Il Generale accentua la sua immagine di contemporaneità anche con elementi di dettaglio, come il conclamato utilizzo della metropolitana e dello smartphone.

Stando ai primi sondaggi, il Generale ha le carte in regola per piacere abbondantemente al di sopra di quel 4% che conquistò il fratello. Insomma, sarà un vandeano smart, aperto al mondo contemporaneo e capace di farsi intendere da tutti gli strati sociali che farà il miracolo di rianimare la Destra, e magari darle qualche prospettiva di vittoria, facendo prima di tutto da collante per le tre destre e allargando l’area del consenso oltre il recinto? 

(1) Sul tema è ineludibile almeno il De Gaulle di Gaetano Quagliariello, Soveria Mannelli : Rubbettino, 2012

Questo articolo con piccole differenze di editing è apparso sull'Occidentale del 16-12-20