Gli stranieri interessati alla nostra cucina generalmente la vedono abbastanza unitaria: pizza, spaghetti, tagliatelle, lasagne, tortellini.
Ma, mettendo meglio a fuoco, specialmente noi che ci siamo dentro la vediamo molto più variegata e ci rendiamo conto di tante differenze.
E' un po' come tutto il resto: l'Italia e gli italiani sono stati percepiti come unitari più da fuori che da dentro. Nell'antico regime gli italiani che servivano in armi all'estero, ed erano un bel po', venivano normalmente inquadrati e registrati come italiani, da qualunque stato provenissero. E anche in cucina, visti da fuori spaghetti al pomodoro, visti da dentro tanti campanili, tanti dialetti, tante varietà.
Tutta questa vicenda storico-culinaria ha una ricca bibliografia. Ma recentemente è uscito un piccolo libro di Massimo Montanari, documentato e professionale, che ha il pregio di essere sintetico, leggibile e snello: L'identità italiana in cucina.
Montanari insegna storia medievale e storia dell'alimentazione all'Università di Bologna: la sua tesi di fondo è che "una cucina italiana intesa come modello unitario, codificato in regole precise, non è mai esistita e non esiste tuttora. Se però la pensiamo come 'rete' di saperi e di pratiche, come reciproca conoscenza di prodotti e ricette provenienti da città e regioni diverse, è evidente che uno stile culinario 'italiano' esiste fin dal Medioevo. Le identità non sono inscritte nei geni di un popolo ma si costruiscono storicamente, nella dinamica quotidiana del colloquio fra uomini, esperienze, culture diverse. L'italianità della pasta, o del pomodoro, o del peperoncino è fuori discussione. Ma è anche fuori discussione che la pasta, il pomodoro, il peperoncino appartengano in origine a culture diverse".
Si parte dalla constatazione che l'Italia storicamente è una rete di città, un paese policentrico, anche in cucina. Più che regionale ai suoi albori la cucina italiana è soprattutto cucina di varietà cittadine. Presto le tradizioni culinarie si confrontano, soprattutto fra le classi alte circolano ricette provenienti da altre città, si delineano i primi ricettari più generali, dagli anonimi trecenteschi al quattrocentesco Mastro Martino, al milanese Ortensio Lando (1548), fino alla grande Opera di Bartolemo Scappi (1570) che illustra e paragona la cucina di importanti città italiane: Milano, Genova, Bologna, Napoli. Interessantissimo ad esempio l'excursus sulle torte e sulle loro differenze ("i napoletani la chiamano pizza"): nell'insieme siamo già di fronte ad una specie di antologia di cucina italiana.
Saltando qui qualche passaggio - che consiglierei però di seguire nel libro, perché davvero tutti interessanti e qualche volta sfiziosi - arriviamo al monumento della cucina italiana: nel 1891 viene pubblicato La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi.
Il libro nella prima edizione conta 475 ricette; nel 1909, nella 23a, le ricette sono diventate 790. Cosa è successo?
Pellegrino Artusi è nativo di Forlimpopoli, in Romagna, con una notevole dimestichezza con la cucina emiliano-romagnola e toscana. Inoltre è un mazziniano, un fervente sostenitore dell'unità italiana, che vorrebbe realizzare anche in cucina, fornendo nello stesso tempo ai suoi compatrioti i fondamentali per un'alimentazione sana e razionale. L'idea del ricettario non trova però editori entusiasti. Artusi decide di pubblicarlo a sue spese e lo vende per corrispondenza dalla sua casa di Firenze. Il meccanismo funziona, il libro viene richiesto in tutta Italia. Di più, dalle lettrici arrivano ricette, suggerimenti, precisazioni e si arricchisce in modo interattivo: alla fine recepisce elementi della cucina di tutta Italia - anche se Emilia e Toscana restano predominanti - assecondando la tradizione localistica e cittadina, senza fornire una codificazione "nazionale". Paradossalmente l'opera del mazziniano Artusi diviene un documento del carattere policentrico dell'identità e della storia italiana, anche nella cucina. D'altra parte, l'Artusi è diventato IL manuale principe della cucina italiana, presentando la sua varietà in modo unitario. Piero Camporesi ha scritto "che La scienza in cucina ha fatto per l'unificazione italiana più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi Sposi", attraverso il tentativo manzoniano di fornire LA lingua italiana comune.
Senza forzare troppo le analogie, forse l'opera di Artusi, con il suo sano e appetitoso radicamento nella tradizione policentrica italiana, potrebbe essere un buon paradigma dell'unità. Qualche giorno fa sono rimasto colpito (e francamente divertito) da Giuliano Ferrara che nella puntata di Radio Londra dedicata all'unità d'Italia ha detto che ai sussiegosi e accigliati azionisti in perenne contestazione dell'Italia "paese da spaghetti alle vongole", preferisce di gran lunga l'Italia di Pellegrino Artusi, che "ha messo il pomodoro sugli spaghetti!".
Una bella panoramica di Mariarosa Mancuso su Pellegrino Artusi e sul romanzo di Marco Malvaldi Odore di chiuso
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