venerdì 31 marzo 2017

Nel mondo dei robot: ci ruberanno il lavoro o lavoreranno per noi?


robot

Scenari che fino a pochi anni fa sembravano confinati ai film di fantascienza e ai romanzi di Urania sembrano prendere corpo, e possiamo intravedere instancabili androidi calati nella vita reale come compagni di lavoro o, come nei film più inquietanti, addirittura come padroni delle nostre vite. Già nel corso del Forum 2016 di Davos il rapporto Future jobs ipotizzava una diminuzione di più di 7 milioni di posti di lavoro (con la nascita contestuale di 2 milioni di posti di alta qualificazione) in conseguenza dello sviluppo dell’industria 4.0.
Ma non è tutto: nei giorni scorsi l’associazione Amici di Marco Biagi, presieduta da Maurizio Sacconi, che si contraddistingue per un’attenzione tutta particolare ai temi del lavoro e dell’innovazione, ha richiamato l’attenzione su una ricerca della nota società di consulenza PriceWaterhouseCoopers (PWC) riguardo alle prospettive legate alla crescente robotizzazione di molte attività lavorative, considerando l’arco temporale dei prossimi 15 anni. Il primo dato che emerge dalla ricerca riguarda le aree geografiche: si va dal 38% di sostituzione di robot con umani negli Stati Uniti al 30% nel Regno Unito al 21% in Giappone.
Secondo gli autori la penetrazione è correlata al grado di istruzione media, ossia la robotizzazione sarà più blanda dove il livello di istruzione è più alto: è facile capire che la sostituzione è ovviamente più problematica se si tratta di lavori complessi che richiedono un livello di preparazione medio-alto. Un secondo elemento preso in esame, strettamente connesso con il primo, riguarda la tipologia dei lavori “minacciati”: in prima linea, con l’ovvia massiccia presenza dell’industria 4.0, ci sono i trasporti, per la probabile avanzata delle self-driving car, poi lo stoccaggio nei magazzini, per la gestione sempre più automatica delle merci, ma anche i servizi alimentari.
Più difficili da automatizzare, con ampie aree di resistenza della complessità “umana”, sarebbero i lavori legati all’educazione-istruzione, alla sanità e al sociale. Buone notizie? Cattive notizie? Intanto bisogna prendere atto dello scenario, anche se sappiamo (speriamo?) che non sempre le previsioni sul futuro tecnologico si avverano al dettaglio. Gli autori della ricerca, come del resto il rapporto del Forum di Davos, si spingono ottimisticamente a immaginare un quadro in cui l’eliminazione dei lavori più ripetitivi forse consentirà una crescita di impieghi nuovi di più alto valore intellettuale; e questo è il dato che sottolinea John Hawksworth, chief economist in PWC.
Chiaramente questa prospettiva vagamente neo-fourieriana non convince del tutto e soprattutto resta la preoccupazione per le dimensioni quantitative di ciò che scomparirebbe rispetto a ciò che emergerebbe: riesce difficile immaginare una piena reintegrazione lavorativa dei soggetti espulsi dal ciclo produttivo. Ma, al netto della polarità ottimismo-pessimismo, dobbiamo immaginare davvero come unica soluzione una “tassazione dei robot”, come ha proposto Bill Gates, per finanziare altra occupazione nelle aree non robotizzabili e arricchire gli ammortizzatori per la disoccupazione?
Sono domande importanti che la politica, purtroppo spesso condannata all’orizzonte ristretto dell’immediatezza, dovrebbe porsi, magari andando un po’ al di là delle dispute tipo curriculum vs calcetto. Lo scenario del lavoro futuro difatti presenta almeno due punti critici, che rischiano concretamente di diventare dirompenti per le nostre società: il primo è la riduzione drastica dei lavori a più basso tasso di specializzazione, con problematiche legate agli assetti della working class, ma anche alla integrabilità nel nostro sistema produttivo con eventuale manodopera generica proveniente dall’immigrazione.
Il secondo è la paurosa latenza di lavoro giovanile: è di questi giorni il rapporto Aran che certifica attorno al 3°% la presenza di addetti sotto i 30 anni nella pubblica amministrazione (e questo aspetto puntuale aprirebbe un ulteriore e complicato discorso, che però bisognerebbe cominciare a fare…). La mancanza di turnover adeguato in tutti i settori non solo mette in crisi le speranze di futuro delle nuove generazioni, riguardo alla loro capacità di porsi costruttivamente nei processi sociali, economici e culturali dei prossimi decenni, ma ha effetti catastrofici sul sistema pensionistico e previdenziale.
Al di là della valutazione di insieme, la ricerca Pwc suggerisce una pista molto importante, indicando che i settori più resistenti e che potranno produrre nuova occupazione sono quelli dove il bagaglio culturale è più importante. Lo sguardo lungo della politica buona dovrà rendersi conto dell’ovvio: investire in formazione, in merito, in acquisizione di cultura e di competenze non è un lusso, ma una necessità per la sopravvivenza delle nostre società, se ci vogliamo giocare la chance di non farle diventare una colossale plaga abitata da disoccupati mantenuti con qualche assegno sociale spremuto ai padroni dei robot.
Anche di questo l’agenda culturale e politica del centrodestra ricostruito, se vorrà essere veramente “di governo”, dovrà farsi carico, pena l’irrilevanza sui grandi temi del nostro futuro.

(articolo pubblicato sull'Occidentale il 31 marzo 2017)

Digital libray italiana



C’è stato un tempo, non troppo remoto, che per un muro crollato a Pompei si arrivava ad armare una mozione di sfiducia individuale al ministro dei Beni Culturali. Qualcosa (o tanto) è cambiato, se praticamente solo Giulia Barrera sul Manifesto del 17 marzo (Quel pasticcio della “Digital Library Italiana”) ha rilevato l’approssimazione e la superficialità con cui il Ministro in carica ha affrontato un tema strategico come un progetto nazionale di digitalizzazione delle immagini e dei testi.
Ricapitoliamo: il 10 marzo il ministro Franceschini annuncia la “nascita” della Digital Library italiana. L’inglese è d’obbligo, e il clima è perfettamente riassunto dal peana che compare sulla Stampa: “Dalla biblioteca Angelica a quella Casanatense, dall’Alessandrina alla Medicea Laurenziana, dalla Marciana alla Braidense. C’è una vena d’oro sotterranea e nascosta ai più che scorre tra le meraviglie archeologiche, architettoniche e monumentali con cui l’Italia abbaglia i viaggiatori di tutto il mondo: profuma di pagine antiche, preziose e irriproducibili ed è disseminata nel silenzio delle tantissime e bellissime biblioteche italiane”.
“Ma qualcosa sta per cambiare: nasce oggi infatti la Digital Library italiana, una biblioteca nazionale digitale, che avrà l’obiettivo di valorizzare questo sterminato patrimonio diffuso e di renderlo fruibile a chiunque ne faccia richiesta, anche a distanza. Ad annunciarlo è il ministro Dario Franceschini in una conferenza all’Accademia dei Lincei”. Come commentare? Che finalmente usciamo dall’arretratezza e siamo vicini a un traguardo decente?
Le cose purtroppo non stanno esattamente così: prima di tutto è un vero peccato che questo nuovo cospicuo finanziamento annunciato (due milioni di Euro) non sia il primo della serie: come ha scritto la Barrera, “negli anni, infatti, di soldi se ne sono spesi e anche tanti; più di un ministro ha infatti voluto cogliere i benefici di immagine che poteva offrire il comparire come colui che digitalizzava il patrimonio culturale italiano”.
E’ almeno dal 1986 che si investe in progetti per le tecnologie per i beni culturali: i “giacimenti culturali” (600 miliardi, il progetto “Cultura Italia”, 1 milione e 300mila Euro), il progetto di digitalizzazione del patrimonio librario attivato in accordo con Google; e poi molti altri, patrocinati da Regioni, Enti locali, Università: un fiume di denaro, una miriade di iniziative spesso non ben coordinate. I risultati? Diciamo discontinui (ma non inesistenti), a volte deludenti, come il caso di “Cultura Italia” che, partito con obiettivi molto ambiziosi, restituisce al navigatore poco più di quello che si può trovare con una normale ricerca in Google.
I difetti? Prima di tutto questi progetti sono spesso frutto della cultura dell’annuncio, non vengono impiantati sul terreno solido delle verifiche: così si dice impunemente che il patrimonio culturale è all’anno zero delle tecnologie, e si ignora (ricorda sempre la Barrera) che “il Sistema archivistico nazionale permette di accedere alla descrizione del patrimonio documentario conservato da oltre 10mila istituti di conservazione e di accedere a più di 55 milioni di documenti digitalizzati; e il Servizio bibliotecario nazionale permette di consultare on line il catalogo unificato di circa 6mila biblioteche e accedere a 800mila testi digitalizzati. Un altro portale, “Internet culturale”, è finalizzato a facilitare l’accesso alle copie digitali di libri e periodici antichi e include oltre 10 milioni di oggetti digitali”.
Detto altrimenti, queste istituzioni, pur con una gestione che a volte è stata considerata burocratica e dispersiva, hanno costruito nel tempo un patrimonio che è veramente strano possa essere sottaciuto e deprezzato. Ma non finisce qui, perché il fatto più clamoroso è nessuno di queste due entità, nelle cui cabine di pilotaggio sono collocate fior di competenze e anni di esperienze, è coinvolto nel progetto: la creazione della “Digital Library Italiana” è stata affidata all’Istituto per il catalogo e la documentazione (Iccd), il cui fine istituzionale è la catalogazione del patrimonio culturale, ad eccezione di… archivi e biblioteche.
Le logiche sottese a queste scelte politiche sono sempre un po’ misteriose, ma forse non c’è neppure bisogno di ricorrere all’ipotesi di interessi poco trasparenti: a spiegarle forse basta il compulsivo bisogno della politica di avere una vetrina sempre illuminata, anche se molto costosa e poco produttiva.

(articolo pubblicato su Occidentale, 20 marzo 2017)