Scenari che fino a pochi anni fa sembravano confinati ai film di fantascienza e ai romanzi di Urania sembrano prendere corpo, e possiamo intravedere instancabili androidi calati nella vita reale come compagni di lavoro o, come nei film più inquietanti, addirittura come padroni delle nostre vite. Già nel corso del Forum 2016 di Davos il rapporto Future jobs ipotizzava una diminuzione di più di 7 milioni di posti di lavoro (con la nascita contestuale di 2 milioni di posti di alta qualificazione) in conseguenza dello sviluppo dell’industria 4.0.
Ma non è tutto: nei giorni scorsi l’associazione Amici di Marco Biagi, presieduta da Maurizio Sacconi, che si contraddistingue per un’attenzione tutta particolare ai temi del lavoro e dell’innovazione, ha richiamato l’attenzione su una ricerca della nota società di consulenza PriceWaterhouseCoopers (PWC) riguardo alle prospettive legate alla crescente robotizzazione di molte attività lavorative, considerando l’arco temporale dei prossimi 15 anni. Il primo dato che emerge dalla ricerca riguarda le aree geografiche: si va dal 38% di sostituzione di robot con umani negli Stati Uniti al 30% nel Regno Unito al 21% in Giappone.
Secondo gli autori la penetrazione è correlata al grado di istruzione media, ossia la robotizzazione sarà più blanda dove il livello di istruzione è più alto: è facile capire che la sostituzione è ovviamente più problematica se si tratta di lavori complessi che richiedono un livello di preparazione medio-alto. Un secondo elemento preso in esame, strettamente connesso con il primo, riguarda la tipologia dei lavori “minacciati”: in prima linea, con l’ovvia massiccia presenza dell’industria 4.0, ci sono i trasporti, per la probabile avanzata delle self-driving car, poi lo stoccaggio nei magazzini, per la gestione sempre più automatica delle merci, ma anche i servizi alimentari.
Più difficili da automatizzare, con ampie aree di resistenza della complessità “umana”, sarebbero i lavori legati all’educazione-istruzione, alla sanità e al sociale. Buone notizie? Cattive notizie? Intanto bisogna prendere atto dello scenario, anche se sappiamo (speriamo?) che non sempre le previsioni sul futuro tecnologico si avverano al dettaglio. Gli autori della ricerca, come del resto il rapporto del Forum di Davos, si spingono ottimisticamente a immaginare un quadro in cui l’eliminazione dei lavori più ripetitivi forse consentirà una crescita di impieghi nuovi di più alto valore intellettuale; e questo è il dato che sottolinea John Hawksworth, chief economist in PWC.
Chiaramente questa prospettiva vagamente neo-fourieriana non convince del tutto e soprattutto resta la preoccupazione per le dimensioni quantitative di ciò che scomparirebbe rispetto a ciò che emergerebbe: riesce difficile immaginare una piena reintegrazione lavorativa dei soggetti espulsi dal ciclo produttivo. Ma, al netto della polarità ottimismo-pessimismo, dobbiamo immaginare davvero come unica soluzione una “tassazione dei robot”, come ha proposto Bill Gates, per finanziare altra occupazione nelle aree non robotizzabili e arricchire gli ammortizzatori per la disoccupazione?
Sono domande importanti che la politica, purtroppo spesso condannata all’orizzonte ristretto dell’immediatezza, dovrebbe porsi, magari andando un po’ al di là delle dispute tipo curriculum vs calcetto. Lo scenario del lavoro futuro difatti presenta almeno due punti critici, che rischiano concretamente di diventare dirompenti per le nostre società: il primo è la riduzione drastica dei lavori a più basso tasso di specializzazione, con problematiche legate agli assetti della working class, ma anche alla integrabilità nel nostro sistema produttivo con eventuale manodopera generica proveniente dall’immigrazione.
Il secondo è la paurosa latenza di lavoro giovanile: è di questi giorni il rapporto Aran che certifica attorno al 3°% la presenza di addetti sotto i 30 anni nella pubblica amministrazione (e questo aspetto puntuale aprirebbe un ulteriore e complicato discorso, che però bisognerebbe cominciare a fare…). La mancanza di turnover adeguato in tutti i settori non solo mette in crisi le speranze di futuro delle nuove generazioni, riguardo alla loro capacità di porsi costruttivamente nei processi sociali, economici e culturali dei prossimi decenni, ma ha effetti catastrofici sul sistema pensionistico e previdenziale.
Al di là della valutazione di insieme, la ricerca Pwc suggerisce una pista molto importante, indicando che i settori più resistenti e che potranno produrre nuova occupazione sono quelli dove il bagaglio culturale è più importante. Lo sguardo lungo della politica buona dovrà rendersi conto dell’ovvio: investire in formazione, in merito, in acquisizione di cultura e di competenze non è un lusso, ma una necessità per la sopravvivenza delle nostre società, se ci vogliamo giocare la chance di non farle diventare una colossale plaga abitata da disoccupati mantenuti con qualche assegno sociale spremuto ai padroni dei robot.
Anche di questo l’agenda culturale e politica del centrodestra ricostruito, se vorrà essere veramente “di governo”, dovrà farsi carico, pena l’irrilevanza sui grandi temi del nostro futuro.
(articolo pubblicato sull'Occidentale il 31 marzo 2017)