venerdì 31 marzo 2017

Digital libray italiana



C’è stato un tempo, non troppo remoto, che per un muro crollato a Pompei si arrivava ad armare una mozione di sfiducia individuale al ministro dei Beni Culturali. Qualcosa (o tanto) è cambiato, se praticamente solo Giulia Barrera sul Manifesto del 17 marzo (Quel pasticcio della “Digital Library Italiana”) ha rilevato l’approssimazione e la superficialità con cui il Ministro in carica ha affrontato un tema strategico come un progetto nazionale di digitalizzazione delle immagini e dei testi.
Ricapitoliamo: il 10 marzo il ministro Franceschini annuncia la “nascita” della Digital Library italiana. L’inglese è d’obbligo, e il clima è perfettamente riassunto dal peana che compare sulla Stampa: “Dalla biblioteca Angelica a quella Casanatense, dall’Alessandrina alla Medicea Laurenziana, dalla Marciana alla Braidense. C’è una vena d’oro sotterranea e nascosta ai più che scorre tra le meraviglie archeologiche, architettoniche e monumentali con cui l’Italia abbaglia i viaggiatori di tutto il mondo: profuma di pagine antiche, preziose e irriproducibili ed è disseminata nel silenzio delle tantissime e bellissime biblioteche italiane”.
“Ma qualcosa sta per cambiare: nasce oggi infatti la Digital Library italiana, una biblioteca nazionale digitale, che avrà l’obiettivo di valorizzare questo sterminato patrimonio diffuso e di renderlo fruibile a chiunque ne faccia richiesta, anche a distanza. Ad annunciarlo è il ministro Dario Franceschini in una conferenza all’Accademia dei Lincei”. Come commentare? Che finalmente usciamo dall’arretratezza e siamo vicini a un traguardo decente?
Le cose purtroppo non stanno esattamente così: prima di tutto è un vero peccato che questo nuovo cospicuo finanziamento annunciato (due milioni di Euro) non sia il primo della serie: come ha scritto la Barrera, “negli anni, infatti, di soldi se ne sono spesi e anche tanti; più di un ministro ha infatti voluto cogliere i benefici di immagine che poteva offrire il comparire come colui che digitalizzava il patrimonio culturale italiano”.
E’ almeno dal 1986 che si investe in progetti per le tecnologie per i beni culturali: i “giacimenti culturali” (600 miliardi, il progetto “Cultura Italia”, 1 milione e 300mila Euro), il progetto di digitalizzazione del patrimonio librario attivato in accordo con Google; e poi molti altri, patrocinati da Regioni, Enti locali, Università: un fiume di denaro, una miriade di iniziative spesso non ben coordinate. I risultati? Diciamo discontinui (ma non inesistenti), a volte deludenti, come il caso di “Cultura Italia” che, partito con obiettivi molto ambiziosi, restituisce al navigatore poco più di quello che si può trovare con una normale ricerca in Google.
I difetti? Prima di tutto questi progetti sono spesso frutto della cultura dell’annuncio, non vengono impiantati sul terreno solido delle verifiche: così si dice impunemente che il patrimonio culturale è all’anno zero delle tecnologie, e si ignora (ricorda sempre la Barrera) che “il Sistema archivistico nazionale permette di accedere alla descrizione del patrimonio documentario conservato da oltre 10mila istituti di conservazione e di accedere a più di 55 milioni di documenti digitalizzati; e il Servizio bibliotecario nazionale permette di consultare on line il catalogo unificato di circa 6mila biblioteche e accedere a 800mila testi digitalizzati. Un altro portale, “Internet culturale”, è finalizzato a facilitare l’accesso alle copie digitali di libri e periodici antichi e include oltre 10 milioni di oggetti digitali”.
Detto altrimenti, queste istituzioni, pur con una gestione che a volte è stata considerata burocratica e dispersiva, hanno costruito nel tempo un patrimonio che è veramente strano possa essere sottaciuto e deprezzato. Ma non finisce qui, perché il fatto più clamoroso è nessuno di queste due entità, nelle cui cabine di pilotaggio sono collocate fior di competenze e anni di esperienze, è coinvolto nel progetto: la creazione della “Digital Library Italiana” è stata affidata all’Istituto per il catalogo e la documentazione (Iccd), il cui fine istituzionale è la catalogazione del patrimonio culturale, ad eccezione di… archivi e biblioteche.
Le logiche sottese a queste scelte politiche sono sempre un po’ misteriose, ma forse non c’è neppure bisogno di ricorrere all’ipotesi di interessi poco trasparenti: a spiegarle forse basta il compulsivo bisogno della politica di avere una vetrina sempre illuminata, anche se molto costosa e poco produttiva.

(articolo pubblicato su Occidentale, 20 marzo 2017)

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