martedì 30 ottobre 2018

Per il Gattopardo un compleanno senza festa?


Sessanta anni fa, nel novembre del 1958, in casa Feltrinelli vide la luce Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
E’ noto che la nascita editoriale di quello che sarà poi considerato un capolavoro della letteratura italiana ebbe un percorso molto tormentato. Il romanzo non corrispondeva ai canoni del “culturalmente corretto” allora (allora?) imperante, e il manoscritto fu respinto al mittente e giudicato non pubblicabile sia da Mondadori sia da Einaudi, in ambedue i casi con la regia di Elio Vittorini.  La vicenda non fu così lineare come è abitualmente sintetizzata, ma nella sostanza ci fu un giudizio negativo non solo sullo stile (un po’ vecchiotto, ottocentesco) ma anche -e soprattutto- sul contenuto: poco gradito il personaggio dell’aristocratico disincantato, poco edificante lo sfondo dell’annessione del Sud vista come eterno ritorno dei furbi e affermazione del predominio politico delle “iene” e degli “sciacalli”. Insomma, c’era una serie di elementi scandalosi che conferivano all'opera un’inquietante aura di destra. In un’intervista al Giorno Vittorini ribadì questo giudizio anche dopo la fortunata pubblicazione del romanzo, e non se ne discostò mai neppure in seguito. Sostanzialmente dello stesso tenore furono i giudizi di tutto il milieu culturale di sinistra: per fare qualche nome, Palmiro Togliatti, Mario Alicata, Umberto Eco, Gianfranco Contini.
Fatto sta che Tomasi non ebbe la soddisfazione di vedere Il Gattopardo diventare libro a stampa. Morì nel luglio del 1957, e aveva ricevuto da poco la lettera col secondo rifiuto di Vittorini.

Per una serie di passaggi di straordinaria casualità, all'inizio del 1958 il manoscritto finì nelle mani di Elena Croce, che lo segnalò a Giorgio Bassani, da poco direttore della collana I Contemporanei di Feltrinelli. Bassani ne capì subito l’enorme valore letterario e ne curò personalmente la prima edizione, che apparve con la sua prefazione. 
L’anno dopo Il Gattopardo vinse il premio Strega, e divenne un caso letterario internazionale: tradotto in moltissime lingue, compreso il russo, il polacco e perfino il coreano, la sua fama fu poi amplificata dall'indimenticabile film di Luchino Visconti del 1963, interpretato dagli indimenticabili Burt Lancaster, Claudia Cardinale e Alain Delon.



Per inciso, nonostante la sua collocazione politico-culturale - o forse proprio per una certa vena non conformista nei confronti dei dettami dell’ortodossia di partito che già si andava delineando -  nel 1957 Feltrinelli aveva piazzato un altro grande goal editoriale, sempre pescando in qualche modo nelle acque del politicamente scorretto. Mi riferisco all'avventurosa pubblicazione in prima mondiale del Dottor Zivago di Pasternak: altra vicenda personale, addirittura una grande storia d’amore sullo sfondo della rivoluzione comunista, per giunta non vista con particolare entusiasmo, anzi semmai guardata con una certa dose di diffidente distacco. Difatti il manoscritto era stato rifiutato dalla rivista Novyj Mir nel 1956, e la qualifica di “reazionario” attribuita all'autore ne impedì la pubblicazione in URSS fino al 1988.

Anche Zivago, per cui Pasternak ricevette il Nobel nel 1958, dal 1965 beneficiò del moltiplicatore del cinema e della bellezza dei protagonisti Zivago/Omar Sharif e Lara/Julie Christie. Moltiplicatore nel moltiplicatore fu la colonna sonora del Tema di Lara, sulle cui note hanno sognato – e anche pianto-  innumerevoli schiere di innamorati.

Questi due grandi successi letterari di Feltrinelli sono certamente la prova di un grandissimo fiuto imprenditoriale, ma anche di una apertura atipica nel panorama culturale italiano, dominato dalle prescrizioni dell’ortodossia comunista, lukacsiana o gramsciana che fosse.

A lato mi piace aggiungere anche un terzo caso assai meno noto, che riguarda un buon autore, anche se di livello e di fortuna letteraria imparagonabili. In anni in cui il Risorgimento era ancora tutto avvolto da una narrazione prevalentemente agiografica (siamo nel 1963), Feltrinelli pubblicò L’eredità della priora, di CarloAlianello, un romanzo antirisorgimentale di orgogliosa rivendicazione sudista, che poi nel 1980 divenne il soggetto di uno sceneggiato della RAI diretto da Anton Giulio Majano.
E’ vero che in questo caso si avvertiva nell'aria l’eco della guerra di Algeria, e la guerriglia antiunitaria dei briganti cari ad Alianello cominciava a suscitare simpatie retrospettive nella sinistra più guerrillera. Ma Terroni di Pino Aprile era ancora sideralmente lontano, e la versione di Alianello comunque contrastava con la vulgata prevalente.
Negli anni successivi la passione guerrigliera dopo Giangiacomo Feltrinelli andò crescendo, fino a che non morì in circostanze tragiche, ossia mentre muniva di esplosivo un traliccio. Dopo la sua morte la casa editrice fu gestita con notevole spirito imprenditoriale e commerciale dalla moglie Inge, che è venuta a mancare poco tempo fa. E una certa vena anticonformista -attenuata, molto attenuata-  negli anni non è scomparsa del tutto. 
E adesso che succede?
Succede che il 18 ottobre in un’intervista sul Messaggero Gioacchino Lanza Tomasi, figlio dello scrittore, ad oggi non smentito, afferma che in pratica Feltrinelli nasconde i sessant'anni del Gattopardo, e non vuole ricordarlo con una adeguata festa di compleanno.
«Sono portato a pensare che Feltrinelli non celebri i 60 di questo libro, celebrato in tutto il mondo, per una sorta di resistenza pratica. Perché loro credono che può ancora esistere una letteratura pedagogica di sinistra, e che funzioni soltanto quella. Il Gattopardo, che alla Feltrinelli ha dato successo e denaro, non rientra in questo schema. E del resto, è un libro terribile. È l'opera di uno scettico, non di un progressista mainstream».
….
«Il libro è uscito il 28 ottobre del 58. E secondo me c'è ancora, in un certo mondo culturale, quell'impostazione che allora fu data da due personaggi del calibro di Contini ed Eco. Che dicevano: il Gattopardo è una volgarizzazione di Proust. E in Carlo Feltrinelli, figlio di Giangiacomo e Inge, credo pesi ancora il pregiudizio di Vittorini sulla presunta non modernità di questo libro. La questione del pregiudizio sul Gattopardo non è mai stata superata. Anche se un grande intellettuale, Edward Said, il celebre autore di Orientalismo, ha fatto un saggio in cui sostiene che gli italiani sono stati il popolo dello spirito laico. Prima Lucrezio con il De rerum natura, poi Vico, poi Gramsci, poi Lampedusa. L'illuminismo di Lampedusa, aggiungo io, andrebbe celebrato in Italia come lo celebrano all'estero
».

All'intervista l'editore risponde a stretto giro di posta,  ribadendo l'importanza e la centralità del Gattopardo nella storia della Feltrinelli. Ma in sostanza resta il fatto che la festa non s'ha da fare.
Insomma, a meno di ripensamenti, succede che il conformismo retrospettivamente ha vinto la sua battaglia in casa Feltrinelli, prendendosi la rivincita sulle vecchie infrazioni all'ordine costituito?
Ma l’episodio, di per sé già molto spiacevole, stimola una domanda più ampia: nel generale impoverimento delle culture politiche a cui stiamo assistendo la sinistra si rifugerà nei territori sicuri della scomunica verso la dissidenza, da dove talvolta aveva sconfinato, magari leggendo e recensendo qualche libro Adelphi?

E dopo Tomasi di Lampedusa una fatwa colpirà anche Pasternak?

Aggiungerei, un po’ provocatoriamente: giacché ai Solzenicyn di fatto non è mai stata tolta.

(Articolo pubblicato con lievi differenze e senza link ipertestuali su l'Occidentale del 28 ottobre 2018)

giovedì 11 ottobre 2018

Il passaporto dello zampognaro



Quando si comincia a sentire aria di Natale - e ancora prima, durante la Novena dell’Immacolata - a volte nelle città arriva ancora lo zampognaro. Che poi in realtà sono sempre in due, perché uno suona la zampogna e l’altro la ciaramella: la coppia sembra uscita come per magia da un presepe napoletano, o da una stampa dell’Ottocento, salvo qualche particolare: la pelle ovina dell’otre adesso per lo più è surrogata da uno pneumatico, ed è difficile che indossino il giacchetto regolamentare di lana di pecora, se non per un voluto recupero vintage, o come abito di scena nelle sagre.

Se siete fastidiosi come me e li interrogate sulla provenienza, dopo qualche generico “Abruzzo”, insistendo e precisando saprete che in moltissimi casi vengono dall'area delle Mainarde, tra Valcomino e il Molise isernino, una zona dove la zampogna è trattata con tutti gli onori: ogni anno si tiene un Festival internazionale della zampogna (Acquafondata) e ci sono musei  dedicati (ScapoliVilla Latina). Non mancano neppure iniziative di serio recupero musicale, con in testa l'associazione Calamus e l'attività di Gianni Perilli. Cosicché adesso l’interesse musicologico per la zampogna ha travalicato l’area molisano-cominense e ci sono esecuzioni di maestri di alto livello come Ambrogio Sparagna e gruppi musicali di tutto rispetto come I Musicanti del piccolo borgo, per non dire dei bravissimi del gruppo locale Decalamus.


Gli zampognari che si incontrano nelle città nel periodo natalizio però continuano a suonare come una volta i motivi delle “novene” (frequentissima Tu scendi dalle stelle) e restano in pieno nel solco tradizionale degli artisti girovaghi: in passato dalla stessa area provenivano  anche altre figure, che potremmo raggruppare nella categoria dei circensi “minori”: suonatori e giocolieri vari, e poi  i mitici orsanti, ben documentati anche nell'appennino parmense. 





Si sa che di questa tradizione girovaga c’è più di una traccia nella letteratura. 

Ricordo un poco noto e "minore" Gabriele D’Annunzio nel racconto Le Vergini, pubblicato nel 1884: "avevano una religiosa e familiare letizia quei suoni che i ciociari di Atina traevano da un otre di pecora e da un gruppo di canne forate".






E poi, obbligatoriamente, D.H. Lawrence, con il romanzo La ragazza perduta del 1920 (Lawrence aveva soggiornato a Picinisco nel 1919) ambientato in paesi riconoscibilissimi, il cui co-protagonista è un suonatore ambulante proveniente proprio dalla Valle di Comino, finito a Londra girovagando.








Si sa un po' meno di altre fonti documentali più dirette, che pure non mancano: Ferdinando Galiani, segretario d'ambasciata a Parigi, in una lettera del 1764 Bernardo Tanucci, ministro del re di Napoli, parlando di una carestia di grano che in quell'anno afflisse il tutto il Regno, e dunque anche i paesi della Valcomino, accenna agli zampognari della zona di Sora che girovagavano per l'Europa e che in questo girovagare avrebbero anche appreso l'uso alimentare della patata. 

L' Inchiesta agraria  per il circondario di Sora(1) rammenta l'antica tradizione vagabonda dei montanari di Picinisco e San Biagio Saracinisco, suonatori e conduttori di orsi per spettacoli di piazza.
1. Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola 1880-1885, VII, p. 345


Alle fonti si è aggiunto da poco un documento ritrovato a Picinisco, in casa di Walter De Santis e Dina Antonelli, fortunatamente sopravvissuto a più di 150 anni di possibili agguati di muffa, di topi, di acqua, di fuoco: Walter e la nuora Michela stanno sgombrando un po’ di roba dalla cantina, e sono lì lì per buttare il contenuto di un vecchio cassetto, quando Michela con uno sguardo rapido è attirata da un foglio piegato. Lo prende, lo apre e scopre che è un documento del 1848, un “passaporto” che autorizza Biasio Capocci -suppongo trascrizione di Biagio-  di condizione zampognaro, a passare il confine del Regno delle Due Sicilie per recarsi nello Stato Romano (si può ipotizzare a Roma per la Novena, come quelli del racconto di D’Annunzio a Pescara).





Dello zampognaro Biasio, che con questo recupero diventa in qualche modo un personaggio concreto della microstoria sociale, veniamo a sapere che ha 35 anni, è di statura bassa, ha il naso “giusto”, il mento regolare, la barba ordinata, i capelli e gli occhi “castagni”. Pare di vederlo, no? 

Ma avrà suonato la zampogna o la ciaramella? questo non c’è scritto, e non credo che lo sapremo mai.

Ultimo particolare, importante per la storia sociale. Guardate proprio in testa: Biasio non paga il bollo, il passaporto è gratis “perché povero”




Conclusione: lo zampognaro Capocci Biasio, di Picinisco, è girovago, va a suonare anche all'estero ed è povero. Certificato, con tanto di firma, dal Capitano della Guardia Nazionale Antonio Ferri.



Ringrazio Walter De Santis per avermi autorizzato a pubblicarlo e a scriverne. E Michela Gentile, per averlo salvato e per avermene mandato la foto  praticamente in tempo reale.

A chi voglia approfondire in modo dettagliato e documentato il tema, con riferimento specifico all'area molisana, consiglio la lettura di "Le migrazioni degli zampognari molisani nei secoli XIX e XX", di Antonietta Caccia.

giovedì 4 ottobre 2018

Le Apuane di Fosco Maraini tra Puntato e Col di Favilla



Faggi. Ancora boschi di faggi solenni, come quelli delle mie full immersion estive, il famoso “oro verde”, un oro che non ha impedito alla nostra gente di andarsene a lavorare e a vivere un po' meglio, lasciando i vicoli semideserti e le case col fuoco spento. 
Anche qui, tra Alta Versilia e Garfagnana, in mezzo alle Apuane, boschi di faggi e storie di paesi abbandonati.




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Lasciata la macchina più o meno al Passo Croce, imbocchiamo il sentiero numero 11, direzione Puntato.
Il Puntato è un'area prativa a circa 1000 metri slm, con case e ricoveri sparsi. I monti vicini sono il Corchia, la Pania, il Freddone e il Pizzo delle Saette.
Passato il padule di Fociomboli con la sua particolare vegetazione, ci si imbatte in una gran quantità di “maestaine”, piccole maestà familiari votive, con dediche e immagini: la serie si conclude con la chiesa della Santissima Trinità, una specie di maestà maior. È aperta, ci stanno lavorando. Mi viene subito in mente Attilio Bertolucci e il suo non troppo lontano Appennino parmense. “Durerà, la costruzione boschivafin che dura il dolore e la pietà di chi abita ancora le terre alte che noi abbandonammo". 







Qui per la verità la pietà della gente che abita le terre alte è attiva e piena di buon umore: i due uomini che stanno riparando il tetto ci spiegano con tranquilla partecipazione che ci si dice la messa alcune volte durante l’anno, che la chiesa è di pertinenza della diocesi di Pisa e che a Terrinca (borgo di riferimento) c’è una bella festa medievale. Insomma, tutto il loro rapportarsi a noi viandanti  ha un sapore caldo di continuità, di cura e di amore per il proprio passato.


Si continua ancora un po' tra viali di faggi, poi il paesaggio cambia, subentra il castagneto, finché non si arriva alla chiesa di S.Anna a Col di Favilla, a 938 m slm. Qui si interseca un sentiero importante, il numero 9, che va da Isola Santa alla Foce di Mosceta: prendiamo nota per un largo giro ad anello quando la luce si riprenderà il suo spazio primaverile.


Il paese, nato come alpeggio dei pastori della Versilia, crebbe nel corso dell'Ottocento. Nel 1928 c'era ancora molta gente: lo testimonia il suo ospite più noto, Fosco Maraini, importante figura di etnografo e orientalista, grande alpinista, nonché molto altro. Qui fece le sue prime esperienze di montagna e da queste parti, "tra le due Panie" volle essere sepolto.
Abbiamo anche una sapida ricostruzione di quella vacanza giovanile.
Aveva ancora un centinaio di abitanti all'inizio degli anni '50 del 900, poi in un decennio la popolazione si spostò completamente verso il basso. Adesso è completamente disabitato.


Col paese anche la chiesa fu abbandonata e nel 1977 subì pesanti atti di vandalismo. Restaurata -per la pietà di quelli che “abitarono” le terre alte- ogni anno a luglio, in prossimità della festa di Sant’Anna, vi si celebra la messa: i discendenti dei colletorini (questo è il nome degli abitanti), si danno appuntamento e fanno visita anche al piccolo cimitero poco distante. Ci sono anche oggi (23 settembre), per la ricorrenza del restauro: si mangia polenta e cinghiale, costo 20 euro.


Tutto qua, semplicemente prefigurazione del destino della dorsale appenninica che si sta spopolando tutta? Devo dire che, ancora pieno di ammirazione per questo legame che non si spezza, il pensiero è corso subito all'inverno - le case vuote, il vento, la pioggia- e con una fitta dolorosa ho percepito  in queste visite estive un intristente retrogusto cimiteriale.




La tomba di Fosco Maraini nel suggestivo cimitero dell'Alpe di Sant'Antonio, di fronte alla sua Pania