domenica 27 gennaio 2019

Gnore Abbate racconta: una catastrofe sanitaria nella Settefrati del 1763




Questa storia per me è cominciata molti anni fa, quando trascrissi una cronaca depositata nelle pagine del malandato archivio parrocchiale di Settefrati.
A quei tempi (possiamo dire proprio così) le informazioni viaggiavano solo sulla stampa, e il lavoro fu ospitato da Don Dionigi Antonelli, allora Rettore del Santuario di Canneto, nel Bollettino del santuario, nativamente destinato alla registrazione delle offerte, che don Dionigi cercava di arricchire con contributi di taglio "culturale".
Alcuni anni dopo fu ripubblicato da Antonio Vitti nel suo sito, così importante per la memoria del paese: intanto già il web moltiplicava per mille la possibilità di diffusione e di conoscenza.
Adesso che abbiamo cambiato di nuovo era e i social riescono a produrre un effetto esponenziale anche nella diffusione orizzontale, ho pensato che fosse utile rimpacchettare il tutto e offrirlo alle nuove ondate di lettori, non solo i millennial , ma anche le schiere di anziani irretiti da Facebook.
Ma come è successo? 
Molto semplicemente, con la logica di "una ciliegia tira l'altra". Qualche giorno fa mi sono imbattuto nella parte più antica dell'archivio, che a suo tempo  avevo fatto restaurare da due vere professioniste del ramo. Già questo ri-incontro casuale mi aveva indotto a qualche esortazione "feisbucchiana" sull'importanza della memoria, con le annesse fissazioni sul destino della piccola patria, non so quanto richieste...
E così è rispuntato anche l'Abate Carelli, col suo racconto della carestia del 1763-1764, altra tessera del puzzle della memoria. 
Ma andiamo con un certo ordine.

Gli ultimi due fogli del Liber matrimoniorum della parrocchia di Santa Maria della Tribuna di Settefrati sono occupati dal racconto della carestia degli anni 1763-64. L'autore, l'abate Michelangelo Carelli, fu parroco di questa chiesa dal 1762 (compare come economo parrocchiale già dal 1758) al 1783.

Gli avvenimenti dei quali l'abate fu testimone furono certamente grandi. Racconti di letterati viaggiatori, come Pierre-Jean Grosley, e cronache giornalistiche anche straniere ci restituiscono un quadro impressionante della carestia che in quegli anni colpì un po' tutta la nostra penisola, ma in modo particolare lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli.
In questi anni, grazie alla rete, sono venute alla luce tante testimonianze relative a varie località del Regno. In particolare considero ovviamente molto interessante per la sua contiguità geografica la relazione dell'abate Carlo Coletta su San Donato.
Anche a una rilettura fatta dopo tanti anni -e con minore giovanile ingenuità - devo dire che nel racconto c'è una certa stoffa: l'abate non  se la cava con una predica moralistica intessuta di esempi biblici, come forse il solenne inizio potrebbe far pensare: è molto attento alle impennate dei prezzi e all'accaparramento dei beni, è accurato nella descrizione dei fatti sociali conseguenti alla carestia (vanificazione dei legami di parentela, abbandono della pietas per i defunti e di ogni altra pratica religiosa nell'acme della moria e della fame), pittoricamente efficace nella descrizione degli episodi più drammatici di fame e di morte.

Comunque, eccolo qua, fotografato e trascritto: buona lettura!






AVVERTENZA — II testo si presenta in buone condizioni, tranne alcune irrimediabili sottolineature a penna, frutto di qualche precedente lettura improvvida. Nella trascrizione sono state rispettate la forma e la grafia dell'abate Carelli; solamente sono state sciolte le abbreviazioni. Le parole di cui non ho avuta certezza assoluta di interpretazione sono seguite da un punto interrogativo, quelle per me decisamente illeggibili sono state  sostituite  da  asterischi.
  
AD  FUTURAM REI  MEMORIAM

Grande in vero fu il castigo da Dio mandato sopra le Pentapoli infami distruggendole col fuoco disceso dal cielo: più grande fu quello del diluvio universale, in cui restò miseramente sommerso il genere umano, eccettuata la picciola famiglia di Noe. Ma se con saggio occhio si rimira il flagello da Dio mandato negli ultimi mesi dell'1763, e primi sei mesi del 1764, pare, che si debba dire grandissimo essere stato questo castigo. Imperoche sdegnato Iddio contra li viventi di tal tempo per i loro peccati, fin dal mese di Maggio del 1763 cominciò a castigare, poiché in detto mese fino al 20 di Giugno fu tanto continua l'acqua, che non v'era giorno, in cui non piovea, e non v'era ora del giorno in cui la pioggia non si facea sentire. Fu tale, e tanta lunga questa pioggia continoa, e diuturna che l'erba oltrapassò il grano, il quale restò da questa sottoposto, e fu di poca quantità.
La mistura poi con tant'acqua sementata parte non nacque, parte appena nata infracidassi, parte spuntata da terra, così restò senza pro­durre nemeno un'acino. Arrivati gli 20 di Giugno del 1763, si chiusero le catarattere del Cielo, scomparirono le nuole, e finì di piovere. Prin­cipiò una siccità si terribile, che ne nel mese di Giugno, ne nel mese di Luglio, ne in quello d'Agosto, ne nei principii di Settembre cascò dal cielo non dico una gocciola d'acqua, ma ne pure di ruggiada. Onde  per implorare la divina misericordia si facevano da pertutto proces­sioni di Penitenze, novene, stazioni, esercizii, missioni, ed altre opere pie; (1) ma queste non arrivarono a movere la misericordia di Dio. Si vedeva bensi in detti giorni penitenziali il cielo coperto di nuvole piene d'acqua, ma mai piove.


Si seccarono per tanto le biade, il grano, granturco, e in fine l'erba in guisa tale che le bestie non aveano che mangiare; seccaronsi ancora tutte le frondi degl'arbori, e ciò che è maraviglioso, si seccarono pure mólti arbori. Le fonti, quali mai aveano mancato, persero il loro corso, e si seccarono affatto, e non si trovava goccia d'acqua se non ne fiumi, li quali ancora erano impiccioliti. Non si trovò frutto di sorte alcuna; noci, ghiande, olive non si viddero; fu tale, e tale la scarsezza de frutti, che ne meno i spini portarono quei soliti frutti amari, de quali si andava in cerca. L'uva fu tanto poca, che appena bastò per mangiarla fresca, e ti vino si rimise in tanta poca quantità, che veniva tre, e quattro grani la carrafa (2), e si beveva a basto. Tutti i viveri mancarono in ogni genere, e in ogni specie.
A questa siccità si terribile si vidde un caso molto orribile, e fu questo. 1 pastori guidando le loro greci al pascolo, e non trovando erba, si saziavano di terreno, e di foglie secche cascate dagl'arbori quan­tunque d'està. Li Padroni vendemiando le loro chiuse, erano costretti ad unirsi sette, o pure otto patronali (?), e non potevano empire una vasca dì uva, e alcuni, anzi moltissimi non poterono vendemmiare, perche non aveano l'uva.
Finita la raccolta scarsissima, si viddero li miseri uomini, e donne a turme a turme uscire Per la canpagna, a cavare erba di ogni sorte, e se la mangiavano cruda; e perché fra queste erbe che prendevano, c'erano delle cattive, ne nacquero molti dissordini. Le labra de viventi sempravano erba, e tale era la faccia e le mani: poi si gonfiavano i piedi fino alle genocchia, nasceva una diareia, e morivano miseramente (3)..
Alcuni si trovavano morti per la campagna con la bocca piena di erbe crude. Fu tanta, e tale la morte, che nella mia Parrocchia di S. Maria della Tribuna ne morirono venti in Settefrati, e dieci in altri paesi. Volesse il Cielo che solamente questi in Settefrati morti fussero, ma non è cosi per che l'altre parrochie ne contaro trecento, e più. Ne in Settefrati solamente fu questa mortalità, ma ne paesi convicini, e lontani; e si sa per relazione certa, che alcuni paesi restarono spopolati.
E tutti questi morirono di pura fame; perche il grano arrivò a docati sette li tomolo, e in Foggia fu venduto docati dieci il tomolo; la mistura docati sei, e più il tomolo, i lupini carlini trentuno il tomolo; e per dir tutto in una parola il pane di orzo, e di spelta si pagò un grano l'oncia (4). Non trovando gli viventi il pane, ma cibandosi solamente di erbe, si erano tanto intisichiti, che non potevano stendere un passo, non sapeano proferire altra parola, fuorché pane, pane, pane.
Crebbe però il castigo di Dio, poiché consumandosi a poco a poco fino a morire, sfuggivano la chiesa, e li SS. Sacramenti, e vedendosi avanti l'occhi la morte non pensavano all'anima, ma al pane. Le Madri, e li Padri abbandonarono gli figli; i figli li genitori; li parenti gl'altri parenti; l'amici l'altri amici; ognuno viveva solo, e se qualcheduno avea un tozzo di pane, di nascosto non se lo mangiava, ma se lo divorava. Tutto era lutto, tutto miserie, ed io non avea animo di comparire, perche avanti le porte delle case, per le strade, per le piazze, nella Chiesa si vedevano spettacoli.


Non si trovavano persone, che conducevano i morti alla Chiesa, e li Parrochi erano costretti a sborzare per pagare chi li conduceva, ne voleano danaro, ma solamente il pane; poiché de danari non poteano servirsi, mentre non era la libertà poter comprare il pane. Non si udi­vano pianti, suoni di campane per i morti, ma senza funerali e preci erano buttati dentro gli sepolcri, e quanti venivano per essere pagati quelli, che li conducevano, dicevano abbiamo sepellito il tale, la tale etc. Arrivò tant'oltre questo, che alla fine si conducevano con le bestie.
Il Re sentendo tanta mortalità per il regno, ordinò, che non si sepellissero i morti nelle Chiese, ma un miglio fuori de paesi in luogo dissabitato. 
Non fu persona alcuna, che prendesse moglie (5), non si sentivano canti, e suoni, non vi era differenza di giornate. A spettacolo sì orribile non ci fu persona alcuna, che si movesse a compassione; ma li ricconi sempre più avidi di danaro, strengevano le vettovaglie, accrescevano il prezzo, e se il danaro non andava avanti, non si trovava robba.  Nascondevano il grano dentro le botti, muravano le porte delle stanze ac­ciocché il prezzo arrivasse al non plus ultra.
Finalmente mossosi a compassione il buono Dio nel mese di Giugno 1764 (quando i ricconi pensavano di empire le cisterne di da­naro) uscì nelle parti di S. Germano, e ne luoghi vicini il grano nuovo, e si vendè a carlini dodici il tomolo e di mano in mano andava sce­mando, finche arrivò a carlini otto il tomolo di grano; e di mistura se ne fece in tanta quantità, che non si ebbe dove collocarla, e di mupo (?), ghianda, e altro fu tutto (?), e tale, che per la quantità fu disprezzata.
Prima di porre fine, sappiate o posteri, che in tempo di carestia si grande, che simile al mondo non è trovata, e spero che non si trove­rà, gli viventi non solamente abbandonarono le proprie carni, nulla curando se perdevano e moglie e figli, figlie, e mariti, e Padri, e Madri etc. ma ancora abbandonaro li loro averi, non sementandogli, non potan­dogli, e restarono tutti incolti. O posteri ben fortunati e mille volte for­tunati, che in tempo tale non eravate nel mondo, termino, e vi scongiuro che sempre pregate Dio, accioche da simile flagello vi liberi. Amen. Settefrati in tempo della orribile Carestia incominciata nel fine del 1763, e principio... ne metà del 1764.
D. Michel'Angelo Abbate Carelli osservatore di tale spettacolo.

(1) Anche dalla Gazzetta di Berna (7 aprile 1764) apprendiamo che a Napoli si facevano processioni e preghiere per scongiurate gli effetti della carestia.
(2) Il grano era la decima parte del carlino; 10 carlini facevano un ducato. La caraffa corrispondeva a Napoli a l. 0,7.
(3) II Lalande  nel Voyage d'un Francais en Italie, Parigi 1769, parla di infelici che morivano di fame o delle malattie che porta la cattiva nutrizione (vol V, pp. 209-210). E il quadro clinico che emerge dalla descrizione del nostro abate è chiarissimo: si tratta di morti per fame e per le conseguenze della nutrizione scarsa e cattiva.  L'estensione della carestia è confermata anche da una lettera del 1764 di Ferdinando Galiani, segretario d'ambasciata a Parigi a Bernardo Tanucci, ministro del re di Napoli,  che contiene anche una curiosità sull'introduzione della patata  nella nostra area: parlando della carestia di grano che in quell'anno afflisse il tutto il Regno, e dunque anche i paesi della Valcomino, accenna agli zampognari della zona di Sora che girovagavano per l'Europa e che in questo girovagare avrebbero anche appreso l'uso alimentare della patata. 
(4) Il tomolo è una misura di capacità che ancora oggi si usa nelle nostre zone; corrisponde a l. 55,5; un tomolo di grano pesa circa 45 Kg. Un'oncia equivaleva  a grammi  26.
(5) Questa informazione è confermata dal Liber matrimoniorum: non ci sono matrimoni registrati dal 20 settembre 1762 al 15 luglio 1765.

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