mercoledì 27 maggio 2020

L’Italia complessa, tra piccole patrie e lingua nazionale



A sentire le discussioni su problemi di lingua, grammatica e dintorni, che capiti a cena con gli amici o sui social, a spanna possiamo calcolare che in 95 casi su 100 l’attenzione è concentrata sulle regole, col seguito delle precisazioni o delle recriminazioni del caso: i congiuntivi che perdono terreno, l’abuso dei termini stranieri, i femminili delle professioni e – soprattutto – della politica. Tra parentesi, quest’ultimo tema porta spesso a una vera e propria guerra guerreggiata, con almeno tre schieramenti in campo: la “destra” (dico per capirci perché in realtà ha adepti ambigenere e trasversali) del “maschile – magari sovraesteso – fino alla morte”, dimentica che una qualunque Badessa dell’amato medioevo avrebbe scaraventato dalla finestra uno che si fosse permesso di chiamarla Abate; un vasto “centro”, disponibile ad accettare con varie gradazioni che se una professione o una carica è esercitata da una donna in italiano si esprime tendenzialmente col femminile (quelli che non si stupiscono tanto di assessora – che il termine gli paia più o meno “suonare bene” –  come non si sono mai stupiti della preside o della professoressa); e quelli talebanicamente coerenti fino in fondo con la lotta contro ogni discriminazione causata dall’espressione grammaticale della differenza di genere (quelli dell’orribile asterisco o della raccomandazione ONU di usare sempre partner e mai fidanzato o fidanzata). Ho detto 95 e non 100/100 perché ho lasciato un margine alle curiosità etimologiche, che una certa divertita sopravvivenza in società la conservano sempre.

Eppure basta qualche ricordo di studi liceali per sapere che a lungo il tema dominante nella nostra cultura è stato un altro, più storicamente corposo: la questione della lingua nazionale e il suo rapporto con la storia d’Italia. Da questo punto di vista dispiace che oggi nella classe politica il legame tra lingua e nazione sia assente nella riflessione e nella formazione (per quel poco che esiste).
È vero che dopo secoli di incertezza abbiamo raggiunto un certo equilibrio tra lingua ufficiale, lingua scritta e lingua parlata, una specie di immunità linguistica di gregge; e lo diamo così per scontato che le preoccupazioni correnti, quando ci si imbatte in questioni di lingua, non si riferiscono più alla scelta sofferta del modello, come fu per Dante, per Bembo e per Manzoni, per fare tre nomi-chiave sull’argomento: per salvaguardare un po’ di terzietà non metto allo stesso livello Graziadio Isaia Ascoli che, benché meno noto al grande pubblico, secondo me aveva dalla sua molte ragioni in più del romanziere, suo illustre contemporaneo. 


Se poi volessimo dare una definizione di nazione abbastanza semplice, senza addentrarci troppo nella complessità dei percorsi della storia e della filosofia politica, potremmo convenire su quella della Treccani: “il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla sua realizzazione in unità politica”. Non a caso, anche in assenza di stato unitario e di sovranità nazionale, la lingua è stata sempre considerata un ‘marcatore’ fondamentale di identità culturale e storica. È fin troppo scontato ricordare come la mescolanza della rivendicazione dell'identità linguistica con quella politica sia stata una molla del nazionalismo a partire dall'Ottocento. E fino al secolo scorso le riscoperte/reinvenzioni linguistiche hanno prodotto rivendicazioni politiche importanti, talora a cascata, anche contestualmente a quella che sembrava la crisi irreversibile degli stati-nazione: basti pensare al gaelico nella narrazione dell’indipendentismo irlandese o al basco e al catalano in Spagna. A loro volta alcune lingue, da fenomeni in via di estinzione, sono state rivitalizzate dall’uso politico e hanno conosciuto una nuova fioritura, sia pure un po' artificiale.

È risaputo che la storia d’Italia – più di quella di altre nazioni europee – è caratterizzata da una forte polarità tra aspirazioni centrali e realtà locali: le regioni, ma anche le città e i territori ad esse storicamente legati. Questa tendenza a generare varietà e differenze è profondamente radicata, e in qualche modo è inserita nel nostro DNA collettivo, al punto che i federalisti più accesi amano utilizzare il plurale “Italie”. Perciò la vicenda della lingua, che ne è insieme lo specchio e la causa, non dovrebbe essere riservata agli specialisti: il problema atavico della nostra malferma unità linguistica al di fuori di una cerchia ristretta di intellettuali ha avuto tante ricadute sociologiche e politiche; e merita qualche sforzo di lettura, sia per capire meglio il ruolo “di sistema” che la lingua ha giocato nella nostra storia, sia per accrescere la consapevolezza (e la connessa responsabilità) dell’enorme patrimonio culturale di cui siamo temporanei custodi anche da questo punto di vista.


Se diamo uno sguardo all'Italia con la prospettiva della “lunga durata”, vediamo che sotto lo strato della lingua unitaria sono vissute e vivono ancora identità locali profonde, non sempre necessariamente in conflitto con il quadro nazionale. Lasciando da parte le parlate francesi, occitaniche, ladine, tedesche, slovene, croate, greche e albanesi (tecnicamente straniere) presenti all’interno del nostro territorio, sia lungo il confine alpino che in certe zone del Meridione, è tutto il resto del tessuto dell’Italia che si colora un po’ dappertutto di piccole patrie, quelle che la rendono complessa e da qualche punto di vista anche complicata: sono le numerose varietà dell’Italiano, spesso dotate anche di espressioni scritte.
Un esercizio molto interessante può essere quello di dare un’occhiata anche veloce a una carta linguistica d’Italia: vediamo un intreccio di cultura, lingua e vicende politiche che lì per lì ci potrebbe anche stupire: la colorazione evidenzia nettamente la divisione tra il gruppo dei dialetti padani e quelli mediani-centrali; poi c’è la grande zona delle parlate meridionali, e infine le due isole con le loro lingue. Addirittura si può osservare come la divisione tra parlate mediane e parlate meridionali segua all'ingrosso i confini dello Stato Pontificio, mentre a Est la lingua ritaglia i contorni della Toscana granducale e a Sud una grande macchia di colore contrassegna in modo praticamente unitario i dialetti del Regno delle Due Sicilie.

Ma non abbiamo ancora esaurito tutta la meraviglia, perché il racconto della lingua ci può far viaggiare ancora più indietro nel tempo: se sovrapponiamo la nostra carta linguistica moderna con una cartina storica dell'Italia antica, scopriamo che le divisioni attuali non rimandano solo all’Italia preunitaria, ma riproducono con una certa approssimazione la geografia delle popolazioni preromane. E così Liguri, Celti e Veneti al Nord, Etruschi in Toscana, Latini e Osco-Umbri (con le diramazioni Picene, Sannitiche, Irpine, Lucane) riemergono come se ci fosse dato il privilegio di assistere all’apparizione improvvisa dei nostri antenati ancestrali, prima della grande unificazione politica e linguistica dell’Italia operata da Roma.

L’idea che tutto questo magma di popoli e di lingue, sorprendentemente tenace e duraturo nel tempo, sia il materiale con cui è impastata la nazione italiana – a partire proprio da quella che possiamo considerare la nostra prima organizzazione unitaria, quella dell’Italia ripartita in regioni voluta da Augusto – può arricchire la riflessione politico-culturale, anche nella prospettiva di un federalismo macro-regionale maturo.
Ma per completare il quadro dovremo vedere come la lingua nazionale, con la sua straordinaria potenza, si è innestata nella varietà e nei particolarismi delle tante Italie, con una dinamica che non è riducibile semplicisticamente alla polarità scolastica, in gran parte di ascendenza marxista, tra dialetto e lingua, o tra popolo ed élite.



(pubblicato con lievi differenze sull'Occidentale del 28-5-2020)

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