La vicenda, in breve, è questa: Teresa Focinari, che all’epoca doveva avere un 14-15 anni, emigrò con tutta la famiglia prima in Argentina e poi negli Stati Uniti. Siamo verso la fine del secolo XIX, quando la grande emigrazione postunitaria era già cominciata.
Fin qui niente di strano, è stato il destino di tante famiglie italiane, al Nord e al Sud, specie nelle zone di alta collina e di montagna, ma non solo.
La cosa strana che mi è capitata è invece un’altra: pochi anni fa i suoi nipoti vennero in vacanza in paese e mi mostrarono un vecchio foglio trovato in un cassetto del comò quando la nonna era morta.
Il foglio conteneva una poesia, evidentemente improntata (anzi praticamente quasi tradotta) alla A Silvia di Giacomo Leopardi. In questo caso è impossibile, per ragioni cronologiche, che Leopardi si sia ispirato al nostro testo, ma il poeta che aveva perduto la sua Teresa/Silvia, pur nella sofferenza d'amore, aveva anche giocato - e parodiato - con la cupa e mortifera desolazione del testo leopardiano.
Studia che ti ristudia, che cosa viene fuori? Nel retro del foglio traspare una scritta un po’ sbiadita: “Card. de SD”!
È dunque lo stesso poeta … e con questa A Silvia rivisitata si chiarisce anche l’enigma del verso finale di Sante Martine, ossia prende nome e volto la donna lontana “penzata”.
Teresa/Silvia nel frattempo si era sposata, forse dimenticata anche degli sguardi timidi e senza approcci di Carducce, ma lui non mancò, qualche anno dopo, di fare un tardivo e romantico outing, facendole avere una lettera con la dichiarazione fuori tempo. Che Teresa/Silvia seppellì in fondo “aglie trature", epperò di strapparla non ebbe il cuore.
Insomma, fatto sta che non si rividero più e che, senza l’iniziativa dei nipoti, questa bella pagina sarebbe stata proprio dimenticata, con una notevole perdita per la nostra terra e, forse, un po’ anche della letteratura.
A questo punto però darei la parola a Carducce: ascoltiamolo in silenzio.
Silvia, n’te le recuorde
quand’ive na quatrara
che gli’uocchie accuescì bieglie
e scive brevegnosa
senza vardà a nesciune?
Nascuse dentre casa
i’ te vedeva fatié,
la voce se sentiva
cantà nfin’ alla Sbòta
Tu te penziéve iròssa,
fastima che na casa
ne fuoche e du’ criature,
glie striglie e le cagline
I’, ngima a chélle lébbra
n’petéva mai staccà
e sule da lentane
ne vuoce me sennava
La séra - éva de magge-
pe’ tutte s’ammeschiéva
gl’addore lle ienèstre,
la risa lle vaglione
Passata la nvernata
la casa la chiedèste:
l’Amèreca lentana
se tòse pure a te.
Mo’ chiénte ammerecane
glie fuoche nen gl’appicce,
la stima s’abbìa sola,
e tu vié alla fattoria.
Glie striglie? e chi glie tè?
Cagline? bèll’ e pronte,
ma casta pure lòche
sta chiéna de criature.
E chiù d’ogn’ atra cosa
tu n’te si’ morta gione
ngraizéme a Di’ e bevéme,
ca la salute è tutte.