mercoledì 25 settembre 2019

Quando Facebook si mette a censurare. E ultimamente lo fa spesso

La vicenda è nota, ed è stata pure (abbastanza) ampiamente commentata: Facebook e Instagram hanno “bannato” le pagine di Casapound e di Forza Nuova
Anche a chi predilige la razionalità più asettica - e aborre l’utilizzo pervasivo della categoria del complotto come chiave interpretativa della storia e della cronaca - non dovrebbe sfuggire la coincidenza temporale di questa decisione con la svolta normalizzatrice impressa al quadro politico italiano attraverso l’operazione parlamentare rappresentata emblematicamente dal secondo dei due Giuseppi.
Ma è soprattutto nel merito che la decisione stride: alle due associazioni, che nel frattempo hanno impugnato la decisione dell’azienda, non è imputata alcuna violazione specifica delle regole, ma una generica, e giuridicamente nebulosa, “propagazione di odio”.  E quanti siti, quante pagine, quanti commenti propalano odio e bizzeffe senza essere non dico bannati, ma neppure rimproverati con un buffettino?

Commenti tanti, dicevo. I legalisti a tutti i costi, per sfuggire al discorso sulla libertà di espressione conculcata, un po’ farisaicamente si aggrappano alla natura “privata” dell’azienda col supremo argomento “a casa mia faccio entrare chi voglio”, senza riflettere nemmeno un minuto sul rilievo pubblico che i social hanno assunto nel nostro sistema di comunicazione globale. Poi ci sono i contrari, tra i quali -centratissimi-  Marcello Veneziani e Eugenio Capozzi, ossia quelli che hanno capito che tira un’aria bruttissima. Con una stilettata sintetica e ben assestata Mattia Feltri, sotto il titolo Fascisti che non ti aspetti, ha scritto sulla Stampa: “Anzitutto è ignota la colpa specifica di CasaPound e Forza Nuova, se non quella generica di avere «diffuso l’odio», capo d’imputazione accettabile forse nei tribunali di Stalin e applicabile, ben oltre l’estrema destra, a metà della popolazione attiva online”.  E ancora: “Si coglie, stavolta lampante, il paradosso di Facebook e Instagram, aziende private – ormai evolute a servizio pubblico per l’uso quotidiano di partiti, sindacati, associazioni – che dichiarano inaccettabili pagine espressione di consiglieri comunali, dunque accettabili per la Repubblica”. Conclusione: “Sulla legge dello Stato troneggia una legge privata, opaca e sovranazionale con cui si separano i giusti dagli ingiusti: se ne sono viste poche di robe più fasciste”. Tombale, a parte la giusta osservazione di Marco Gervasoni, che si potrebbe scrivere benissimo “comuniste”, considerato quanta attività di questo tipo è ascrivibile al mondo delle Vite degli altri.

Perciò il discorso si potrebbe chiudere qui, se non fosse che ad illuminare compiutamente la sgradevolezza dell’episodio ci è venuta in soccorso su Twitter (che è un po’ i Parioli dei social) la senatrice Monica Cirinnà, al solito combattiva, entusiasta e definitiva: “Oscuramento profilo social di Casapound è atto dovuto. Chi predica odio e intolleranza violenta deve essere punito e non può continuare ad infestare i social e il dibattito pubblico. Finalmente! E’ necessario bonificare i social da chi odia e discrimina”.  (Notoriamente lo fa solo Casapound, quelli che augurano la morte e distribuiscono insolenze e insulti a Meloni e Salvini e ai loro seguaci fanno sane operazioni di propaganda benefica, alias “bonifica”, letteralmente da bonum facere).


Fissiamo l’attenzione sulle parole chiave usate da questa aralda dei diritti: atto dovuto, infestare, bonificare: una costellazione lessicale, priva di indicazione di fatti specifici, riconducibile ideologicamente alle modalità inquisitoriali del Novecento totalitario, a cui opportunamente accenna Feltri. L’obiettivo è togliere la parola al nemico ideologico in quanto tale, avendo l’accortezza di restare sempre seduti dalla parte del giudice, senza mai dare un’occhiata ai comportamenti e alla storia dei personaggi del proprio album di famiglia.
Ma consoliamoci: in fondo un progresso c’è stato. In altri tempi “i maggior sui” (ideologici si intende) avrebbero auspicato almeno la deportazione nei campi di lavoro, oggi si attizza e si spinge solo alla bocca cucita. Per la verità, sono progressi un po’ lenti, e soprattutto sempre all’interno di una cornice logica deprecabile, perché alla fine della fiera funziona sempre come ai bei tempi: punto uno, io ho diritto di parlare perché sono nella direzione del progresso e del senso della storia; punto due, sono io che stabilisco chi ha diritto di parlare, e chi deve tacere, anche se nessun tribunale della Repubblica ha riscontrato un reato specifico e neppure ha ravvisato nella tua organizzazione i termini della violazione delle leggi sull'apologia di fascismo e sulla ricostituzione del partito fascista; ma il nucleo censorio è che sei contrario al senso della storia, a quell'orizzonte bellissimo e pacificato dell’umanità nuova che da humus ideale del vecchio sogno gnostico si è via via trasfuso nei messianismi rivoluzionari (Voegelin docet) e oggi è di fatto inglobato anche nella visione delle grandi piattaforme digitali, se ne hanno una ulteriore il profitto. E quindi, niente diritto di parola agli sfigati del “Dio Patria e Famiglia”, a suo tempo così amorevolmente trattati sui social, e via via –estensivamente- a tutti quelli che si oppongono alla costruzione del mondo post-umano dell’ultima rivoluzione, quella che ha al centro la corporeità della persona e la sussistenza dei residui corpi sociali. Basta cominciare a porre il principio generico: il resto seguirà. E vabbè, non pretendiamo troppo: bisogna accontentarsi dello pseudo-liberalismo che passa il convento: revisioni e refresh, giammai riesame dei principi.
E dunque grazie, senatrice, uno per la chiarezza degli obiettivi, esplicitati senza ipocrisia; e due per la generosa disponibilità a limitare la sanzione al “solo” diritto di parola.

(Pubblicato con altro titolo su L'Occidentale del 12-9-2019)

lunedì 23 settembre 2019

Toscana profonda: vetrine, case chiuse e indignate smemorate.

Capita che un consigliere regionale di nome Roberto Salvini, eletto nel collegio di Pisa con tantissime preferenze (le male lingue dicono che cognome e un abile confezionamento dei volantini elettorali gli abbiano dato una bella mano), in una riunione della commissione per lo sviluppo economico, si avventuri nella proposta di arricchire il turismo con l’offerta di ragazze a pagamento ben esposte in vetrina.
“Non ce lo vogliamo togliere il prosciutto dagli occhi? Io sono stato 20 anni fa alle fiere in Germania, in Olanda è uguale, in Austria è uguale, in Francia è uguale: troviamo le donne in vetrina. E' un turismo anche quello”. 
Alla riunione è presente Monia Monni, vicepresidente del gruppo consiliare PD, che pubblica a stretto giro un post su Facebook, dal titolo “Lega contro le donne” (discretamente generalizzante, si può dire?). Immediatamente il video dilaga sui social e rimbalza sul TG RAI regionale e su altri media; in parallelo risale i palazzi delle istituzioni, da dove arriva un salace commento del governatore Rossi, che propone a Salvini (Roberto) di mettersi intanto lui nudo in vetrina, non senza avergli preventivamente ricordato la vigenza nell'ordinamento e il valore esemplare della legge Merlin del 1958. Di rincalzo, da Palazzo Madama la Senatrice Caterina Citi esprime così la sua indignazione: “Lo sfruttamento della prostituzione è una forma di schiavitù del nostro tempo e non è ammissibile sentirne parlare diversamente. Ci aspettiamo che tutta la Lega prenda posizione e condanni quelle dichiarazioni". 

E così avviene in tempi tutto sommato molto stretti. Al Salvini (Roberto) era già arrivata una secca lavata di testa da parte dell’ex ministro al turismo Gian Marco Centinaio, che esprimeva un categorico dissenso dal consigliere toscano, e definiva la proposta priva di fondamento e non condivisa da nessun esponente della Lega, letteralmente una “stupidata”.  
Nel giro di poco la vicenda arriva in qualche modo a conclusione, con un provvedimento di sospensione dal partito a firma del commissario regionale Daniele Belotti: “Toni e contenuti delle dichiarazioni del consigliere Roberto Salvini sono di una gravità tale che non possono essere sottovalutati e presi alla leggera. La Lega da sempre ha una linea politica, con i fatti ancor più che con le parole, di assoluta difesa del ruolo delle donne”. E, continuando, spiega pure come:
“Il nostro Movimento vuole la riapertura delle case chiuse non per mettere le donne in vetrina, ma, anzi, sull'esempio di società civilmente evolute come Svizzera e Austria, per toglierle dallo squallore delle strade. Il fine è quello di garantire più sicurezza nelle città, eliminare il degrado, stroncare radicalmente l’indegno sfruttamento delle donne da parte di organizzazioni criminali, prevenire malattie a trasmissione sessuale e far emergere l’enorme ed incontrollata evasione fiscale, garantendo, in tal modo, entrate tributarie miliardarie per lo Stato”. Che dire? Un comunicato che francamente lascia sbalorditi: in sintesi, le case chiuse sì, ma senza vetrine, importante è che le tapparelle siano ben calate.

Appurato tristemente che questa metà del campo non gode esattamente di buona salute, diamo un’occhiata più attenta all'altra parte, sempre popolata da pronte e combattive tutrici del corpo delle donne, giustamente indignate per ogni riproposizione della bontà -o almeno della praticabilità legale- della prostituzione, con o senza vetrine.
Ecco, loro sono così indignate e pronte alla reazione da rimuovere un punto essenziale. E cioè che nel loro partito allignano numerosi sostenitori e sostenitrici della vendita del corpo delle donne a scopo riproduttivo. E anche qualche autorevole utente. Deve essere senz'altro un’amnesia - benché una strana amnesia di gruppo- perché non è possibile credere che l’accettazione di un pagamento per una prestazione sessuale equivalga a rendere schiavo il corpo delle donne, mentre il pagamento per condurre a termine una gravidanza e consegnare il prodotto al committente sia inscritto in un orizzonte di civiltà, di progresso e di emancipazione. Un orizzonte così alto e nobile che va anche legalmente tutelato, in modo tale che chi avanza perplessità e dubbi o si spinga audacemente al dissenso sia dichiarato omofobo o qualcosaltro-fobo e penalmente perseguito.





domenica 22 settembre 2019

Le radici liberal del totalitarismo dei "buoni"

Lunedì 16 su Il Foglio in apertura campeggiava un titolo che da solo valeva il giornale: “Il totalitarismo dei buoni”. Come non identificarsi? Quante volte è stato questo il nostro pensiero implicito, di fronte agli argomenti del mainstream politicamente corretto?
A seguire Mattia Ferraresi ha confezionato tre paginate di intervista e commenti allo scrittore americano Bret Eston Ellis (1964-) in occasione del suo ultimo, polemicissimo, libro White, che apparirà presto in traduzione italiana presso Einaudi.

Ma di che si tratta? Intanto Ellis non è un parruccone, né certo uno del Tea Party. E’ un romanziere, collocabile nell'area liberal, con uno stile di vita da liberal e che ha alle spalle una cospicua serie di volumi e sceneggiature, tra cui il fortunatissimo American Psycho. Semplicemente ha raggiunto la saturazione per i luoghi comuni e le imposizioni che a suo parere stanno distruggendo la libertà di pensiero negli Stati Uniti e ha cominciato a ragionarci sopra. Qualcuno, penso con un po’ di esagerazione, ha parlato di un nuovo samizdat; altri, forse più appropriatamente di un nuovo Tom Wolfe: più Tom Wolfe che Solzenicyn, suggerisce Ferraresi.
In ‘White’ ce n’è per tutti: documentari, film, articoli di giornale, case editrici, premi, università e istituzioni culturali obbediscono a una serie di precetti basati sulla nuova ideologia progressista, quella che propone ”l’inclusività universale eccetto per quelli che osano fare domande”. Chi si azzarda a farlo “è in qualche modo fottuto”.
E aggiunge: “Questa è una forma totalitaria recente, che non ho mai sperimentato nella mia vita prima. La libertà di espressione e di opinione è stata sempre esaltata qui, ma non è più così. E non riesco a capire perché non c’è una reazione a quello di cui tutti sembrano lamentarsi a parole”.  Nel mirino di Ellis, omosessuale dichiarato, anche il “fascismo gay” e il suo conformismo imposto, e le associazioni che hanno santificato “l’elfo gay”, figura magica e mansueta, che non fa domande complicate, non viola gli ordini di scuderia, si presenta come vittima, vota diligentemente a sinistra, non si azzarda a prendere in considerazione ciò che viene dal mondo conservatore, specialmente da quello di impronta cristiana”.
Insomma, il liberalismo, da posizione ispirata alla difesa della libertà, è stato ridotto in un distorto movimento autoritario che arriva a negare il diritto di parola con molotov e spranghe. E proprio a Berkeley, patria del free speech negli anni Sessanta.

Molti altri spunti costellano i suoi ragionamenti, e altri idoli di terracotta vanno in frantumi: l’isteria delle conversazioni e degli editoriali dei grandi giornali, la crescente incapacità di discutere pacatamente, fino alla confessione pazzesca dell’editorialista del NYT che dichiara di soffrire d’insonnia dal giorno della vittoria di Trump.  Ma il cuore della perversione secondo Ellis sta in una cultura che non sa che farsene dell’arte e della bellezza, ignora il potere della metafora e riconduce tutto alla lettera, allineandosi a una serie di regole prescrittive su cosa l’arte dovrebbe dire, cosa dovrebbe essere, quali valori dovrebbe rappresentare, cosa dovrebbe includere o escludere. Ed è così che abbiamo perso la capacità di leggere un libro o vedere un film senza produrre continue associazioni ideologiche.
Su tutto domina il vittimismo di quelli che, se incontrano un’opinione opposta alla loro, si sentono violentati e l’asserzione diffusa secondo cui nei confronti di Trump chi non è un attivista è un collaborazionista. 
Ma questa non vi pare di averla già sentita?

(Pubblicato sull'Occidentale del 18-9-2019)

sabato 21 settembre 2019

Sindaco o sindaca? Teniamoci stretto il genere prima che dilaghi il no gender

Lo sappiamo bene che quello della lingua non è un terreno neutrale. Basta ricordare che nell'orwelliano 1984 la Neolingua è il veicolo privilegiato per modificare la mentalità, come spiega efficacemente Wikipedia: “Fine specifico della neolingua non è solo quello di fornire, a beneficio degli adepti del Socing, un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Una volta che la neolingua fosse stata radicata nella popolazione e la vecchia lingua (archelingua) completamente dimenticata, ogni pensiero eretico (cioè contrario ai principi del partito) sarebbe divenuto letteralmente impossibile, almeno per quanto attiene a quelle forme speculative che derivano dalle parole”.

Con intensità variabile nel corso del Novecento tutti i regimi totalitari sono stati tentati da questo “rimpasto”, così paradigmaticamente descritto da Orwell, e nei paesi dell’Est i dissidenti avevano ribattezzato “lingua di legno” quella artificiale e fuorviante usata dagli organi di informazione del partito.
Le prescrizioni di tipo linguistico non sono state disdegnate neppure dal Fascismo, sia pure volte prevalentemente a ripulire la lingua italiana dai forestierismi. Alcune di quelle sostituzioni hanno avuto anche successo, al punto che oggi le usiamo in tutta tranquillità senza ricordare il contesto in cui sono nate: una per tutte, ‘autista’, coniato nel 1932 per sostituire lo chauffeur, di origine francese. E già, perché i termini imposti o consigliati dalla politica devono poi passare al vaglio della lingua viva, quella specie di grande fiume dove le trasformazioni e le persistenze si scontrano, si sovrappongono, soccombono o vincono.
Nel nostro mondo, quello della globalizzazione, la coercizione è tendenzialmente “liquida”, anche se in molti casi non meno prescrittiva, come sanno bene giornalisti, educatori, insegnanti, per i quali esistono veri e propri repertori di parole da evitare e di quelle da usare al loro posto: è uno dei vettori dell’avanzata del “politicamente corretto”, così magistralmente descritto nel volume di Eugenio Capozzi.

La questione del genere dei nomi e degli aggettivi, specie se riferita a professioni e cariche pubbliche, è un aspetto importante dell’interazione società-cultura-politica e si inserisce sicuramente in un contesto in cui l’autorità politica tenta spesso di fornire un indirizzo prescrittivo. E’ una questione che riemerge periodicamente, quando per l’esternazione di un personaggio politico, quando per la decisione di un’amministrazione comunale, quando per una polemica sui social. Giusto il 5 agosto il Corriere delle Sera riportava la notizia di una delibera del Comune di Milano sull'uso della declinazione “di genere” negli atti amministrativi e nella denominazione delle cariche, tipo assessore/assessora, sindaco/sindaca, revisore/revisora. Il tutto accompagnato da un perentorio “declinare al maschile è una violenza”: se un organismo pubblico –al 99,99% governato dalla sinistra- si esprime in questi termini, è abbastanza spiegabile che da destra partano risposte a palle incatenate, e che alla dichiarazione “non mi chiami assessore, io sono assessora” dell’una, la parlamentare di destra, rivolta al Presidente della Camera, risponda “mi chiami deputato, non deputata”.
Spiegabile, certo, ma è davvero un peccato che su una questione così delicata non si riesca a ragionare con saggezza, e anzi prevalgano caricature improbabili come “presidenta”, che tanto successo ha avuto nei confronti di Laura Boldrini, che semplicemente voleva essere chiamata LA Presidente (una cosa che per esempio le suore fanno da qualche secolo).
Io non mi rassegnerei facilmente all'idea che la risposta al prescrittivismo burocratico debba essere l’ignoranza. Purtroppo in una nota veloce non c’è tempo per articolare fino in fondo un tema così complesso, ma comunque vorrei dare qualche spunto per riflettere meglio, uscendo dalle reazioni puramente di rimbalzo.

Partiamo dal punto nevralgico: l’italiano ha due generi, maschile e femminile. I generi grammaticali non ricalcano al 100% la distinzione biologica e culturale maschio/femmina, ma certamente hanno un rapporto molto forte con essa, potremmo dire che sono l’impronta della differenza sessuale nel tessuto della lingua. Anche questo deve essere sottolineato, perché non è difficile constatare che la battaglia per le desinenze femminili alla fin fine risulta un po’ di retroguardia: quando sarà percepita con lampante evidenza la “violenza” del doversi dichiarare appartenenti a un sesso specifico tramite la desinenza apposta alla denominazione della propria funzione, si comincerà – mi sembra una facile profezia - a esigere tassativamente una terminologia “no gender”, che è la vera frontiera della modificazione prescrittiva della lingua e della mentalità
Per la verità nel corso del tempo senza tante circolari la lingua italiana, sedimentando i mutamenti sociali, ha dolcemente introdotto il femminile nelle professioni e nelle attività svolte da donne, man mano che questo fenomeno si allargava. A partire dalle badesse medievali - nessuna delle quali avrebbe mai gridato ”mi chiami abate!” -  fino alle maestre, alle professoresse, alle dottoresse (il femminile reso con –essa in luogo del semplice –a ha avuto molta forza, e in generale i linguisti ritengono che questi termini sono entrati troppo saldamente nell'uso, per tentare di modificarli d’autorità). 
Per completare il quadro ricordo pure che gli aggettivi e i sostantivi che terminano in –ente rendono il femminile con l’articolo, per la semplice ragione che derivano da participi presenti latini ambigeneri. Quindi, per carità, nessuna presidenta, sia pure per ritorsione polemica. Ci sono poi alcuni nomi maschili che terminano in –a, tipo il poeta, come nella prima declinazione latina: anche qui teniamo lontano poeto e astronauto! Infine c’è un gruppo di nomi come la guardia e la sentinella che sono femminili anche se riferiti tradizionalmente a maschi.


Questo è il quadro di riferimento, sia pure ridotto all'essenziale. Ma che fare con sindaca e assessora? Niente vieta che entrino legittimamente nell'uso, perché questa è una tendenza forte della lingua italiana, ma… giacché ci siamo vediamo qualche ultimo ma.
Intanto ci sono avvocate che preferiscono essere chiamate “avvocato” perché più professionale (evidentemente non sufficit il prestigio dell’Advocata nostra, ma tant'è, e siamo in un altro campo); conosco dottoresse di ricerca nient’affatto destrorse che preferiscono definirsi dottore: quindi il problema non tocca solo le deputate di destra. Il fatto è che, pur non esistendo il neutro, in italiano c’è il maschile “sovraesteso”, che in pratica svolge una funzione ambigenere (il leone mangia la carne riguarda anche le femmine, mentre la leonessa allatta i cuccioli). Soprattutto per le funzioni pubbliche e negli atti formali il tipo Il Sindaco, il Rettore, l’Assessore ecc. seguito da titolo e nome femminile potrebbe tranquillamente convivere con formulazioni al femminile utilizzate in un contesto descrittivo e narrativo: se vogliamo raccontare che la sindaca è incinta, sarebbe perlomeno strano usare il maschile nel nome e nell'aggettivo. 
Al di là dell’esempio estremo, mi pare evidente che tutta la questione è alquanto complessa (d'altronde ciò che non è complicato è falso, stando alla lezione di Gomez Davila) e che nel rifiutare il prescrittivismo burocratico è bene non dimenticare che il fiume (della storia e della lingua) scorre e che la tradizione non è un museo

Personalmente, sia pure con molta benevolenza verso i “resistenti”, preferisco pensare che se c’è la sarta e la maestra, ci sarà anche la sindaca.
Ma, sia ben chiaro, nella battaglia finale tra l’assessora e l’asterisco obbligatorio, io so già da che parte stare.

(Pubblicato sull'Occidentale del 16-8-2019)

Adesso chiedete scusa a Scruton





Se fosse il sequel di un film si potrebbe intitolare “Roger Scruton, il ritorno” o anche più trucemente “la vendetta”, se non fosse che il termine poco si addice all'educazione britannica e al notevole senso estetico del nostro.


L’antefatto.
I lettori dell’Occidentale ricorderanno che a metà aprile Scruton era stato rimosso dalla presidenza della commissione governativa Building More, Building Beautiful, che si occupa di edilizia residenziale, in cui era stato chiamato per la sua fama di pensatore e soprattutto per i suoi importanti contributi di estetica.

L’allontanamento era stato causato da alcune affermazioni “politicamente scorrette” su Soros, sulla Cina e sul termine islamofobia riportate in un’intervista al New Statesman, a cui aveva fatto seguito l’immancabile tempesta Twitter, che ne aveva amplificato la portata.
Il fatto che a rimuoverlo fosse stato un ministro del governo conservatore e che non fosse stato difeso dal premier aveva accresciuto lo stupore dei commentatori, dal momento che Scruton è considerato universalmente un pilastro del pensiero conservatore.
Il provvedimento era stato ampiamente commentato nel mondo anglosassone, ed aveva suscitato critiche anche in ambienti della sinistra libertaria. In Italia, oltre a noi dell’Occidentale, se ne erano occupate varie testate; e su Vita e Pensiero era apparso un intervento di Sergio Belardinelli.


Che è successo nel frattempo? Un’analisi accurata fatta anche con la trascrizione integrale ha dimostrato in modo incontrovertibile che George Eaton, del New Statesman, acerrimo nemico di Scruton, aveva forzato il testo e il contesto dell’intervista, tagliando le dichiarazioni in modo capzioso. E il giornale ha dovuto fare marcia indietro, pubblicare il testo vero e scusarsi.

Risultati immagini per Spectator Scruton

A ruota il ministro Brokenshire, con una lettera allo Spectator, il settimanale che si era mobilitato in difesa di Scruton, lo ha invitato a dare di nuovo il suo importante contributo ai lavori della commissione: “Sono lieto anche che il New Statesman abbia pubblicato una rettifica all'intervista originale, che non rappresentava correttamente e interamente le sue idee come avrebbe dovuto. Come sa, mi rincresce che la decisione di rimuoverla dalla presidenza della Commissione sia stata presa nel modo in cui è stata presa. Mi dispiace: soprattutto perché è avvenuta sulla base di un resoconto chiaramente parziale del suo pensiero. Sto ora valutando la prossima fase del lavoro della Commissione. Se lo desidera, vorrei invitarla a un incontro per discutere di tale lavoro e di quale ruolo lei sarebbe disposto a svolgere nel portare avanti l’importante agenda che interessa tanto a entrambi”.
Pare che anche Teresa May, dalla zona Cesarini del suo mandato come premier, gli abbia rivolto un invito analogo.
I media inglesi- dalla BBC all’Independent  fino al progressista Guardian- hanno dato conto del provvisorio finale. In Italia che io sappia finora se ne è (come al solito meritevolmente) occupato Tempi.

Dunque tutto il caso è rientrato e sotto controllo?
Di sicuro, stando a quanto dichiarato da un portavoce del ministro, pare che il filosofo incontrerà presto il ministro Brokenshire.
Resta il fatto che la ferita è stata profonda e ne rimangono tracce vistose, come testimonia il commento di Scruton:
“Questa esperienza è stata molto spiacevole, non da ultimo per i giudizi affrettati di media e politici. Mi ha particolarmente umiliato il comportamento del ministro, che mi ha licenziato in forza dell’articolo del New Statesman senza nemmeno chiedermi se riportasse correttamente quel che avevo detto. Mi hanno stupito anche i commenti di Downing Street e il fatto che il Partito conservatore non abbia fatto alcuno sforzo nel suo insieme per difendermi. Sono grato al New Statesman quanto meno per questo: questi fatti umilianti mi hanno fatto rendere conto della autentica crisi morale del Partito a cui, nonostante tutto, ancora appartengo”.
(Pubblicato anche sull'Occidentale del 17-4-2019)